Il
quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia |
Dopo le dimissioni di Crispi, avvenute nel 1896, fu gioco forza
per il Parlamento orientarsi verso una soluzione di destra:
infatti, una parte della sinistra costituzionale, facente capo
al senatore Giuseppe Saracco, si era troppo compromessa,
appoggiando l'ultima, squalificata ed impopolare esperienza
governativa di Crispi, mentre l'altra componente, guidata da
Zanardelli e Giolitti, oltre ad essere malvista dal Re, era
bloccata dal veto incrociato della destra democratica e della
sinistra crispina. La presidenza del Consiglio toccò alla fine
ad un altro siciliano, Antonio di Rudinì, che possiamo definire
un “moderato di centro”, non particolarmente vicino alla corona,
la cui dote politica più importante consisteva nell’essere un
avversario di Crispi. Di Rudinì impostò la propria azione di
governo su una linea di “raccoglimento e di economia”. Tentò di
porre un freno all'avventura coloniale, di varare una politica
prudente e di realizzare qualche forma di pacificazione sociale,
concedendo l'amnistia ai condannati politici.
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Antonio Di Rudinì
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Il modello sociale cui si ispirava era quello di una
“democrazia conservatrice” a base agraria, in cui
fossero garantiti sia la supremazia della grande
proprietà terriera nella politica locale, attraverso
l’attuazione del cosiddetto “decentramento
conservatore” (una riforma dell'ammi-nistrazione
comunale che prevedeva l'elettività del sindaco anche
nei comuni minori), sia il primato del potere esecutivo
su quello legislativo. Furono altresì varate una serie
di riforme, come l’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni nell'industria e l’istituzione della Cassa
Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la Vecchiaia.
Al progetto Di Rudinì se ne contrapponeva un altro, più autoritario,
diretto a provocare una vera e propria riforma del sistema
costituzionale, proposto da Sonnino in un articolo pubblicato nel
1897, dal titolo Torniamo allo Statuto: in esso si suggeriva
di salvare l'integrità dello Stato, minacciato secondo l’autore
dall'azione convergente dei socialisti (i “rossi”) e dei cattolici
(i “neri”), sottraendo prerogative al Parlamento e tornando ad
affidare il pieno potere al re, secondo il modello imperiale
tedesco.
In realtà, la linea politica proposta dal Sonnino, una
vera e propria svolta autoritaria, mirava a rassicurare la classe
dominante dalla preoccupazione di non riuscire più a controllare le
tensioni emergenti nella società italiana.
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Sidney Costantino Sonnino (1847 - 1922)
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L’avanzata dell'estrema sinistra alle elezioni del
marzo 1897, le violente agitazioni sociali della primavera del 1898,
i moti contro il carovita, e in particolare contro l'aumento del
prezzo del pane provocato dai cattivi raccolti del 1897, avevano
infatti segnato una vera e propria frattura nella vicenda politica
di fine secolo.
Le masse contadine vennero a trovarsi in una
spaventosa condizione di miseria e ben presto si unirono alle
proteste delle classe industriale urbana, acquistando un carattere
sempre più politico. Iniziati nel centro-sud e in Sicilia con le
rivolte di Troina e Modica, i moti dilagarono in tutto il paese tra
marzo e maggio del 1898 quando, per effetto dell'aumento dei noli
marittimi in conseguenza della guerra ispano-americana, il prezzo
del pane salì alle stelle.
Ovunque forni, mulini, magazzini del grano furono
presi d’assalto e furono organizzate manifestazioni di protesta
sotto i palazzi dei Comuni, le esattorie, i tribunali e le
abitazioni degli aristocratici e dei grandi proprietari. Si
richiedeva a gran voce l’abolizione del dazio del grano e la
gestione municipale dei forni. Il culmine si raggiunse a Milano, il
6 maggio 1898,
quando la protesta assunse decisamente carattere politico. Fu allora
che l'intero fronte conservatore, con la scusa di sedare i tumulti,
decise di ricorrere alla repressione dura contro ogni forma di
opposizione organizzata, vuoi dagli anarchici o dai socialisti, come
dai radicali o dagli stessi cattolici. Di Rudinì, non esitò, il Re
consenziente, a inviare a Milano il generale Bava Beccaris, che le
represse nel sangue, usando i cannoni contro la folla, e che per
questo fu insignito da Umberto I di una medaglia e nominato
senatore.
Contemporaneamente Di Rudinì cercava di mantenere in
vita il governo, in crisi per il rifiuto dell'assemblea dei deputati
a rendere permanenti i provvedimenti repressevi assunti in via
provvisoria. Di Rudinì propose al re lo scioglimento della camera e
l'esecutività del nuovo bilancio per decreto regio. Se il re avesse
accettato, si sarebbe trattato di un vero e proprio “colpo di
stato” e si sarebbe compiuto il progetto di rifondazione
autoritaria delle istituzioni, vagheggiato da Sonnino, e sostenuto
da buona parte della classe dirigente.
