È una storia esemplare che
illustra il comportamento delle truppe di occupazione piemontesi e
dei galantuomini locali all'indomani dell'unità d'Italia e il
concetto di "giustizia" o meglio di prevaricazione "mafiosa"
applicato alle nostre genti. Non sono una brava narratrice ma la
storia non è semplice da raccontare e ho omesso molti particolari.
I fatti si svolsero a Terrasini,
allora noto come Favarotta, piccolo centro a 35 km da Palermo e
riguardano da vicino la famiglia di mia madre. I fatti riportati non
sono solo frutto del racconto di mia nonna e di mia madre ma sono
anche ripresi da quanto riportato, in maniera edulcorata, e
documentato dal sociologo ed economista N. Colajanni nel suo libro
Nel Regno della mafia, edito da Rubettino nel lontano 1900.
Ecco i fatti: All'inizio del 1861
la Guardia nazionale arrestò, arbitrariamente, alcuni membri della
famiglia Palazzolo-Pecorella (I Picuredda) due dei quali furono
ammazzati in carcere. Un vizio siciliano, questo, mai perso. Della
morte dei due Palazzolo fu accusata la famiglia Bommarito e due
esponenti di questa furono, da lì a poco, barbaramente trucidati per
vendetta. Ovviamente fu istruito un processo al termine del quale
però i Bommarito furono assolti per non aver commesso il fatto.
Intanto era finito sotto processo
anche il comandante della guardia nazionale, tal Vito Di Stefano,
che aveva arrestato i due Palazzolo, uccisi in carcere. Il Di
Stefano presentò delle nuove prove, gentilmente fornite dai
Palazzolo, che tirarono in ballo nuovamente i Bommarito, nella
persona di Vito, che fu immediatamente arrestato.
Frattanto, i Palazzolo-Pecorella
avevano stretto amicizia con il piemontese Serpi, generale dei
carabinieri, e un bel giorno costui invia a Vito Bommarito,
nuovamente detenuto in attesa di giudizio, il sig. Ignazio Citati,
Capitano d'arme e il sig. Giuseppe Sanfilippo, consigliere di
prefettura che in cambio dell'estinzione dei processi in corso (come
se si trattasse di una compra-vendita di noccioline) propongono il
matrimonio tra Pietro Palazzolo (Picuredda), figlio del sindaco di
Favarotta, e la figlia tredicenne ,Anna, del Bommarito.
Il Bommarito, altezzosamente
rispose che non aveva figlie da maritare. Non contenti i commissari
si rivolsero alla madre della ragazza, Grazia e ad altri parenti. Ma
questi demandarono ogni decisione al padre. A questo punto Vito,
capendo che difficilmente avrebbe potuto contrastare la prepotenza
governativa, pensò bene di accettare la proposta ma in
considerazione della troppo giovane età della figlia propose che
quest'ultima trascorresse , prima delle nozze, due anni in collegio.
Il generale Serpi mandò il giorno seguente i suoi portavoce dal
Bommarito, che era sempre detenuto, per fissare la dote e dietro
lungo mercanteggiamento estorsero al Bommarito una dote di 600 onze.
Ottenuta la mano della fanciulla e la dote, fu dichiarato il non
luogo a procedere sia contro i Bommarito che contro il Di Stefano.
Potenza della "legge"!
Le cose però non andarono come
previsto. La ragazzina, non sappiamo se istigata dal padre o di sua
volontà, si rifiutò di incontrare e amare il suo "obbligato"
promesso sposo. Il Palazzolo, indispettito, ricorse nuovamente al
Serpi che non tardò ad attivarsi e ordinò al Bommarito, via lettera,
di presentarsi immediatamente "alla sua presenza". La lettera,
datata Palermo 6 agosto 1863, si concludeva " Se ritardasse( a
presentarsi) altri 5 giorni si potrebbero verificare delle cose
disgustose".
Il Bommarito si recò a Palermo,
giurò e spergiurò che era la figlia a rifiutare il matrimonio e non
lui, pregò e imprecò ma non riuscì a convincere il Serpi. Fu allora
portata la ragazzina dal Serpi e ancora una volta questa si rifiutò
anche quando il Serpi minacciò di rovinare la sua famiglia.
Annuccia, che mostrò in verità di avere un caratterino niente male,
si rifiutò ancora.
Le sedute col generale Serpi si
ripeterono più volte ma la ragazza non cedette e fu per questo, che
su ordine del generale, fu rinchiusa nel Collegio di Maria della
Magione, in Palermo.
La cosa però non finisce qui
perché adesso viene il bello. In quel periodo in Sicilia c'era lo
stato d'assedio e molti paesi venivano circondati dalle truppe regie
per scovare i renitenti alla leva (e per sedare o impedire le
rivolte contadine contro il nuovo regime che non manteneva le
promesse sulla riforma agraria). Dopo l'introduzione della leva
militare obbligatoria, fino ad allora sconosciuta in Sicilia, molti
giovani si erano dati alla macchia, rifiutandosi di andare sotto le
armi e il novello stato italiano nulla trovava di meglio che scovare
colla forza i "renitenti".
Che fa allora il nostro generale
Serpi? Invia alla Favarotta, paese dove non c'erano renitenti, il
19° fanteria, fa circondare il paese e vengono arrestate nell'ordine
: Grazia Norello, incinta di otto mesi, moglie di Vito e madre di
Annuccia Bommarito, Laura Maniscalco, madre di Vito, Ninfa Madonia,
moglie di Rosario Bommarito, figlio di Vito, Giuseppa Serra, moglie
di Luigi Bommarito, fratello di Vito, Grazia Ventimiglia, moglie di
Gioacchino Ventimiglia amico di Bommarito, e inoltre Salvatore
Bommarito, altro fratello di Vito e Candido Comito, testimone a
favore del Bommarito . Come si vede una gran bella retata di
renitenti alla leva!
Il Serpi a questo punto chiamò il
giudice supplente di Favarotta e dopo averlo accusato di mancanza di
collaborazione gli intimò di risolvere la faccenda. Fu formata in
gran fretta una commissione di "amici e parenti" della ragazza col
compito di prelevare Annuccia dalla Magione e condurla alla presenza
del Serpi. La commissione cercò di ottenere dall'arcivescovo
l'ordine di consegna ma anche questo fu assai difficile da ottenere
tanto che occorse l'intervento di eminenti personaggi, tra i quali,
il dott. Pietro Cervello.
Finalmente avuta in consegna la
ragazza questa fu accompagnata dal generale. Ancora una volta
Annuccia, non si fece convincere al matrimonio e con le sue lacrime
riuscì finalmente a commuovere l'uomo che lasciò libera la ragazza
di tornare a casa, anzi in convento. La conclusione definitiva della
intricata ed incredibile faccenda si ebbe grazie all'intervento del
generale Govone che ordinò anche la scarcerazione delle "renitenti"
e dei renitenti.
Avevo
sempre pensato che mia nonna, una Bommarito, e mia madre
esagerassero nel raccontare questa storia ma mi sono dovuta
ricredere quando ho letto, seppure con meno dovizia di particolari
truculenti, l'intera storia nel bel volumetto di Napoleone Colajanni.
Fara
Misuraca
Settembre 2007 |