Le mille città del Sud


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Napoli

il Palazzo Reale di Capodimonte

e la Certosa di San Martino

Reggia di Capodimonte, Salottino di ceramica

 

MERAVIGLIE REGALI

di Lea Mattarella [1]

Dai tesori di Capodimonte agli affreschi e agli intagli della Certosa di San Martino: Napoli custodisce capolavori immensi.

Napoli la afferri se la guardi dall’alto. È questo il punto di vista per cominciare a capirla. Per incantarsi sulle cupole su cui si riflette il sole, sovrastate da una rotondità che si eleva su tutte, quella del Vesuvio. Per scoprire il suo disordine, quella strana commistione di caso e genialità, valutare il peso di una vitalità che non è mai scontata perché si accompagna sempre a indolenza e mistero. Immaginare colori e suoni.

Eppure stare in alto. In una posizione di apparente distacco. Almeno per un po', perché subito questa città dominata da furori e da passioni, questa imperiosa regina dell'eccesso, costringe a una scelta: prendere o lasciare. Non è luogo da mezze misure. E così si finisce tra vicoli, rumori, colori, musica, presepi in ogni giorno dell'anno. Ma anche tra palazzi, chiese, monumenti e musei che sono tra i più belli d'Italia.

La regina Maria Carolina, dipinto del Landini, 1787, Museo di Capodimonte

Anche in questo eccessiva, Napoli racchiude meraviglie quasi con noncuranza. D'altra parte ne ha talmente tante. Così come ha infiniti modi di esprimersi: c'è la città solare, lucida e brillante del chiostro del Monastero di Santa Chiara dove, nel progetto di Domenico Antonio Vaccaro, artificio e natura si confondono e ti confondono. E c'è quella misteriosa e oscura, tutta buio e ombre fittissime, improvvisamente corrusche e rischiarate. Insomma la città caravaggesca.

Reggia di Capodimonte

Chissà cosa deve aver pensato Caravaggio quando giunse qui, in fuga da Roma dove la sua carriera di pittore era stata interrotta da una rissa terminata con un omicidio. La Napoli del Seicento era lo specchio della pittura che l'artista lombardo aveva perseguito fino a quel momento: un mondo di luci accecanti e ombre tenebrose. Era l'incarnazione fìsica del suo chiaroscuro. Una città di vicoli dominati dal buio. E nello stesso tempo un pezzo di Meridione, ovvero un trionfo di luci, tanto più potente quanto più inaspettato. Non meraviglia affatto che il naturalismo caravaggesco abbia attecchito in questa città più che altrove. I suoi seguaci attivi a Napoli, da Ribera a Stanzione a Battistello Caracciolo, dovevano aver riconosciuto nella sua arte così innovativa e rivoluzionaria, stravagante per i più, qualcosa di familiare.

Caravaggio ha lasciato qui due capolavori. È una sorpresa tra le stradine del centro storico trovarsi di fronte la tela che raffigura le Sette Opere di Misericordia, custodita fin dal 1607 all'interno del Pio Monte. Una scena che sembra ambientata all'esterno di un "basso" e che comunque, nonostante l'impetuoso realismo con cui il pittore ha voluto rendere le figure, mantiene un forte impianto scenografico, molto teatrale. Ed è la luce a creare questo effetto, insieme alla composizione tumultuosa, senza un centro, con quegli angeli sulla sommità che mostrano, nel loro abbraccio, quasi lo sforzo, la fatica di reggersi in volo.

Reggia di Capodimonte

L'altra opera di Caravaggio, la superba Flagellazione di Cristo, è conservata in quello che è uno dei gioielli della città: il Museo di Capodimonte. Uno spazio di incredibile bellezza, tra l'altro molto attivo sul piano delle proposte, come d’altra parte parte lo sono gli altri musei, da San Martino a Villa Pignatelli a Castel Sant'Elmo.

La vicenda di Capodimonte è un altro capitolo di vita napoletana. Non siamo più nel Seicento, in quello che è stato giustamente definito il secolo d'oro dell'arte napoletana. Abbandoniamo le luci e le ombre di un "viceregno" che ha vissuto l'eruzione del Vesuvio, la rivolta di Masaniello, la peste e quant'altro, che ha visto nascere i capolavori di un genio come Luca Giordano, per una nuova storia, i cui fili si intrecciano alle sorti della dinastia borbonica. Perché la Reggia di Capodimonte è una delle tante iniziative di Carlo di Borbone, incoronato re di Napoli nel 1734.

