Colgo
l’occasione dell’uscita del film che Roberto Faenza ha tratto da
“I Viceré”, per parlare dello straordinario romanzo di Federico
De Roberto.
Federico
De Roberto nacque a Napoli nel 1861 da padre napoletano, don
Ferdinando, ufficiale di Stato Maggiore di re Francesco II e da
madre siciliana, Marianna degli Asmundo. Crebbe e visse quasi sempre
a Catania, dove la madre
siciliana ritornò nel
1870 dopo essere
rimasta vedova, collaborando a giornali e a riviste e partecipando
attivamente al movimento verista accanto al Capuana e al
Verga. Decisivo per la sua maturazione fu il trasferimento a
Milano nel 1888, dove
fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati, di
cui facevano parte personaggi come Boito, Giacosa e Camerana. Nel
periodo del suo soggiorno milanese consolidò sempre più la sua
amicizia con Verga e Capuana, collaborò al
Corriere della
Sera e pubblicò diverse raccolte di
novelle e romanzi, fino
al suo capolavoro "I Vicerè".
Il
romanzo, uscito nel 1894, narra le vicende di una grande famiglia
aristocratica, gli Uzeda di Francalanza, di origine spagnola,
soprannominata i Viceré in ricordo di un antenato che ricoprì
quella carica durante la dominazione spagnola. Gli avvenimenti del
libro seguono i grandi mutamenti del tempo, dal 1850 al 1880, e le
vicende storiche risorgimentali e post-risorgimentali: il passaggio
dal regno dei Borbone a quello dei Savoia, l’abolizione del potere
temporale dei Papi, la nascita di una democrazia. Nel romanzo, il De
Roberto descrive magistralmente la stupefacente capacità
dell'aristocrazia di adattarsi alle novità politiche, mantenendo
intatto il proprio potere.
La storia
si svolge tra due documenti: un testamento, quello della vecchia
principessa Teresa, crudele e dispotica, e un comizio, quello
che l’ultimo degli Uzeda, Consalvo, tiene per la sua
elezione al Parlamento italiano; il primo contiene il tema della
feudalità storica e familiare, il secondo quello in cui le due
feudalità si mascherano, “si interrano”, come scrive Sciascia,
per sfociare in un corso segreto: la mistificazione
risorgimentale, il trasformismo e il conformismo, la demagogia, le
false ed alienanti mete patriottiche e coloniali, il mutar tutto
affinché nulla muti, che il sistema democratico – nuova forma di
antica egemonia - offre alla classe feudale”.
Intorno
al testamento nascono le interminabili liti dei figli e dei parenti,
e soprattutto fra il primogenito Giacomo e il fratello
minore Raimondo, che la defunta principessa ha, contro la
tradizione, equiparato nell'eredità dei beni di famiglia. Dei vari
membri della famiglia Uzeda il romanzo segue, passo a passo, le
vicende. Gaspare, duca d'Oragua, che contrariamente al resto
della famiglia, strettamente legata ai Borboni, mostra ambigue
tendenze liberali e che durante la
rivoluzione del 1848 mostra simpatie per la causa degli insorti,
pur sapendosene ritrarre a tempo al momento della reazione
borbonica. Lo stesso atteggiamento ambiguo, in equilibrio fra
l'ossequio ai Borboni e le cospirazioni liberali, il duca tiene fino
al 1860, quindi diventa l'autorità politica più importante di
Catania, riuscendo a farsi eleggere per numerose legislature al
parlamento italiano: approfittando della sua posizione e curando più
i suoi interessi che quelli degli elettori conquista gloria e
ricchezza di cui, come tutti gli Uzeda, si rivela particolarmente
avido; e infine viene nominato senatore. Sua è la frase “Ora che
l’Italia è fatta, bisogna fare gli affari nostri”.
Don
Blasco, fratello di Gaspare, costretto a farsi frate in omaggio
alle leggi del maggiorascato, vive nel convento aristocratico di San
Nicola, dove gode della massima libertà. Don Blasco è violento,
litigioso, donnaiolo, un gaudente come buona parte dei suoi
confratelli; uno dei personaggi più felici creati da De Roberto, che
lo descrive con toni di grandiosa epicità che sfiorano il grottesco.
Privo di ogni vocazione religiosa, in perpetua lite con i parenti,
quando i conventi vengono soppressi ed é ridotto allo stato laicale,
pur essendo stato uno dei più accaniti difensori dei Borboni e dei
diritti della Chiesa, non esita a comprare i beni conventuali ed a
speculare con i titoli di stato, conquistando un'immensa ricchezza.
Il cavaliere don Eugenio rimane il più povero dei fratelli:
scacciato dalla corte di Napoli per irregolarità amministrative, si
riduce a vivere di espedienti, senza potersi mai sollevare dalla
miseria, neppure quando riesce a far pubblicare la sua grande opera
araldica L'araldo siculo. La sorella Ferdinanda,
rimasta nubile per volontà della madre, esercitando l'usura riesce a
poco a poco a raccogliere un ingente patrimonio e ad accaparrarsi i
feudi ecclesiastici messi in vendita, senza però mai cessare di
occuparsi degli affari di famiglia, delle tradizioni aristocratiche
e irriducibile nella sua avversione ai liberali e nelle sue
nostalgie borboniche.
Dei figli
di Teresa, Raimondo, il cadetto ma anche il prediletto, ha
sposato per volere della madre, Matilde, figlia di un barone
di recente nobiltà ma assai ricco. Vive quasi sempre a Firenze,
disinteressandosi completamente degli affari, e concedendo così
all'abile e avido fratello primogenito Giacomo di spogliarlo
a poco a poco della sua parte di eredità. Finisce per rovinarsi
quando, stanco della moglie, riesce a far annullare, con l’aiuto
interessato del fratello, il suo matrimonio per sposare Isabella
Fersa, di cui si é incapricciato, ma di cui ben presto si stanca.
