L’idea di Roberto d’Angiò
Si racconta che la decisione di
Roberto d’Angiò di
costruire un castello sulla cima della collina del
Vomero venne presa nel mese di settembre 1328 in
occasione di una sua visita alla
Certosa di San Martino,
appena soggiacente ed ancora in fase di costruzione.
Roberto seguiva e controllava di persona i lavori nei
cantieri del Regno. Spesso veniva accompagnato dal
figlio Carlo, duca di Calabria, l’erede al trono che non
sopravvivrà al padre
, che nutriva
idee diverse sugli stili
architettonici. Carlo era infatti sensibile alle nuove
correnti che, abbandonata la scarna e essenziale
architettura francescana, si rifacevano ai modelli
tradizionali del gotico classico e dei Certosini. Nel
1325, Carlo era stato il promotore della costruzione
della Certosa di San Martino, oggi Museo di
San Martino.
Roberto d?Angiò e
Sancha di Maiorca
Il re di Napoli, in perenne guerra con i
Siciliani,
capeggiava il partito guelfo italiano e garantiva alla
Chiesa il tributo feudale annuale della
Chinea: il nonno
Carlo aveva ottenuto il Regno dalla Chiesa in funzione anti-imperiale, aveva battuto e fatto giustiziare
Corradino di Svevia in piazza del Mercato. Insomma, la
casa d’Angiò rappresentava all’epoca il forte e fedele
alleato a garanzia del potere temporale del Papato. A
seguito del trasferimento della capitale da Palermo a
Napoli, voluto dal nonno Carlo (ma già
Federico II di
Svevia aveva prescelto la città partenopea per
instaurarvi nel 1225 la prima Università degli Studi del
Regno) in Sicilia era scoppiata la
Rivoluzione del
Vespro, mettendo fine al Regno fondato da
Ruggero II
d’Altavilla, e prosperato con
i re normanni e
svevi. Da
allora, sia Napoli che Palermo rivendicavano l’intero
territorio che andava dal Trento a Malta, e ciascuno dei
due Regni si chiamava “di Sicilia” (da cui la
successiva dizione “due Sicilie”). La
guerra, durata a
fasi alterne 90 anni, non vide alcun vincitore, perché
nessuno dei contendenti aveva la forza di prevalere
sull’altro. Roberto d'Angiò fu comunque per Napoli un
buon re: grazie alle sue iniziative ed a quelle della
regina Sancha di Maiorca, la città crebbe e furono
realizzate numerose opere.
L'idea iniziale di Roberto era quella di costruire sulla
vetta del Vomero un palazzo per sé e per la sua corte,
da adibire a residenza estiva. Il 7 luglio del 1329, con
suo decreto ordinò a Giovanni de Haya, reggente della
Curia della Vicaria, la costruzione di un Palatium in
summitate montanee Sancti Erasmi prope Neapolim,
pro habilitate persone nostre et aliarum personarum
curiam nostram sequentium... Nel decreto, si davano
precise istruzioni su tempi e modalità di costruzione,
sulla spesa massima (mille once d'oro, somma che però si
dimostrò di gran lunga inferiore a quella necessaria).
Nei documenti successivi relativi all'edificazione, non
si parlò più di palatium ma di castrum,
ossia di Castello: una fortezza strategica per la
posizione, sia a difesa del
Maschio, completamente
esposto alle offese dall'alto, sia a controllo della
città.
