Le Pagine di Storia

Il brigantaggio in Ciociaria

Saggio storico di Giovanni Di Silvestre

 

Diverso è il discorso del brigantaggio del Lazio meridionale e nella Ciociaria, sviluppatosi all’inizio dell’800 e durò circa venti anni. Era frutto di una società rurale, visto come fenomeno fuori legge; ma il brigantaggio sotto l’aspetto di rivolta contro un ordinamento sociale ingiusto, non è mai stato presentato, anche se la sua storia non può non scalfire questi aspetti, poiché non si limitò ad essere un episodio di mera criminalità, ma ebbe un alto valore politico. Fu infatti, spinto anche dallo Stato pontificio che non aveva intenzione di seguire le novità giacobine, fu organizzato secondo le finalità della reazione anti francese. I capobanda provocarono l’anarchia e tennero in allerta il governo francese. In seguito, ritiratisi i francesi, il brigantaggio divenne una lotta contro il sistema del privilegio e della miseria, imposto dallo Stato pontificio, tanto che Papa Pio VII, al suo ritorno a Roma nel 1814, dopo aver concesso un’amnistia a tutti i membri delle bande, che infestavano la provincia di Marittima e Campagna [1], accusati di delitti contro lo Stato napoleonico, si ritrovò a combattere questo problema.

In un primo tempo il brigantaggio fu alimentato dallo scombussolamento portato dalle truppe francesi e dal desiderio di sfuggire alla coscrizione obbligatoria [2] e in seguito dalle prepotenze dei baroni, abituati a trattare pastori e contadini come merci di loro proprietà senza speranza di giustizia, in quanto era fatta e amministrata dalla classe dominante e da una schiera di funzionari corrotti. Un quadro preciso della corruzione nella società di questi anni viene da un rapporto inviato dall’avvocato Fiori, uditore della Sacra Consulta e presidente della Commissione Speciale per la repressione del brigantaggio, residente in Frosinone, al Cardinale Consalvi, segretario di Stato, del 21 agosto 1822. Il rapporto descrive le reali condizioni della provincia di Marittima e Campagna. L’analisi è spietata e non risparmia nessuno, cominciando dai contadini e dai pastori portati dalla loro vita agreste e rozza al punto che “… talvolta soltanto la loquela li distingue dagli armenti”; per passare ai preti definiti nella massima parte ignoranti e viziosi, corruttori del costume e “capaci di manovrare intrighi”, per continuare con l’amministrazione della giustizia dove “… l’autorità del giusdicente baronale sottoposta a quella del proprio padrone non trovasse modo migliore per guadagnare, di aggirare la giustizia o venderla”.

I briganti divisi in bande, scorrazzavano per gran parte dell’attuale Lazio e Abruzzo. Mimetizzandosi nei boschi riuscivano a spostarsi da una zona all’altra coprendo a marce forzate lunghe distanze. La base era il paese d’origine a cui rimanevano legati per la presenza di parenti ed amici e la perfetta conoscenza dei luoghi. Le bande, composte da malviventi provenienti dallo stesso paese, sapevano di contare sugli anfratti poco noti e sulla rete delle loro conoscenze per sfuggire alla caccia delle forze di repressione. Ad essi si unirono disertori napoletani fuggiti dalla Repubblica Partenopea, così le bande poterono contare sulle esperienze di uomini diversi, che conoscevano più territori e erano al corrente delle situazioni di un vasto numero di paesi.

Alla base dell’aggregazione banditesca, al rapporto preesistente con il paese che restò il vincolo e il motore dell’unione, si associò il rapporto con il capo che dominava l’aggregazione e la vita sociale. I capi erano i banditi più anziani o esperti, che possedevano ferocia, capacità di comandare e di farsi ubbidire, una rete di informatori, fornitori e conoscenze utili. Essere capi non era facile, ma il capo era colui che approfittava della vita brigantesca: acquistava fama e percepiva la maggior parte del bottino, che veniva speso per il mantenimento della banda. Questo era un aspetto curioso, in quanto sembravano una sorta di società, con un unico padrone che investiva i capitali, per mantenere i suoi accoliti, i quali gli restituivano il denaro collaborando alle ruberie, alle rapine ecc. Al di sotto dei capi c’erano i briganti più anziani e in ordine gerarchico a seconda dell’anzianità, venivano i gregari e i neofiti.

