Da molti è stato scritto che lo spirito di
indipendenza è una caratteristica peculiare degli isolani e dei
Siciliani in particolare.
In realtà, se analizziamo la storia della Sicilia,
sarà facile rendersi conto che così non è, che l’indipendenza è
stata sempre una aspirazione teorica mai realmente perseguita,
perché sullo spirito indipendentista ha sempre prevalso
l’interesse privato di una classe dirigente, quella baronale,
che non ha mai avuto remore a “svendere” la Sicilia a chiunque a
patto che venissero garantiti e conservati i propri privilegi ed
soprattutto evitando così di privilegiare con la “sovranità” un
casato isolano su tutti gli altri.
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La sala "Ercole" del
Parlamento Siciliano |
Questo è stato possibile perché i ceti sociali che non
partecipavano alla dirigenza, sono stati da sempre abituati ad
essere sudditi di qualcuno che su loro esercitava il mero e
misto imperio
il
sovrano, straniero e lontano, o il feudatario, locale e vicino,
del feudo che popolavano.
Per strano che possa sembrare, i Siciliani hanno
rinunciato per sempre all’indipendenza, a diventare Nazione,
proprio all’indomani del
Vespro. Quel mitico Vespro, chiamato in causa come simbolo
di ribellione allo straniero da chiunque professi qualsiasi
forma di sicilianismo. I baroni infatti, pur avendo con
l’aiuto dell’intero popolo scacciato gli odiati Angiò, non
esitarono ad offrire la corona del regno a
Pietro III d’Aragona in cambio della conferma dei privilegi
baronali e di un altro “originale privilegio” che si
rivelerà negli anni a venire assai funesto per l’isola:
l’esenzione perpetua dei siciliani da qualsiasi forma di
servizio militare obbligatorio. Questo privilegio serviva a
garantire mano d’opera per i feudi ma soprattutto serviva a
“disarmare” una popolazione che, se sobillata, si era
dimostrata capace di estrema violenza. La mancanza della leva
obbligatoria ha inoltre fatto sì che i siciliani non
sviluppassero il senso dello Stato e ancor peggio ha reso
necessaria la dipendenza dell’isola da un’altra nazione in
quanto impossibilitata, specie in quei tempi, a difendere con le
armi la propria sovranità
. Aver
offerto la corona agli Aragonesi fece inoltre fallire il
progetto delle Communitas Siciliae,
confederazioni di libere città siciliane, sorte durante il
Vespro, alla maniera delle città lombarde e toscane. Palermo,
Corleone, Messina e le altre città demaniali elessero subito i
loro capitani del popolo, ma fecero l’errore grossolano di
giurare fedeltà al papa in cambio della garanzia di non avere
più sovrani stranieri. Ma il papa, il francese Martino IV, in
debito con gli Angiò per la sua elezione, cacciò via in malo
modo la delegazione delle Communitates e minacciò la
scomunica se non avessero riammesso in Sicilia gli Angiò.
Intanto le Communitas avevano già cominciato a farsi
guerra tra loro. L’eterno antagonismo tra Messina e Palermo
aveva già provocato la divisione della Sicilia in Ultra e
Citra flumen Salsum.
Questa dicotomia politica,
come scrive Giunta
era l’intima debolezza delle Communitas Siciliae e si
tradusse in incertezza d’orientamento ed in insicurezza pubblica
e privata. In nome della rivoluzione scoppiarono faide
personali e familiari, aumentarono i furti, gli assassini e la
sicurezza diminuì enormemente. Di ciò approfittarono gli
Angioini, che sbarcarono a Messina; fu a questo punto i baroni
si rivolsero a Pietro III d’Aragona, in precedenza contattato,
che immediatamente accorse e, esaudendo le richieste baronali,
il
4 settembre 1282
cinse la corona di Sicilia trasformando la guerra del Vespro da
rivolta siciliana in
guerra europea, tra Francia e Spagna, una guerra che durerà
ben 90 anni.
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I baroni siciliani non saranno mai nel corso dei
secoli seguenti capaci di esprimere un sovrano tratto dai loro
ranghi. Gli egoismi saranno sempre talmente grandi da sconfinare
nella guerra civile tra gli Aragona e i Chiaromonte, che non
esitarono a rivolgersi agli Angioini di Napoli per sopraffare
gli Aragona!