Il sito del Castello e la
Napoli di Roberto d’Angiò
Santa Chiara
Dal sito del castello si godeva la grandiosa visione del
Golfo di Napoli, dal lontano arco dei monti irpini al
Vesuvio, alla penisola sorrentina, alle isole di Nisida,
Capri, Procida, Vivara ed Ischia, fino alla collina dei
Camaldoli ed ai Campi Flegrei. Ai piedi del monte, la
città si spiegava nella sua interezza. Ai tre decumani ed i venticinque
cardini della città greco-romana, si erano aggiunte
grandi costruzioni: la cittadella francescana dedicata a
Santa Chiara, opera dei protomaestri Leonardo Di
Vito e Gagliardo Primario, che ospiterà affreschi di
Giotto (poi distrutti nel corso del Cinquecento per
ordine del vicerè spagnolo Bernardino Barrionuevo) ed il
monumento funebre in marmo di Carlo di Calabria, di Tino
da Camaino; il Duomo, la grande Cattedrale che
Carlo I d’Angiò aveva fatto erigere sui templi di Apollo
e di Nettuno; il convento domenicano con la Chiesa di
San Domenico Maggiore; la vicina Università degli
Studi; la basilica di San Lorenzo Maggiore,
eretta sulle rovine dell'Aerarium (i suoi
carceres sono oggi visitabili); la chiesa gotica di
Donna Regina, voluta dalla madre di Roberto, Maria
d'Ungheria; il tempio dei Dioscuri, sull'Agorà,
che successivamente sarà trasformato nella chiesa di
San Paolo Maggiore. Disseminati tra la massa di
edifici e monumenti, sorgevano altri conventi (della
S.S. Croce, di San Luigi, quello basiliano del Santo
Spirito) e chiese.
Alle opere di carattere religioso, si affiancavano anche
importati realizzazioni civili, come il nuovo arsenale
ed i nuovi moli del porto, ed istituzionali: il
Maschio
Angioino, con i suoi giardini; il bel palazzo del
principe di Taranto, di Berengario e quelli eretti da
altri suoi parenti o dai dignitari di corte; l'Ospizio
del fratello Giovanni d'Angiò; le nuove strade, piazzali
e giardini pubblici.
Castel dell'Ovo, come oggi, era proteso del mare, e
forse restavano ancora alcune rovine della
villa di Lucullo, e di
Megaride, la città rodia. Lungo tutto
l'arco di costa, fino alla collina di Posillipo, correva
la spiaggia di Chiaia. Attraverso la grotta romana di
Cocceio, di raggiungeva la greca Dicearchia,
ossia la Puteoli romana, e quindi Cuma. I Campi
Flegrei erano ancora ardenti al cospetto del mare, tra
colline racchiudenti i laghi di Lucrino, dell'Averno, l'Acherusia
(Fusaro) ed il Lete (Marmorto).
La costruzione
La sommità della collina, denominata Paturcium,
era di proprietà di tale Landolfo Rumbo. Vi sorgevano
una chiesetta dedicata a Sant'Erasmo, del X secolo, e
forse una torre di avvistamento normanna del XII secolo.
Gli architetti designati alla costruzione furono
Francesco de Vico e Tino da Camaino che operarono sotto
la direzione dello stesso de Haya. Tino da Camaino morì
nel 1336 e fu sostituito da Attanasio Primario, che alla
sua morte nel 1340 fu sostituito dal protomagister
Balducci de Bazca, che con il Vico completò l'opera nel
1342, qualche mese prima della morte del re Roberto.
Il Castello, col nome di Belforte o Belli
Fortis, come leggiamo nei documenti dell'epoca,
aveva lo stile dei castelli provenzali del tempo, come
si può rilevare dalla tavola Strozzi (II metà del
sec. XV). Il nome con cui veniva comunemente indicato,
era quello di Sant'Erasmo (dalla chiesetta di cui
si è accennato). Negli anni successivi, per graduale
corruzione della parola, venne chiamato Sant'Eramo,
Sant'Ermo, San Telmo ed infine Sant'Elmo, come appare
nei documenti spagnoli del XVI secolo. A pianta
rettangolare, aveva tre piani ed un balio, cioè
un'ampia cittadella, con altissime mura munite di due
torri quadrangolari. La fortezza era protetta lungo
tutto il perimetro da un secondo muro di cinta e
da un fossato.
