Nel 1878
moriva a Roma Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia,
protagonista di tutte le guerre che portarono all’unità, ma
assente e lontano una volta raggiunto lo scopo di asservire la
nazione al Piemonte. In questi 18 anni non si poteva certo
sperare di dare all’Italia un’impronta unitaria, né in campo
culturale né in quello sociale. Troppe erano le differenze tra
le varie regioni, evidenziate dallo
stato di guerriglia che aveva devastato per anni le regioni
meridionali, e dalla politica filo-settentrionale dello Stato
sabaudo. Tali furono le premesse che portarono ad uno sviluppo
disarmonico che ancora oggi subiamo. Fu questo il prezzo che
l’intero Sud ha pagato all’unificazione. Un prezzo che divenne
ancora più alto a fronte dei provvedimenti depressivi e
repressivi che il governo piemontese adottò nei confronti
dell’ex Regno di Sicilia.
Una della conseguenze più pesanti per la neonata Nazione fu la
continuità dinastica: per la Sicilia fu - come ben descrive
Tomasi di Lampedusa – un cambiare tutto per non cambiare
nulla. Se avesse prevalso l’idea repubblicana di Mazzini,
egli sarebbe divenuto il signor Tomasi, invece, con il
subentrare della dinastia sabauda a quella borbonica, egli
rimaneva il principe di Lampedusa. Non solo: da infido barone
quale era visto dai Borbone, diveniva paladino della dinastia
sabauda. Se la Sicilia da provincia napoletana diveniva
provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò che
cambiava, cambiava in meglio. Per la Sicilia invece, finiva una
storia e ne cominciava un’altra.
Per comodità di lettura possiamo dividere questa nuova storia in
due fasi, una che va dal 1860 al 1915, alla prima guerra
mondiale, e un’altra che arriva fino ai giorni nostri.
La prima fase a sua volta possiamo dividerla in cinque periodi
1.
quindicennio
1861-1876: governa la destra storica
2.
decennio 1876-1887: governa la sinistra storica
3.
decennio 1887-1898: periodo crispino
4.
triennio 1898-1900: periodo di transizione con pericolo di colpo
di stato
5.
ventennio 1900-1920: età giolittiana
In questi anni la Sicilia partecipò alla guida politica ed
istituzionale del paese con due presidenti del Consiglio
(Francesco Crispi e Antonio Di Rudinì), 13 ministri e 184
deputati. Non era poco eppure la Sicilia non fu mai tra le
regioni egemoni.
Francesco Crispi
|
Antonio Di Rudinì
|
Periodo 1861-1876: la destra storica
Al di là del Faro |
Tutto ebbe inizio il 2 dicembre 1860 con il biennio
luogotenenziale che avrebbe dovuto servire a traghettare il Sud
dalla fase rivoluzionaria a quella di ordinaria amministrazione.
Fu caratterizzato da una dura repressione politica e sociale del
garibaldinismo
,
del
brigantaggio e della renitenza alla leva. Repressione che,
allora come oggi, si servì di una campagna “pubblicitaria”
denigratoria nei confronti del popolo meridionale e siciliano
presentando la diversa cultura come inferiorità. Cavour e
Vittorio Emanuele per mantenere la conquista appena fatta non
potevano fare concessioni. Se qualcuno intendeva opporsi al
nuovo ordine costituito, e non si riusciva a persuaderlo
a desistere, intervenivano i granatieri con la forza delle armi
.
La repressione politica contro Garibaldi e i suoi seguaci e la
repressione militare contro i filo-borbonici e i “briganti” |
La
repressione contro il garibaldinismo fu più profonda
e lacerante in Sicilia, mentre la repressione contro il
borbonismo e il brigantaggio interessò il meridione della
penisola. Come scrive Renda “…le violenze poliziesche e
militari nell’isola furono una sorta di appendice della guerra
al brigantaggio nella penisola. Il brigantaggio meridionale ebbe
le connotazioni di una vera e propria guerra civile. I Borbone
dall’esilio romano promossero contro il potere unitario regio
quella resistenza di massa che non avevano saputo opporre a
Garibaldi.”