Ma il re, dissuaso da Farini, non osò sfidare apertamente la
legalità costituzionale, per cui Di Rudinì fu costretto alle
dimissioni e il 29 giugno 1898, il generale Luigi Pelloux fu
incaricato di costituire il nuovo governo. Il re intendeva tuttavia
continuare di fatto la precedente politica. Infatti, il generale
continuò l'azione repressiva, senza però suscitare particolare
clamore. Quando però tentò di dare veste legislativa alle
restrizioni delle libertà statutarie e di ripristinare, in pratica,
i “provvedimenti politici” già approvati dal Di Rudinì, si scontrò
con l'opposizione della sinistra parlamentare (socialisti e
repubblicani), contraria all'ipotesi di un governo forte sostenuto
dalla Destra, dal centro sonniniano e dalla sinistra crispina,
mentre i liberali di Giolitti assunsero un atteggiamento di prudente
attesa.
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Luigi Pelloux
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Lo scontro divenne aspro quando l'estrema sinistra passò
all'ostruzionismo, prolungando all'infinito il dibattito
parlamentare con interventi lunghissimi e paralizzando in tal modo
l'attività legislativa. Pelloux, per tutta risposta fece promulgare,
con provvedimento illegale e lesivo delle prerogative del
Parlamento, il “decreto del 22 giugno” che limitava pesantemente la
libertà di stampa e di manifestazione. La lotta per le libertà
costituzionali divenne allora il fatto preminente della politica
italiana, finché il
6 aprile 1900
il governo fu costretto a ritirare il decreto e pochi giorni dopo,
sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il Pelloux era stato
indebolito anche dagli errori commessi in politica estera, come
l'inutile tentativo espansionistico perseguito dalla diplomazia
italiana in Cina, e dalla nascita, all'interno del blocco dominante,
di una componente più moderna e dinamica, in polemica con le forze
più conservatrici del fronte, costituito, come al solito, dalla
proprietà terriera meridionale e dall'industria pesante del nord.
Il risultato elettorale del giugno 1900, fu un grande
successo per l'estrema sinistra. Tale rafforzamento convinse la
componente più avanzata della borghesia della necessità di dare una
svolta radicale alla politica italiana. Pelloux dovette dimettersi
nel giugno 1900, si aprì una fase travagliata e il governo fu
affidato, provvisoriamente a Giuseppe Saracco. Nel frattempo, il 29
luglio, venne ucciso, a Monza, il re Umberto I dall'anarchico Bresci
che voleva vendicare i morti di Milano. Salì al trono Vittorio
Emanuele III. A Genova venne sciolta la Camera del Lavoro, ma poi
Saracco revocò lo scioglimento e si dimise. Il re a questo punto
affidò il governo a Zanardelli che prese con sé Giolitti, rimasto in
prudente attesa per tutto questo tempo.
Questo il quadro generale degli avvenimenti nel Regno
d’Italia in quell’ultimo scorcio del secolo XIX.
Il Regio
Commissario Civile Straordinario per la Sicilia |
Intanto in Sicilia fin dal 5 aprile 1896, per decreto, era stato
inviato
il
Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia nella
persona di Giovanni Codronchi-Argeli. Il Commissario Civile
(così chiamato per distinguerlo dal Commissario militare voluto
da Crispi) venne investito dei “poteri politici e amministrativi
che spettavano ai Ministeri dell’Interno, delle Finanze, dei
Lavori Pubblici, dell’Istruzione, dell’Agricoltura,
dell’Industria e Commercio”.
Con
il Commissario si cercò di superare la militarizzazione voluta
da Crispi in risposta alle lotte operaie e contadine e,
contemporaneamente di salvaguardare gli interessi delle classi
sociali dominanti, sostituendo lo strumento militare con un più
efficiente governo delle istituzioni locali. La speranza era di
risanare e riordinare le finanze locali mantenendole però sotto
il controllo del governo di Roma.
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Palermo, Porta Felice. Foto fine '800 |
I poteri
del Commissario erano teoricamente molto vasti sul piano
dell’autorità e della rappresentatività dello
Stato, ma limitati sul piano finanziario. Il che vuol dire che, in
pratica, il potere era molto limitato.
Le
eventuali spese, infatti, dovevano essere autorizzate per decreto
dal governo centrale. Inoltre, la nomina del commissario era a tempo
determinato tempo: solo per un anno, troppo poco per realizzare
qualunque riforma. Non si trattava quindi, come avevano sperato i
socialisti, di un decentramento del potere statale.