Alcune delle vicende
della fortezza
Il “battesimo del fuoco” del Castello avvenne
nell’agosto del 1381, nel corso dell’assedio di
Carlo di Angiò-Durazzo, deciso a strappare il trono alla regina
Giovanna I d'Angiò, nipote di Roberto. Il 26 agosto,
caduto il Maschio e catturata la regina, anche il
Castello di Sant'Erasmo cedeva al nemico ed il capitano
Giannetto Mastrogiudice lo occupava in nome del nuovo re
Carlo III di Durazzo. Successivamente, nel 1438, nel
corso della guerra franco-aragonese per la successione
al trono di Napoli, Renato d'Angiò si rifugiò in
Sant’Elmo nell’inutile tentativo di contrastare
Alfonso,
re d'Aragona e di Sicilia, che nel mese di giugno del
1442 entrò d'impeto in Napoli. Dal 1442 al 1503, durante
il periodo in cui gli
Aragonesi furono signori di
Napoli, il Castello di Sant'Elmo ebbe la destinazione
per la quale Roberto d’Angiò lo aveva inizialmente
concepito, cioè meta di soggiorni e feste, soprattutto
per volontà di
Lucrezia d'Alagno, la bella favorita di
Alfonso d'Aragona. Nel 1535 il vicerè
don Pedro di
Toledo, in occasione del soggiorno a Napoli
dell'imperatore Carlo V, condusse il sovrano alla
Certosa, e quindi al Castello. E fu proprio qui, al
cospetto del meraviglioso scenario del Golfo di Napoli,
che l'imperatore concesse l'autorizzazione per il totale
abbattimento della fortezza e la sua ricostruzione in
maniera più confacente alle mutate necessità del
momento, dovute soprattutto all'evoluzione delle
artiglierie.
La demolizione e la
ricostruzione
Il vicerè Pedro di Toledo conferì l'incarico
all'architetto militare Pier Luigi Scribà (o Scrivà) di
Valencia, già noto per altre opere di fortificazione
compiute in Spagna, negli Abruzzi ed in Campania. I
lavori furono condotti tra il 1538 ed il 1546. Il Castel
Sant'Elmo, così chiamato per la prima volta nella sua
storia, venne edificato in forma stellata, a sei punte,
forma del tutto nuova e rivoluzionaria per quei tempi.
Fu circondata da un ampio fossato, che proteggeva le
ciclopiche mura. Sul maestoso portale il Toledo fece
apporre lo scudo marmoreo con l'aquila bicipite e le
armi dell'imperatore Carlo V. L'accesso alla sommità del
Castello fu realizzato con una rampa che, partendo dal
terminale della nuova strada, appositamente costruita
lungo le ripide pendici della collina, portava, dopo
aver oltrepassato il ponte levatoio gettato sul fossato
al grande portale d'ingresso. Seguendo, poi, il tortuoso
tracciato, ricavato a forze di piccone nella roccia,
arrivava in forte pendenza alla sommità della fortezza
e, quindi, alla Piazza d'Armi. Qui furono costruiti gli
alloggi per il castellano e per gli ufficiali del
presidio, l'edificio del Comando, il deposito delle
munizioni di pronto impiego e la chiesetta di
Sant'Erasmo che il Prati completò nel 1547.
Lungo i parapetti della fortezza vennero aperte le
cannoniere per pezzi a lunga gittata. Disotto il
piazzale e lungo il contorno stellato della fortezza,
furono ricavati nella roccia due piani di enormi locali,
adibiti a officine, magazzini, depositi di munizioni,
lavatoi, forni, cucine e vasti alloggiamenti per truppa.
Furono realizzate anche due grandi cisterne di cui una
di metri 40x30, capaci di contenere una notevole riserva
di acqua. Lungo le mura vennero aperte altre cannoniere,
a tiro obbligato, che servivano anche per dare
luce ed aria ai locali sotterranei. Nelle parti più
interne, furono realizzate le prigioni, in cui vissero,
soffrirono e morirono migliaia di prigionieri. Terminati
i lavori di costruzione, il Castello fu abbondantemente
fornito di artiglierie.
