Le pagine della Cultura

Federico De Roberto

I Vicerè

di Fara Misuraca [1]

 

 

 

 

 

 

dello stesso autore "Documenti umani", recensione di Fara Misuraca

Colgo l’occasione dell’uscita del film che Roberto Faenza ha tratto da “I Viceré”, per parlare dello straordinario romanzo di Federico De Roberto.

Federico De Roberto nacque a Napoli nel 1861 da padre napoletano, don Ferdinando, ufficiale di Stato Maggiore di re Francesco II e da madre siciliana, Marianna degli Asmundo. Crebbe e visse quasi sempre a Catania, dove la madre siciliana ritornò nel 1870 dopo essere rimasta vedova, collaborando a giornali e a riviste e partecipando attivamente al movimento verista accanto al Capuana e al Verga. Decisivo per la sua maturazione fu il trasferimento a Milano nel 1888, dove fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati, di cui facevano parte personaggi come Boito, Giacosa e Camerana. Nel periodo del suo soggiorno milanese consolidò sempre più la sua amicizia con Verga e Capuana, collaborò al Corriere della Sera e pubblicò diverse raccolte di novelle e romanzi, fino al suo capolavoro "I Vicerè".

Federico De Roberto.

Immagine gentile concessione Pietro Rizzo http://francescopaolofrontini.blogspot.com/

Il romanzo, uscito nel 1894, narra le vicende di una grande famiglia aristocratica, gli Uzeda di Francalanza, di origine spagnola, soprannominata i Viceré in ricordo di un antenato che ricoprì quella carica durante la dominazione spagnola. Gli avvenimenti del libro seguono i grandi mutamenti del tempo, dal 1850 al 1880, e le vicende storiche risorgimentali e post-risorgimentali: il passaggio dal regno dei Borbone a quello dei Savoia, l’abolizione del potere temporale dei Papi, la nascita di una democrazia. Nel romanzo, il De Roberto descrive magistralmente la stupefacente capacità dell'aristocrazia di adattarsi alle novità politiche, mantenendo intatto il proprio potere.

La storia si svolge tra due documenti: un testamento, quello della vecchia principessa Teresa, crudele e dispotica, e un comizio, quello che l’ultimo degli Uzeda, Consalvo, tiene per la sua elezione al Parlamento italiano; il primo contiene il tema della feudalità storica e familiare, il secondo quello in cui le due feudalità si mascherano, “si interrano”, come scrive Sciascia, per sfociare in un corso segreto: la mistificazione risorgimentale, il trasformismo e il conformismo, la demagogia, le false ed alienanti mete patriottiche e coloniali, il mutar tutto affinché nulla muti, che il sistema democratico – nuova forma di antica egemonia - offre alla classe feudale [2].

Intorno al testamento nascono le interminabili liti dei figli e dei parenti, e soprattutto fra il primogenito Giacomo e il fratello minore Raimondo, che la defunta principessa ha, contro la tradizione, equiparato nell'eredità dei beni di famiglia. Dei vari membri della famiglia Uzeda il romanzo segue, passo a passo, le vicende. Gaspare, duca d'Oragua, che contrariamente al resto della famiglia, strettamente legata ai Borboni, mostra ambigue tendenze liberali e che durante la rivoluzione del 1848 mostra simpatie per la causa degli insorti, pur sapendosene ritrarre a tempo al momento della reazione borbonica. Lo stesso atteggiamento ambiguo, in equilibrio fra l'ossequio ai Borboni e le cospirazioni liberali, il duca tiene fino al 1860, quindi diventa l'autorità politica più importante di Catania, riuscendo a farsi eleggere per numerose legislature al parlamento italiano: approfittando della sua posizione e curando più i suoi interessi che quelli degli elettori conquista gloria e ricchezza di cui, come tutti gli Uzeda, si rivela particolarmente avido; e infine viene nominato senatore. Sua è la frase “Ora che l’Italia è fatta, bisogna fare gli affari nostri”.

Don Blasco, fratello di Gaspare, costretto a farsi frate in omaggio alle leggi del maggiorascato, vive nel convento aristocratico di San Nicola, dove gode della massima libertà. Don Blasco è violento, litigioso, donnaiolo, un gaudente come buona parte dei suoi confratelli; uno dei personaggi più felici creati da De Roberto, che lo descrive con toni di grandiosa epicità che sfiorano il grottesco. Privo di ogni vocazione religiosa, in perpetua lite con i parenti, quando i conventi vengono soppressi ed é ridotto allo stato laicale, pur essendo stato uno dei più accaniti difensori dei Borboni e dei diritti della Chiesa, non esita a comprare i beni conventuali ed a speculare con i titoli di stato, conquistando un'immensa ricchezza. Il cavaliere don Eugenio rimane il più povero dei fratelli: scacciato dalla corte di Napoli per irregolarità amministrative, si riduce a vivere di espedienti, senza potersi mai sollevare dalla miseria, neppure quando riesce a far pubblicare la sua grande opera araldica L'araldo siculo. La sorella Ferdinanda, rimasta nubile per volontà della madre, esercitando l'usura riesce a poco a poco a raccogliere un ingente patrimonio e ad accaparrarsi i feudi ecclesiastici messi in vendita, senza però mai cessare di occuparsi degli affari di famiglia, delle tradizioni aristocratiche e irriducibile nella sua avversione ai liberali e nelle sue nostalgie borboniche.