L'età dei Borbone, da un punto di vista artistico e culturale, è legata in primo luogo agli scavi archeologici che seguirono la scoperta di Ercolano e Pompei, ma anche ad alcune realizzazioni architettoniche importanti: l'Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga, il Teatro San Carlo di Antonio Medrano, la Reggia di Portici, la Reggia di Caserta di Luigi Vanvitelli e, naturalmente, Capodimonte progettato da Medrano e risistemato da Antonio Niccolini. Un edificio che nasce come residenza di corte ma che ben presto diventa luogo in cui re Carlo conserva le sue raccolte d'arte, in particolare la straordinaria collezione Farnese che aveva ereditato dalla madre Elisabetta. Raccolta in parte conservata ancora tra queste mura. Come per esempio, erano di Elisabetta Farnese i ritratti di Paolo III, immortalato quando era ancora cardinale in una perfezione classica e levigata da Raffaello, e poi ripreso con lo sguardo acuto e le mani vibranti in un capolavoro di Tiziano. Basterebbe la sala che li accoglie, sulle cui pareti si snoda un inventario di rossi che compongono una sinfonia di timbri e toni, per giustificare una visita al museo.

Reggia di Capodimonte

E invece c'è molto di più: la piccola eppur monumentale Crocifissione di Masaccio, la morbida e sensuale Danae di Tiziano che pare avvolta in una nuvola di borotalco, lo sguardo fiero di Galeazzo Sanvitale e quello profondo e un po' sperduto di Antea, entrambi ritratti dal Parmigianino. Ma anche la ricchezza cromatica del San Ludovico da Tolosa di Simone Martini, l'impianto narrativo dei quadri di Colantonio, l'eleganza formale di Atalanta e Ippomene di Guido Reni, la potenza espressiva, la voluttà che sprigionano le tele mozzafiato raccolte nella sala dedicata a Luca Giordano.

E poi le porcellane, i mobili, gli arredi. Tutto quel rifarsi allo stile antico, al mondo che riemergeva dalle ceneri delle città sepolte dalla lava. Uno stile rigoroso in cui trionfa una classicità priva di fronzoli. Che però convive con l'esuberante decorazione del salottino in porcellana che la regina Maria Amalia aveva voluto nella Reggia di Portici e che oggi sorprende ancora per la sua bellezza.

Ed è anche questa una delle tante sfaccettature della città; ogni cosa può armonizzarsi con il suo esatto contrario. Non si può chiedere a Napoli di avere un solo volto, di essere univoca e lineare. È qualcosa che non le appartiene.

Giuseppe Sammartino, Cristo Velato, scultura in marmo, 1755. Cappella Sansevero

E allora è vero che conviene salire sulla sommità della città, negli ambienti della Certosa di San Martino. Qui tra stucchi, marmi, affreschi e intagli mirabolanti si possono seguire le pagine di un racconto per immagini interpretato da Napoli nel tempo che comincia con la Tavola Strozzi, la sua più antica inquadratura dipinta. Ma è necessario anche inabissarsi a catturare segreti e misteri. Come quelli racchiusi nella Cappella Sansevero che esprimono il complicato programma del principe Raimondo di Sangro, bizzarra figura di scienziato poliedrico, inventore, scrittore, studioso di esoterismo vissuto nel Settecento. È lui a commissionare a Giuseppe Sammartino la scultura del Cristo velato. Ed è sconvolgente rendersi conto di cosa questo artista, tra i più attivi creatori di pastori di presepe, sia riuscito a realizzare con il marmo: sembra che la morte abbia appena smesso di far palpitare il corpo di Cristo ricoperto da un panneggio carico di pieghe, o forse di ferite. E la freddezza della pietra pare trattenere il calore della vita che si è appena conclusa. Ancora per qualche istante. Da più di due secoli.

Giuseppe Sammartino, Cristo Velato, scultura in marmo, 1755.


[1] Articolo tratto da: Lea Mattarella, Ulisse la Rivista di bordo dell'Alitalia. Lea Mattarella è critico d'arte, insegna a Brera.


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