Una fortezza contro la
città
Per la sua possente mole, e per l'assoluto dominio che
esercitava sull'intera città, Castel Sant'Elmo fu sempre
guardato dai Napoletani con un senso di timore. Ed
infatti più che a difendere la città da un nemico
esterno, Sant'Elmo servì agli Spagnoli per offendere la
popolazione. Al capitano di Sant'Elmo furono concessi
gli stessi poteri che godeva quello di Castelnuovo e
cioè la giurisdizione civile e militare su tutto il
personale del presidio. Appena completato nel 1547, il
Castello fece sentire la voce dei suoi cannoni in
occasione dei gravi tumulti dovuti al tentativo
d'introdurre in Napoli l'Inquisizione spagnola, resa
ancora più atroce dopo le disposizioni emanate da
Tommaso Torquemada, l'inquisitore generale di Spagna. Il
ricordo di quell'avvenimento ci è stato tramandato con
la seguente epigrafe affissa nell'androne del museo di
San Martino:
Ai popolani di Napoli che nelle tre
oneste giornate di luglio MDXLVII laceri, male armati e
soli d'Italia francamente pugnando nelle vie dalle case
contro le migliori bande d'Europa tennero da sé lontano
l'obbrobrio della inquisizione spagnuola imposta da un
imperadore fiammingo
[Carlo V, n.d.r.] e da un papa it.no [Paolo III
Farnese, n.d.r.] e provando
ancora una volta che il servaggio è male volontario di
popolo ed è colpa de’ servi più che de’ padroni
Nella notte del 12 dicembre del 1587 si scatenò un
violento temporale ed un fulmine centrò in pieno il
deposito delle munizioni di Sant'Elmo: con un tremendo
boato saltò in aria buona parte della fortezza. Vi
furono 150 morti e molti feriti. Scomparvero tra le
rovine la palazzina del castellano e la chiesetta di
Sant'Erasmo. Per fortuna le due cisterne ressero,
altrimenti le acque, precipitando dalla montagna,
avrebbero travolto molte case della sottostante città.
Nel 1604, fu rinchiuso nelle prigioni del Castello il
famoso filosofo
Tommaso Campanella, frate domenicano,
irriducibile avversario delle scuole teologiche
ufficiali. Precedentemente era stato processato per
ribellione ed eresia, condannato a vita e rinchiuso
nell'orribile fossa del coccodrillo del Castelnuovo e
sottoposto alla tortura. In Sant'Elmo, il capitano Carlo
Spinelli, principe della Roccella, gli rese ancora più
difficile la vita. Eppure, in questo calvario, il
Campanella ebbe la forza di scrivere alcune opere e
delle belle poesie. Scrisse di sé:... mi furon rotte
le vene e le arterie; ed il cruciato dell’aculeo mi
lacerò le ossa; la terra bevve dieci libbre del mio
sangue; risanato dopo sei mesi, in una fossa fui
seppellito, ove non è né luce, né aria, ma forte fetore
di umidità e notte e freddo perpetuo. Dopo 33 anni
di reclusione, nel 1627 il Campanella fu trasferito a
Roma e preso in custodia dal Santo Uffizio. Dopo altri
due anni papa Urbano VIII gli concesse di espatriare in
Francia, dove si spense nel 1639 in estrema povertà.
Nel luglio del 1647 scoppiò la rivoluzione di
Masaniello, a cui è dedicata
un’ampia lettura a cura di
Brigantino – il Portale del Sud. Superati i nefasti
giorni della micidiale peste del 1656, che in pochi più
di sei mesi falciò circa 150.000 vite, nel marzo del
1659, nelle prigioni di Sant'Elmo fu rinchiusa con la
sua cameriera Giovanna di Capua principessa della Conca,
moglie di Giovanni di Capua, conte di Montuoro. Le due
donne morirono avvelenate il 10 aprile. Riporta Fabio
Colonna in Napoli Nobilissima vol. V che
miseramente finì la sua sozza vita di veleno, fattole
dare dai suoi parenti nelle vivande per levarsi
d'attorno sì brutto mostro che così vilmente disonorati
li avea.