Dei figli di Teresa, Raimondo, il cadetto ma anche il prediletto, ha sposato per volere della madre, Matilde, figlia di un barone di recente nobiltà ma assai ricco. Vive quasi sempre a Firenze, disinteressandosi completamente degli affari, e concedendo così all'abile e avido fratello primogenito Giacomo di spogliarlo a poco a poco della sua parte di eredità. Finisce per rovinarsi quando, stanco della moglie, riesce a far annullare, con l’aiuto interessato del fratello, il suo matrimonio per sposare Isabella Fersa, di cui si é incapricciato, ma di cui ben presto si stanca.

Giacomo, il primogenito e capo della famiglia, assomma in sé tutte le virtù e i difetti degli Uzeda: pur professandosi borbonico, dopo l'unità sa sfruttare l'ascendente dello zio liberale per avere vantaggi nell'acquisto dei beni conventuali, spoglia abilmente le sorelle e il fratello Raimondo, riuscendo infine a raccogliere nelle sue mani tutti i beni della famiglia accresciuti con una spietata avarizia. Lodovico, costretto anch'egli a farsi frate, con una grande affettazione di virtù e con sapienti arti diplomatiche, fatte in gran parte di ipocrisia, si conquista un posto eminente nel clero cittadino, e finisce a Roma prima vescovo, poi cardinale. Privo di ogni senso pratico, considerato scemo è invece Ferdinando, che si adatta a vivere, tutto preso da sogni di avventure, in un suo piccolo podere, dove muore in assoluta miseria.

Non dissimili dal padre e dalla nonna sono gli ultimi rampolli degli Uzeda, Consalvo e Teresina. L’uno, seguendo le orme dello zio Gaspare, si dedica alla politica come progressista ma ben attento a non dispiacere i conservatori. Esemplare il comizio che chiude il libro e apre le porte del parlamento al giovane. Un capolavoro di ambiguità e, come si direbbe oggi, di cerchiobottismo. L’altra andata sposa, senza amore, al primogenito di una nobile e ricchissima famiglia di fede borbonica, ma non troppo.

De Roberto fa un’analisi spietata dell'aristocrazia siciliana, orgogliosa, gelosa dei suoi privilegi, avida di denaro e di potere, chiusa in cupi egoismi e in sfrenate passioni, descritta con un acre gusto ironico non privo di inflessioni grottesche, nel quale, tuttavia, è sempre presente l'altra faccia della compiacenza sottile per le malattie dell'anima e del corpo e per la morte.

Un romanzo poco amato e poco conosciuto, a causa dell’ostracismo che molte personalità di spicco del panorama letterario italiano dell’epoca, primo tra tutti Benedetto Croce, stroncarono impietosamente. Nel paese in cui trionfava D’Annunzio non poteva certo andare bene De Roberto. Benedetto Croce, asseriva: «E’ un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore». Croce e i crociani trovavano l’opera priva di risvolti poetici. Evidentemente un romanzo così crudele non poteva piacere ai filosofi dell’idealismo. Una stroncatura impietosa la loro. Eppure basta voltarsi indietro e guardare alla storia, valutare la situazione sociale e politica in cui l'autore viveva durante il processo di formazione del suo romanzo per capire: un'epoca di cambiamenti, di crisi, di rinnovamento dove non trova posto idealismo né romanticismo ma semplice e cruda sequenza di fatti e di comportamenti che mirano alla conquista o al mantenimento del potere, di critica al clero e ai suoi rappresentanti più squallidi. La riflessione dell'autore Federico De Roberto è condotta sui vizi della politica e della società italiana allora appena formatasi, che si sono modellati sui precedenti costumi e che mai sono stati sradicati. In fondo De Roberto vuole portare l’attenzione dei lettori sul fallimento degli ideali risorgimentali di progresso e libertà. Così come Verga aveva mostrato che il progresso e la “libertà” si arrestavano davanti alla povertà, De Roberto ci mostra come l’aristocrazia soffocava la nascita di una classe borghese. Come ogni buon classico, I Vicerè ha ancora molto da dire e da insegnare.

Molti, erroneamente accostano I Vicerè di De Roberto a il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e parlano di romanzo storico. Ma non è così. De Roberto è contemporaneo ai fatti che descrive e lo fa con crudeltà, da cronista. Il Gattopardo in realtà, sarebbe un’opera autobiografica, descrive i sentimenti che il Lampedusa prova e che mutua nel protagonista del suo romanzo. “Il Gattopardo”, scritto a distanza di un secolo, è l’esaltazione di quella classe al potere che De Roberto invece, da contemporaneo, mette sotto accusa. Tutto ciò ha concorso a far si che il romanzo sia rimasto nell’ombra. I Vicerè è un libro di sconcertante attualità, "l’impietosa autobiografia di una nazione" - per per dirla con Antonio Di Grado, ordinario di letteratura italiana e studioso di De Roberto – “rappresentano un feroce affresco di quello che siamo noi italiani, un quadro che fa venire in mente le tinte forti di Goya. E non è un caso che la famiglia al centro delle trame sia infatti di origine spagnola”.

Così come il libro, è bello e ricco anche il film che Roberto Faenza ne ha tratto e presenta il merito di riportare all’attenzione, con feroce umorismo uno straordinario affresco sulla famiglia, sulla Chiesa e su quel trasformismo politico nato con l’unità e divenuto ormai endemico vizio italico.

Fara Misuraca

Novembre 2007


[1] Fara Misuraca è owner ed admin di "Brigantino - il Portale del Sud".

[2] Dall’articolo “Perché Croce aveva torto” che Leonardo Sciascia scrisse per Repubblica nel 1977 e che accompagnava l’edizione Einaudi de I Vicerè.

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