Un altro tentativo di conquistare l’indipendenza si
ebbe nel
1649, in seguito alla rivolta guidata dal
D’Alesi. Antonio Del Giudice e Giuseppe Pesce, due
giureconsulti. In seguito alla diffusione della falsa notizia
della imminente morte del re di Spagna, cercarono di convincere
l’aristocrazia siciliana ad esprimere un re nazionale e
proposero il duca di Montalto, che era già stato Presidente del
Regno e viceré di Sardegna e aveva dato buona prova di capacità
politica. Ma si oppose il conte di Mazzarino, della famiglia dei
Branciforte, pretendendo per sé la corona in quanto in possesso
del “Primo Titolo” del regno: resosi conto di non essere lui il
prescelto, ma di essere stato coinvolto nel complotto solo in
virtù della sua influenza, pur di non farla cingere ad altri
quella corona, e spinto anche dalla moglie, finì col denunciare
tutto all’allora viceré di Sicilia, Don Giovanni d’Austria, il
quale fece immediatamente arrestare i borghesi coinvolti nel
complotto, dando però tutto il tempo necessario ai nobili per
fuggire. Ovviamente i borghesi furono immediatamente e
orrendamente giustiziati, mentre i nobili fuggitivi vengono sì
condannati a morte in contumacia ma il tutto si risolve nella
confisca dei beni. L’unico nobile ad essere giustiziato sarà il
conte di Racalmuto che, sicuro della potenza del suo casato, non
aveva voluto prendere la via della fuga. Mazzarino, graziato dal
re per la sua delazione si ritirerà invece nella sua villa di
Bagheria dando così il via alla moda della villeggiatura in
villa nella località.
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Alfonso
il
Magnanimo
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Con l’avvento al trono dell’illuminato
Carlo di Borbone, incoronato a Palermo nel 1735, si registra
un altro tiepido tentativo indipendentista o meglio nasce la
speranza che Carlo ponga la sua capitale a Palermo. In realtà
questi aveva scelto Palermo come sede per l’incoronazione solo
perché l’isola non era vassalla del pontefice, per via della
Apostolica legatia concessa al
Gran Conte Ruggero,
ma non aveva alcuna intenzione di fare di Palermo la capitale:
infatti si trasferì subito a Napoli e farà di quella città la
vera capitale.
Dopo le utopistiche velleità indipendentiste nate e
morte nello spazio di un mattino nel
1812 e nel
1820, dovremo aspettare il
1848 e Ruggero Settimo per assistere ancora una volta, dopo
una rivolta vittoriosa, al rituale dell’offerta della corona a
un re “straniero”, un Savoia questa volta, che tuttavia declina
il gentile omaggio. Ma i Siciliani, pur non avendolo mai
conosciuto né avuto come re, gli hanno stranamente intitolato
una strada che ancora oggi porta il suo nome, Corso Alberto
Amedeo, il nome di un re esistito solo nei sogni dei rivoltosi.
In questa occasione assistiamo anche ai danni provocati dalla
assenza di un esercito di leva. Per difendersi, Ruggero Settimo
e i suoi saranno costretti ad assoldare mercenari stranieri o ad
armate costituite da elementi mafiosi e malavitosi che erano
state organizzate per difendere gli interessi particolari
dell’aristocrazia.
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Ruggero Settimo. Palermo, Museo del Risorgimento. |
Nel 1860 infine, la voglia di liberarsi dai Borbone di
Napoli, che buona parte dei baroni siciliani vedevano come
traditori dei loro interessi, sarà soddisfatta sempre grazie
all’intervento di uno straniero, Garibaldi, con l’appoggio non
tanto tacito del re di Piemonte.
Questo sancirà la fine di ogni “speranza” di indipendenza e la
subordinazione dell’intero meridione, smembrato e dilaniato
grazie alla maldestra iniziativa siciliana, al regno di Piemonte
(cfr:
Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia).
Nonostante questo enorme disastro come racconta
magistralmente De Roberto nel suo grande romanzo,
I Viceré, gli interessi della classe dirigente, dei
baroni e dei grandi proprietari terrieri verranno ancora una
volta salvaguardati!
L’indipendentismo si riaffaccerà dopo lo sbarco degli
alleati,
nel 1943
.
Gli indipendentisti del secondo dopoguerra seppero sfruttare il
disagio e la fame delle masse popolari stremate dal fascismo e
dalla guerra utilizzando con sapienza un mixer micidiale di
mafia e banditismo. Come sempre la voglia di indipendenza
risultò ancora una volta solo “teorica”. Tutto rientrò nei
ranghi una volta che la mafia verrà tacitamente “accettata”
dallo stato per tenere a bada le masse contadine e la solita
classe dirigente otterrà una autonomia che servirà a favorire i
loro interessi.
Dell’uso perverso che si è fatto dell’autonomia ancora
oggi paghiamo le conseguenze.
La domanda finale è questa: a chi offriremo la nostra
“corona” se le attuali spinte separatiste che serpeggiano in
Sicilia e in tutto il meridione dovessero avere successo?