Ernesto Tatafiore,
Masaniello
Il 7 luglio del 1707 le truppe austriache entravano
facilmente in Napoli ed in pochi giorni s'impadronirono
della città e delle fortezze, fugando il nemico. Ultimo
a cadere fu il Castel Sant'Elmo, che ammainò la bandiera
spagnola quando ormai il Regno di Napoli era perduto per
sempre dalla Spagna.
Nel 1734
Carlo di Borbone ebbe il merito di ridare
al Regno di Napoli la sospirata Indipendenza. A lui
si deve di aver risanata, ingrandita ed impreziosita la città, facendone una delle più belle,
eleganti e vive metropoli dei suoi tempi. I giorni
critici per Napoli ricominciarono a seguito degli
avvenimenti della Rivoluzione Francese. I cannoni di
Sant’Elmo ripresero a sparare contro la città. A tali
avvenimenti ed alla Repubblica Napoletana del 1799 sono
dedicate numerose letture di Brigantino – il Portale del
Sud: si consiglia di iniziare la consultazione dalla
monografia in tre parti “Dalla Rivoluzione Francese al
Congresso di Vienna”.
Dal 1844 al 1848
Ferdinando II faceva rinchiudere nel
Castello Carlo Poerio, Francesco Bozzelli, Mariano
d'Ayala, Matteo de Agustinis, Felice Ferri, Michele
Primicerio, Ottavia Graziosi, Cesare de Marinis ed
altri. Il
15 maggio del 1848, nel momento più critico
dell'insurrezione, il generale Ruberti ebbe l'ordine di
sparare sugl'insorti. Ma si rifiutò di eseguire
l'ordine. Per tale comportamento fu immediatamente
destituito ed esiliato.
Nelle prime ore del mattino del 9 settembre del 1860,
due giorni dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, il
presidio borbonico lasciò a testa alta Castel Sant'Elmo
e raggiunse la roccaforte di Gaeta per continuare la
guerra a fianco del re
Francesco II. Ma la valorosa (e
tardiva) resistenza a nulla valse per salvare il Regno.
Il 9 settembre, due ore dopo l'uscita dei borbonici, sul
Castello sventolava il Tricolore Italiano con lo stemma
sabaudo.
Castel Sant'Elmo come si presenta oggi
La Piazza d'Armi di Castel
Sant'Elmo
Castel Sant'Elmo, degnamente restaurato dopo l’ultimo
dopoguerra, è una consigliata meta di visita.
L’ingresso è lo stesso che realizzato dall’architetto
spagnolo Scribà per conto del vicerè Pedro di Toledo nel
XVI secolo, in occasione della ricostruzione totale
della fortezza angioina. Valicato il ponte sul fossato,
vi è un primo ingresso un tratto di rampa scoperta,
incassato tra le mura del Castello ed un antimurale
munito di numerose feritoie. La rampa scoperta termina
con il grande portale del secondo ingresso, sormontato
dal gigantesco scudo marmoreo dell'imperatore Carlo V,
scalpellato dai piemontesi nel 1860, ma con ancora
intatta l'aquila bicipite e l'iscrizione che ricorda la
costruzione. Superato il vestibolo, comincia il tratto
di rampa coperta, in forte pendenza ed con tornanti, che
attraversa la roccia e conduce al grande piazzale della
Piazza d’Armi. Vi sorgono i vari fabbricati un tempo
adibiti ad uffici, alloggi e servizi del presidio, e la
chiesetta di Sant'Erasmo completamente rifatta dopo
l’esplosione della polveriera nel 1587. Conserva i
sepolcri di alcuni castellani.
Salendo sulla banchina che gira lungo tutto il contorno
stellato della fortezza, si potrà ammirare la bellezza
del panorama di Napoli, con il suo golfo, le isole ed i
monti che si perdono all'orizzonte… per continuare,
nonostante tutto, ad amarla.
Alfonso Grasso
agosto 2007
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