In Sicilia il brigantaggio non era supportato dai Borbone, ma
derivava dallo sbando sociale seguito alla rivoluzione,
rinforzato dalla delinquenza che cominciava ad organizzarsi in
quella nuova forma che prenderà, a partire dal 1865, il nome di
mafia e dal rifiuto della leva militare obbligatoria,
tributo incomprensibile per un popolo che non l’aveva mai
subita. Nei confronti dei renitenti alla leva siciliani fu
estesa alla Sicilia la famigerata legge Pica. In virtù a quella
legge interi paesi furono cinti d’assedio, incendiati, privati
dell’acqua potabile, intere famiglie arrestate e furono compiuti
inauditi atti di violenza senza tenere in alcun conto i diritti
dei cittadini. (cfr.
Le Renitenti di Favarotta).
Sempre in questo primo periodo è da ricordare la rivolta
scoppiata a Palermo nel settembre del 1866, conseguenza della
perduta prospettiva politica. La sollevazione rimase però chiusa
tra le mura cittadine e non ricevette alcun aiuto, nemmeno da
Mazzini. Fu violentemente repressa dall’esercito regio e segnò
la fine delle rivolte ottocentesche siciliane. (cfr.
1866 - La rivolta del “Sette e Mezzo”).
Altra importante vicenda di quegli anni fu lo scioglimento delle
corporazioni religiose (legge del 10 agosto 1862). Garibaldi
aveva già espulso la Compagnia di Gesù ma ora, dopo la
restaurazione a seguito della rivolta del
Sette e Mezzo,
lo Stato italiano interveniva in forza. L’effetto fu devastante,
perché allo scioglimento delle corporazioni religiose e al
confino coatto dei religiosi che avevano appoggiato la rivolta,
si accompagnò l’esproprio in massa di tutte le proprietà
fondiarie ed edilizie comprese le biblioteche e le opere d’arte.
Se da un canto l’uso degli edifici fu congruo in quanto adibiti
a scuole, università, uffici o musei, altrettanto non può dirsi
per il patrimonio librario: migliaia di volumi furono ammassati
in sotterranei e depositi vari, causandone la dispersione e la
distruzione. Ovviamente nessuno si scandalizzò per tale
“delitto”.
L’esproprio della proprietà fondiaria della Chiesa (Legge
794/1862), la fine
della
manomorta e la cancellazione degli ultimi residui di
feudalesimo avrebbe potuto essere indirizzata a risultati
virtuosi, come la ripartizione delle terre tra i contadini.
Invece la soluzione che se ne diede, peggiorò le condizioni
degli agricoltori, togliendo loro ogni possibilità di riscatto.
La priorità del novello Stato era infatti quella di vendere le
terre per “far cassa”, e di fronteggiare i movimenti di
opposizione. Fu conferito al generale Medici il comando unico
dei poteri militari, amministrativi e di polizia in modo da
rassicurare i ceti borghesi e liberali. Lo Stato si interessò
pertanto solo dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico,
dimenticando le gravi questioni sociale ed economica, che si
inasprirono sempre più, specie dopo la reintroduzione della
tassa sul macinato (giugno 1868) e l’aumento delle imposte su
terreni, fabbricati e ricchezza mobile.
La situazione peggiorò ancora nel 1871 quando, finiti i lavori
di lottizzazione dei terreni ex-ecclesiastici, diretti dal
siciliano Simone Corleo sulla base della legge che prese il suo
nome, le assegnazioni finirono per riconcentrare le terre nelle
mani dei pochi notabili che si imposero nelle aste pubbliche.
Contrariamente a quanto propugnato a parole fin dal decreto del
prodittatore Mordini, cioè di dare la terra ai contadini, la
legge Corleo non aveva alcun intento sociale o filo-contadino,
ma era diretta a rafforzare la borghesia agraria, ed a
consolidare il consenso al regime italiano. Ai contadini rimase
solo il retaggio della legge Garibaldi
del 2 giugno e del citato decreto Mordini del 18 ottobre 1860,
mentre alla borghesia terriera andarono i beni ecclesiastici. La
riforma agraria di Corleo fu pertanto fallimentare dal punto di
vista sociale, ma tuttavia diede una spinta alla modernizzazione
e alla conversione delle colture. Non dimentichiamo che fu
proprio in seguito a questa spinta che si crearono le zone a
colture pregiate intorno a Bagheria e nella Conca d’Oro. Tutto
sommato la soppressione del patrimonio ecclesiastico significò
l’affermazione di un regime economico e giuridico moderno. La
Chiesa fu emarginata dal potere politico e infine con la legge
delle guarentigie del 15 maggio 1871 ebbe termine anche la
secolare “Apostolica legazia” (cfr.