Dopo aver
affossato il progetto di Riforma Agraria pensato dal Crispi, Di
Rudinì si preoccupò soprattutto di mantenere da una parte una
politica repressiva nei confronti del movimento sindacale siciliano,
vietando la ricostituzione dei
Fasci
siciliani, e dall’altra di risanare i
bilanci delle amministrazioni locali, considerati la fonte
principale del malcontento. Infatti, per soddisfare le loro
“clientele”, i comuni continuavano da un lato ad elargire prebende
ai notabili e dall’altro imponevano crescenti tributi alle classi
meno abbienti.
Il
compito di Codronchi non era facile. La repressione crispina aveva
accentuato il malcontento non solo nei ceti lavoratori, ma anche nei
ceti medi e piccolo borghesi delle città e delle campagne, rovinati
dallo sviluppo del capitalismo settentrionale e dalla politica
protezionistica del governo centrale.
Non poco,
inoltre, influì sull’impoverimento l’errata progettazione ed
esecuzione della rete ferroviaria. Palermo, ad esempio, non fu
collegata con Messina se non dopo il 1895. Lo sviluppo di
estesissime contrade della Sicilia centro-occidentale fu privato del
concorso ferroviario. Malumore e insoddisfazione colpirono i settori
più disparati: dai braccianti ai sarti, dai fornai ai minatori delle
zolfatare.
Nella
città di Palermo all’incertezza ed alle inquietudini di una massa
artigiana che si impoveriva sempre più, si aggiunse il problema
della disoccupazione. Da questa necessità nacque il progetto,
caldeggiato da Ignazio Florio, di costruire un cantiere navale e non
soltanto di ampliare il bacino di carenaggio.
Codronchi ne
coglie immediatamente l’importanza per le conseguenze sociali e
politiche di cui può essere foriera. Ma, come vedremo, questo grande
progetto non riuscirà a risollevare le sorti della Sicilia, quasi
l’isola soffrisse di un deficit politico e morale che, come un
cancro, rodesse (e che ancora oggi corrode) la dirigenza politica
municipale e provinciale. Codronchi aprì una serie di inchieste,
segnalò i guasti ma non pose alcun rimedio, né poteva farlo. Allo
scadere del mandato il Commissario lasciò la Sicilia e tutto tornò
come prima.
L’inizio
dell’emigrazione di massa |
È in
questo periodo che inizia l’emigrazione transoceanica,che
coinvolse tutte le regioni meridionali, divenendo il fenomeno
più imponente della condizione del Mezzogiorno. Nel giro di
pochi anni più di un milione di siciliani abbandonò l’isola, più
di due milioni di meridionali “continentali” erano andati a
cercar fortuna in America. Una volta messa in crisi la sinistra
come forza di governo, cessò lo sviluppo virtuoso che vi si era
accompagnato o che, almeno, si era tentato di intraprendere
(come, ad esempio, nel caso dei feudi dei conti di Modica dati
in enfiteusi ai contadini). Sembrò che la Sicilia ed il
Meridione avessero raggiunto il punto di saturazione demografica
che le strutture economiche-sociali potessero consentire.
Secondo Napoleone Colajanni, l’emigrazione siciliana “è il
prodotto di una densità eccessiva (114 abitanti per km quadrato)
della popolazione e delle sue cattive condizioni economiche e
riesce perciò benefica anche astraendo dalla elevazione dei
salari e dal beneficio grande delle rimesse… Naturalmente in
tema di emigrazione, come del resto in tutti i fenomeni sociali,
il bene si trasforma in male al di là di certi limiti.” (N.
Colajanni, Prefazione a Giuseppe Brucculeri, La
Sicilia di oggi. Appunti economici. Roma, Atheneum, 1923).
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Pozzuoli, foto del 1885
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Il
fenomeno della grande emigrazione contribuì all’affermarsi di una
potentissima realtà: la formazione di una mafia intercontinentale.
Il milione di emigranti siciliani concorse a modernizzare la mafia
ed a renderla più efficiente come delinquenza organizzata. A
discolpa dei siciliani e dei luoghi comuni che vogliono sia stata
l’emigrazione a portare la mafia in America, dobbiamo ricordare che
il crimine organizzato per diffondersi e affermarsi negli USA non
aveva certo atteso l’arrivo dei mafiosi siciliani o dei camorristi
napoletani. Molti storici americani collocano la nascita delle
organizzazioni criminali attorno al 1830 e altri ancora prima, con
il prosperare della tratta degli schiavi, a dispetto dell’abolizione
formale avvenuta nel 1808, e che coinvolgeva addetti alle dogane del
sud e marittimi del nord. Non fu pertanto l’Italia ad esportare la
mafia, ma indubbiamente vi fu un fondersi e un proficuo (per loro)
scambio di esperienze e di metodi.