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Agosto 2011
L’esenzione dal
servizio militare non comprendeva i feudatari i
quali avevano l’obbligo di prestare il servizio
militare per il sovrano, naturalmente
accaparrandosi posti di comando prestigiosi e
lucrosi o in alternativa, poteva essere assolto
con il pagamento di una tassa. Tuttavia tutti i
feudatari, in difesa dei loro beni disponevano
di veri e propri eserciti privati costituiti da
elementi scelti tra i più violenti e facinorosi
della popolazione.
Solo il viceré De
Vega, nel 1550, noto come il “Gran Siciliano”,
tentò di creare un esercito nazionale siciliano
(Militia dei soldati da cavallo e da piede)
per contrastare la pressione militare turca.
Questa militia venne subito avversata dal
baronaggio che ancora una volta dimostrò tutti i
suoi “ristretti limiti culturali e politici “
(G.E. Di Blasi, Storia cronologica…vol II pag
184) ed evidenzia la loro volontà di rimanere
gli unici gestori del potere. Tanto che il
Parlamento siciliano inviò più volte petizioni
al Re perché venisse abolita questa “Importuna
soldatesca” (Bi Blasi… vol III, pag 107) che
tanto gravava sulle spalle degli abitanti!
Bisognerà
aspettare Carlo III di Borbone perché la Sicilia
si convinca ad armare alcuni reggimenti. Le più
nobili famiglie comprarono i più alti gradi,
come si usava allora, e i soldati semplici erano
volontari, quando c’erano. Nel 1848, Ruggero
Settimo si ritrovò con un esercito di Ufficiali!
Nell’agosto del 1848, Francesco Crispi in
qualità di ministro di guerra e marina presentò
una proposta di legge per istituire la
coscrizione militare, ma la proposta, fu
appoggiata solo da La Masa e quindi venne
lasciata cadere. Si arrivò comunque alla
proposta di offrire 100 ducati a chi fosse stato
in grado di ingaggiare 100 uomini per
l’esercito. Quali furono le conseguenze di tale
offerta sono facilmente prevedibili.
Anche Garibaldi
rimase deluso del fallimento della coscrizione
obbligatoria. Ai suoi bandi risposero solo
poche migliaia di uomini la maggior parte dei
quali già facenti parte di bande armate private.
Da ricordare
a questo proposito è la figura di Antonio Canepa,
partigiano nei territori del centro nord fin dal
1941. Tornato in Sicilia aderì al Movimento
Indipendentista Siciliano Movimento
Indipendentista (MIS) e nell'aprile 1945 fondò
il primo nucleo dell'Esercito Volontario per
l'Indipendenza della Sicilia (EVIS), propugnando
la lotta armata contro lo Stato Italiano.
Fervente sostenitore della riforma agraria era
convinto che l'idea indipendentista avesse una
base popolare che si sarebbe immancabilmente
rivelata in seguito, e sosteneva la necessità di
essere presenti all'interno del separatismo per
indirizzare positivamente queste forze popolari.
Per questo era malvisto dal resto del movimento
indipendentista, legato al latifondo. La sua
lotta durò pochi mesi. Fu ucciso il 17 giugno
1945 in un conflitto a fuoco con i carabinieri a
un posto di blocco alle otto del mattino, in
contrada «Murazzu Ruttu» presso Randazzo
(CT). Insieme a lui morirono il suo braccio
destro, Carmelo Rosano (22 anni) ed il giovane
Giuseppe Lo Giudice (18 anni). Il tutto si
svolse in circostanze oscure che hanno più volte
fatto pensare ad un complotto. Dopo lo scontro a
fuoco Canepa ferito, venne lasciato per ore
senza soccorsi e così morì dissanguato, non
venne redatto un verbale ufficiale dai
carabinieri e la ricostruzione dei magistrati si
baserà solo sulle dichiarazioni dei singoli
protagonisti. Il fatto è che uccidendo
l'esponente di sinistra venne anche mutilata la
componente progressista del MIS, che faceva capo
a Antonio Varvaro, che poco tempo dopo uscì dal
movimento. Il comando dell’EVIS fu quindi
affidato al bandito Salvatore Giuliano. Il
M.I.S. decise di entrare nella legalità e di
partecipare alle elezioni per il parlamento
nazionale dopo, però, avere avute le garanzie
del riconoscimento dello Statuto Speciale
Siciliano conferito da Umberto II il 15 maggio
1945 , 17 giorni prima del referendum che
trasformerà l'Italia in Repubblica, e che
divenne parte integrante della Costituzione
Italiana (legge costituzionale n° 2 del
26/02/1948). Giuliano non accettò l'accordo e
continuò la lotta con la sua banda.(cfr:
Il Separatismo siciliano nel secondo Dopoguerra)
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Vito Genovese in divisa americana con Salvatore Giuliano.
Genevose fu l’autista e l’interprete di Charles Poletti (cfr
Lo sbarco in Sicilia) |