Ruggero I e l'Apostolica Legazia) e la chiesa siciliana
ritornò sotto la giurisdizione del pontefice romano.
Altri avvenimenti di una certa importanza si verificarono
nell’ultimo periodo del quindicennio 1861-1876. Nella seduta del
18 marzo 1876 la Camera fu chiamata a discutere un'interpellanza
del deputato siciliano Giovan Battista Morana sulla tassa sul
macinato, dove si mettevano in evidenza gli abusi che
l’applicazione di una siffatta tassa consentiva in Sicilia.
L’abolizione della tassa sul macinato, o “tassa sulla miseria”
come era stata definita da Crispi, era nel programma della
sinistra ma De Pretis e gli altri capi dell’opposizione, pur
volendo rovesciare il governo facendo leva sul malcontento
popolare, non erano tuttavia disposti a rivoluzionare di punto
in bianco il sistema tributario nazionale. L’interpellanza del
Morana faceva riferimento alla grave situazione siciliana, dove
erano in corso agitazioni e proteste dei mugnai che, chiudendo i
mulini, causavano penuria di pane e malcontento popolare
crescente. Il Ministro Minghetti si dichiarò
incapace di dare i chiarimenti necessari e per farla breve si
arrivò ad una mozione di sfiducia con cui il governo fu messo in
minoranza e dovette dimettersi. La destra storica cessò di
governare e al suo posto si insediò la sinistra storica. A
presiedere il primo governo, il 25 di aprile, fu Agostino De
Pretis, piemontese, che era stato già prodittatore in Sicilia al
tempo del governo garibaldino.
La
decadenza di Napoli dopo l’unificazione d’Italia del 1860 fu
lenta ma continua. La Destra storica governativa attuò una
politica liberista che in breve tempo si rivelò fatale per il
sistema economico meridionale, basato fino ad allora sul modello
di sviluppo protezionistico concepito da
Ferdinando II. Inoltre, il sud fu caricato del
Debito Pubblico proveniente dal Piemonte, e dell’oneroso
sistema fiscale sabaudo.
La grande
industria napoletana, per lo più di capitale straniero, che
con il Regno delle Due Sicilie aveva goduto della protezione
statale, entrò rapidamente in crisi. Vennero a mancare gli
ordinativi statali ed inoltre, il “baricentro” degli affari si
spostò di colpo da Napoli a Torino, con evidente vantaggio per
le aziende del Nord-Ovest, che furono preferite anche dagli
investitori stranieri. Le fabbriche statali dell’ex-reame furono
vendute a privati con procedure neppure tanto cristalline.
Emblematica è al riguardo la sorte dell’opificio statale di
Pietrarsa, il maggiore stabilimento metalmeccanico italiano
dell’epoca, narrata in
altra pagina del sito.
|
Antonio Scialoja, ministro delle
Finanze dal 1862 a 1867 |
Alla
decadenza, bisogna dirlo subito, contribuirono con buona lena i
tanti uomini di stato e delle istituzioni meridionali.
Le grandi
banche del Sud (Banco di Napoli e di Sicilia) effettuarono un
vero e proprio rastrellamento del capitale, che venne in gran
parte reinvestito nel nascente “triangolo industriale” del
Nord-Ovest che, con la nuova Italia unita, godeva di un indubbio
vantaggio geografico.