A
cavallo tra i due secoli la situazione del Meridione si era già
tanto deteriorata da indurre il Parlamento a costituire una
commissione parlamentare di inchiesta, che si limitò a
constatare l’insufficienza della azione governativa. Nel 1903
Francesco Saverio Nitti sostenne che la necessità di evitare la
deindustrializzazione di Napoli, presentando alla Camera un
programma di interventi. Non se ne fece nulla. Nel 1908 i
deputati Porzio e De Nicola cercarono di insistere perché
fossero affrontate le questioni più urgenti di Napoli, ma
appartenendo alla destra governativa, dovettero rientrare nei
ranghi e conformarsi alla politica liberista, che ormai aveva il
suo radicamento nel capitalismo del nord.
In
quel periodo, infatti, il nord fece un decisivo passo in avanti,
sia nella modernizzazione che nell’industrializzazione, potendo
contare anche sul completo reinvestimento delle rimesse in
valuta degli emigranti. Già allora infatti, gli istituti di
credito applicavano tassi di interesse agevolati solo al nord.
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Antonio Labriola
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Arturo Labriola
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Così, i
politici meridionali di destra assunsero una posizione subordinata
al potere capitalistico anche quando ebbero incarichi – talvolta
importanti – a livello governativo. Per questioni ideologiche, non
sostennero l’azione dei socialisti e del blocco popolare, che anzi
trovò nei monarchici e nei cattolici i più feroci avversari. La
sinistra continuò da sola la battaglia per il sud:
Antonio Labriola,
e poi Arturo Labriola, per esempio,
si impegnarono a fondo per affrontare i problemi, ottenendo un qualche
risultato non solo nella industrializzazione, ma anche nel campo
dell’istruzione popolare, delle abitazioni e della riforma
giudiziaria. La responsabilità storica, se tali risultati non
compensavano il divario nord-sud che si stava creando, ricade
pertanto in buona parte sui politici meridionali della destra allora
al governo, che non seppero né vollero fare gli interessi dei
territori che li avevano espressi quali propri rappresentanti in
Parlamento.
Agli
albori del XX secolo, la popolazione di Napoli era in aumento,
cominciava a fiorire una nuova industria culturale, quella del
cinema, di cui la città divenne la principale protagonista
italiana, almeno fino a quando non sarà stroncata dal
“romanismo” di Mussolini. Ma circa due terzi della popolazione
viveva nella miseria, con il costo della vita che si era
triplicato negli ultimi 10 anni. Anche da Napoli l'emigrazione
diventò notevole.
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Scavi di Pompei e Vesuvio 1900 ca. |
Il
Meridione era diventato “una immane colonia di sfruttamento
umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma
un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero salì
progressivamente da 107 mila - media annua del periodo
1876-1880 a 310 mila - media annua del periodo 1896-1900; 554 mila -
media annua del periodo 1901-1905; 651I mila - media annua del
periodo I906-191O; 711 mila - media dell'anno 19I2; 872 mila -
nell'anno I913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che
troncò questa tratta; sino alla fine delle ostilità per
fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione
della strategia […]. Nessun documento meglio di queste cifre
potrebbe illustrare i risultati economici e sociali della politica
della borghesia italiana “liberale” di quegli anni”.
continua ...
Fara Misuraca
Alfonso
Grasso
Settembre
2009
Note
L’anno 1897 è anche l’anno in cui il “football” arriva a
Palermo grazie ai marinai dei mercantili inglesi. Si
ingaggiano vere e proprie sfide con i portuali nello
spiazzale fangoso del porto di Palermo. Solo tre anni
dopo tuttavia, il primo novembre 1900, nasce l’Anglo
Panormitan Athletic and Football Club, fondato da
Ignazio Majo Pagano. I primi colori sociali sono il
rosso e il blu nel pieno rispetto delle linee cromatiche
della bandiera britannica. La prima uscita ufficiale
della squadra è datata 30 dicembre, giorno in cui
l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, in via
Emanuele Notabartolo al giardino Inglese, affronta una
formazione inglese. Il match, diretto dal cavalier
Ignazio Majo Pagano, finisce 5-0 in favore degli
Inglesi.
Ritter F., La via mala, Milano, 1973, p. 13 e seguenti.
Bibliografia aggiuntiva della
parte quarta
Di Matteo, F., Storia della Sicilia,
Edizioni Arbor, 2006
Lupo
Salvatore, Quando la Mafia trovò l’America, Einaudi 2008
Mack Smith, D., Storia della Sicilia
medievale e moderna, Laterza, 1971
Renda
Francesco Storia della Sicilia, Sellerio Editore 2003
Betocchi
A., L'evoluzione nel socialismo, Napoli, 1891.
Ritter
F., La via mala, Milano, 1973.