Giacomo,
il primogenito e capo della famiglia, assomma in sé tutte le virtù e
i difetti degli Uzeda: pur professandosi borbonico, dopo l'unità sa
sfruttare l'ascendente dello zio liberale per avere vantaggi
nell'acquisto dei beni conventuali, spoglia abilmente le sorelle e
il fratello Raimondo, riuscendo infine a raccogliere nelle sue mani
tutti i beni della famiglia accresciuti con una spietata avarizia.
Lodovico, costretto anch'egli a farsi frate, con una grande
affettazione di virtù e con sapienti arti diplomatiche, fatte in
gran parte di ipocrisia, si conquista un posto eminente nel clero
cittadino, e finisce a Roma prima vescovo, poi cardinale. Privo di
ogni senso pratico, considerato scemo è invece Ferdinando, che si
adatta a vivere, tutto preso da sogni di avventure, in un suo
piccolo podere, dove muore in assoluta miseria.
Non
dissimili dal padre e dalla nonna sono gli ultimi rampolli degli
Uzeda, Consalvo e Teresina. L’uno, seguendo le orme dello zio
Gaspare, si dedica alla politica come progressista ma ben attento a
non dispiacere i conservatori. Esemplare il comizio che chiude il
libro e apre le porte del parlamento al giovane. Un capolavoro di
ambiguità e, come si direbbe oggi, di cerchiobottismo.
L’altra andata sposa, senza amore, al primogenito di una nobile e
ricchissima famiglia di fede borbonica, ma non troppo.
De
Roberto fa un’analisi spietata dell'aristocrazia siciliana,
orgogliosa, gelosa dei suoi privilegi, avida di denaro e di potere,
chiusa in cupi egoismi e in sfrenate passioni, descritta con un acre
gusto ironico non privo di inflessioni grottesche, nel quale,
tuttavia, è sempre presente l'altra faccia della compiacenza sottile
per le malattie dell'anima e del corpo e per la morte.
Un
romanzo poco amato e poco conosciuto, a causa dell’ostracismo che
molte personalità di spicco del panorama letterario italiano
dell’epoca, primo tra tutti Benedetto Croce, stroncarono
impietosamente. Nel paese in cui trionfava D’Annunzio non poteva
certo andare bene De Roberto. Benedetto Croce, asseriva: «E’
un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai
battere il cuore». Croce e i crociani trovavano l’opera priva di
risvolti poetici. Evidentemente un romanzo così crudele non poteva
piacere ai filosofi dell’idealismo. Una stroncatura impietosa la
loro. Eppure basta voltarsi indietro e guardare alla storia,
valutare la situazione sociale e politica in cui l'autore viveva
durante il processo di formazione del suo romanzo per capire:
un'epoca di cambiamenti, di crisi, di rinnovamento dove non trova
posto idealismo né romanticismo ma semplice e cruda sequenza di
fatti e di comportamenti che mirano alla conquista o al mantenimento
del potere, di critica al clero e ai suoi rappresentanti più
squallidi. La riflessione dell'autore Federico De Roberto è condotta
sui vizi della politica e della società italiana allora appena
formatasi, che si sono modellati sui precedenti costumi e che mai
sono stati sradicati. In fondo De Roberto vuole portare l’attenzione
dei lettori sul fallimento degli ideali risorgimentali di progresso
e libertà. Così come Verga aveva mostrato che il progresso e la
“libertà” si arrestavano davanti alla povertà, De Roberto ci mostra
come l’aristocrazia soffocava la nascita di una classe borghese.
Come ogni buon classico, I Vicerè ha ancora molto da dire e
da insegnare.
Molti,
erroneamente accostano I Vicerè di De Roberto a il
Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa e parlano di romanzo storico. Ma non è così. De
Roberto è contemporaneo ai fatti che descrive e lo fa con crudeltà,
da cronista. Il Gattopardo in realtà, sarebbe un’opera
autobiografica, descrive i sentimenti che il Lampedusa prova e che
mutua nel protagonista del suo romanzo. “Il Gattopardo”, scritto a
distanza di un secolo, è l’esaltazione di quella classe al potere
che De Roberto invece, da contemporaneo, mette sotto accusa. Tutto
ciò ha concorso a far si che il romanzo sia rimasto nell’ombra. I
Vicerè è un libro di sconcertante attualità, "l’impietosa
autobiografia di una nazione" - per per dirla con Antonio Di
Grado, ordinario di letteratura italiana e studioso di De Roberto –
“rappresentano un feroce affresco di quello che siamo noi
italiani, un quadro che fa venire in mente le tinte forti di Goya. E
non è un caso che la famiglia al centro delle trame sia infatti di
origine spagnola”.
Così come
il libro, è bello e ricco anche il film che Roberto Faenza ne ha
tratto e presenta il merito di riportare all’attenzione, con feroce
umorismo uno straordinario affresco sulla famiglia, sulla Chiesa e
su quel trasformismo politico nato con l’unità e divenuto ormai
endemico vizio italico.
Fara Misuraca
Novembre 2007
[1]
Fara Misuraca è owner
ed admin di "Brigantino - il Portale del Sud".
Dall’articolo “Perché Croce aveva torto” che Leonardo
Sciascia scrisse per Repubblica nel 1977 e che accompagnava
l’edizione Einaudi de I Vicerè. |