Gli
strumenti di questo straordinario prelievo furono principalmente
tre:
-
l'introduzione nel 1861 della carta moneta
, inesistente nel Sud
preunitario;
-
la legge del 1866 sul “corso forzoso” della
Lira italiana;
-
la
legge del
1862
[9]
per vendita di 200 mila ettari di terreni ecclesiastici e demaniali, di cui si è
già scritto nella prima parte della presente lettura, e che fruttò all’Erario,
tra il 1861 ed il 1877, circa 220 milioni di lire di allora
[10]
(più di due terzi dell’intero provento nazionale).
Circa
mezzo miliardo di allora, costituita dalle monete in metalli
preziosi circolanti nelle due Sicilie, finirono all’Erario
nazionale, che mise in circolazione, grazie alla legge sul
“corso forzoso” un valore almeno tre volte superiore di
banconote.
La legge
del 1° maggio 1866 sul corso forzoso
fu elaborata da un napoletano, il ministro delle Finanze Antonio
Scialoja
.
Le disposizioni previste da questa legge incisero profondamente
sia sul processo di concentrazione delle emissioni, sia sulla
circolazione della moneta e sulla creazione del credito,
svantaggiando obiettivamente il Sud.
|
Il ministro piemontese Urbano
Rattazzi |
Tornado
all’accaparramento dei terreni, occorre sottolineare come molti
degli agrari del Sud, specie quelli delle zone interne
(Basilicata, Cilento ecc) preferirono la quantità alla qualità:
divennero latifondisti, spossessandosi così del risparmio e
delle risorse necessarie agli investimenti per migliorare le
colture. Ci furono casi di vero accaparramento. La condizione
dei contadini peggiorò, non potendo usufruire più dell’uso
gratuito dei terreni per coltivare e raccogliere legna (i c.d.
“usi civici”, che avevano consentito la sopravvivenza, ma
che allo stesso tempo avevano mantenuto a livello arcaico la
società contadina del sud, priva di quella spinta al
miglioramento che deriva dalla piccola proprietà). L’agricoltura
meridionale, a parte le zone d’eccellenza del Napoletano, Terra
di Lavoro e del Pugliese, rimase emarginata dall’economia
nazionale, isolata, priva di vie di comunicazioni, e bisognerà
attendere il consolidamento dell’Istituzione repubblicana,
quindi circa un secolo, per riscontrare dei segnali di
miglioramento.
I Corleo
e gli Scialoja, cioè i politici meridionali che contribuirono
attivamente alla decadenza del sud, non furono dei casi isolati.
Il movimento liberale e la destra in generale, fin d’allora
erano subordinati al potere capitalistico, che aveva centro e
radicamento al nord. Invece di procedere ad una vera
unificazione della politica, si agì con la forza, la
prevaricazione e la brutale repressione. Per questioni
ideologiche, anche i nazionalisti e monarchici meridionali si
subordinarono di fatto al potere sabaudo, così come i cattolici
per la loro feroce avversione al nascente socialismo. Anche in
politica estera prevalsero gli umori ultra-nazionalistici con la
partecipazione nel 1866 alla
guerra contro l’Austria, in cui si
sprecarono vite e risorse.
In
definitiva, i politici meridionali di destra, anche se ebbero
incarichi – spesso importanti e decisivi – a livello
governativo, non seppero scrollarsi di dosso i condizionamenti
negativi di cui si è detto. Se in quegli anni fu mancato
l’obiettivo di una reale unificazione nazionale, e se furono le
popolazioni del sud a farne principalmente le spese, non si può
pertanto attribuirne tutte le colpe genericamente al “nord”
(come si dilettano a fare alcuni sedicenti meridionalisti
di oggi).
«La
rigogliosa vita della democrazia napoletana, che ha avuto
momenti di rilievo nazionale, intorno al 1878 si è affievolita,
è diventata anemica per non aver saputo mettere radici fra i
lavoratori...»
.
continua
...
Fara Misuraca
Alfonso
Grasso
Giugno
2008
Note
F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, p. 977
Bibliografia
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AAVV
Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di
Napoli e Sicilia
-
Di
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Galasso, G., Il
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Piero Lacaita editore 2005
Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice
Napoletana, 1977
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Gramsci, A., La questione meridionale, Editori Riuniti
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-
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Mack
Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna,
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Smith, D., Garibaldi e Cavour, Rizzoli 1999
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Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003