Discorso a parte meritano i “manutengoli”, che costituivano la quinta colonna del brigantaggio ed erano molto importanti; è determinante per la vita del brigantaggio l’esistenza del manutengolismo. Essi fornivano ai briganti informazioni e rifornimenti, pagati a peso d’oro. Fornivano cibo, vestiario, armamento, munizioni e ricoveri sicuri. Le informazioni sugli spostamenti della forza armata incaricata della repressione, sui novizi da arruolare, i percorsi, venivano da una fitta rete di informatori. Essi erano pastori che, a causa del loro mestiere, frequentavano il territorio delle Provincie, venendo a conoscenza di tutto quello che accadeva. Dietro ai pastori, vi erano anche commercianti e sensali di pochi scrupoli, che rifornivano i pastori e i briganti. A questi commercianti il brigante si rivolgeva per le forniture, come le munizioni. C’erano i sarti che collaboravano con i briganti, fornendo vestiti, mantelle e cappelli. C’era un’organizzazione che, riusciva a fornire al brigante quegli elementi necessari alla vita randagia. Furono i manutengoli che godettero i profitti del brigantaggio, anche perché mai la rete della complicità venne a galla. Infatti, malgrado gli sforzi del governo pontificio, nessun manutengolo importante venne alla luce, vennero colpiti personaggi secondari, commercianti, sarti, orafi, farmacisti, grazie alla complicità e alla protezione, non vennero mai toccati. Nello scontro diretto con le forze dell’ordine, i briganti avevano tutto da perdere perché non erano abituati ad una battaglia di campo. La loro arma principale era la sorpresa; i malviventi irradiavano la loro azione dai monti colpendo le contrade e i luoghi più vicini. Colpivano all’improvviso e si ritiravano guidati da condottieri nell’interno dei boschi e negli inaccessibili dirupi. I reati principali erano il sequestro di persona, la rapina a mano armata o l’estorsione. Tutte azioni che tendevano a destabilizzare la società e raramente si rivolgevano direttamente verso i centri di potere come attacchi alle caserme. Il sequestro di persona poteva avere due scopi: o miravano al riscatto o intendevano vendicarsi, e per essi la vendetta si realizzava con l’uccisione di una persona. Il riscatti era proporzionato alla reputazione di ricchezza che la famiglia godeva, ma spesso era elevato e costringeva i parenti dei malcapitati a ricorrere al prestito. La rapina era commessa lungo le strade principali contro i viandanti, i mercanti non legati al brigantaggio. In caso di necessità rapinavano i pastori e i loro manutengoli, anche se a volte, i manutengoli, per scansare le accuse si auto trasformavano in rapinati. L’estorsione avveniva nei confronti dei ricchi possidenti locali posti “a contribuzione”, cioè dovevano offrire tributi in natura e in denaro per aver salva la vita e i beni. Qualche volta i contadini erano oggetto di reati, spesso, il confine tra estorsione ed offerta si confondeva, a causa del rapporto di mutua comprensione tra briganti ed abitanti dei paesi. Spesso si lasciavano andare ad azioni criminali e crudeli: resi arditi dalla paura delle popolazioni locali, assalivano le case, le saccheggiavano e le incendiavano. Oltraggiavano, ferivano, uccidevano le persone che osavano opporsi alle loro rapine o, magari, non volevano sborsare denaro o non volevano rivelare dove fosse nascosto. C’è da dire, che molti di essi erano solo dei delinquenti, abbrutiti dalla loro vita errabonda, che non perseguivano nessun cambiamento sociale.

Volendo fare un elenco dei centri di maggiore diffusione del brigantaggio locale, si può dire che, per lunghi anni, Sonnino, dove nacque Antonio Gasbarrone fu considerata la patria di tale fenomeno, tanto da diventare l’emblema della malvivenza al punto che lo Stato Pontificio ne decretò la distruzione totale [3]. L’altra “capitale”, quella che più di ogni altra terra dette un contributo sostanziale al brigantaggio, fu Vallecorsa, la patria di Alessandro Massaroni, uno dei grandi capobanda. Posta in posizione strategica, Vallecorsa non fu distrutta, ma parte dei parenti dei briganti venne confinata e con questa misura gli altri vallecorsani furono convinti a collaborare con la forza pubblica. Altri paesi interessati furono: Amaseno [4], Patrica, Giuliano di Roma [5], Castro dei Volsci, Pisterzo, Norma, Bassiano e Carpineto Romano. Non a caso furono questi i paesi del brigantaggio, come scrive G. Fiori nella sua “Storia sul brigantaggio della provincia di Marittima e Campagna” del 1976, essi furono tutti feudi e terre baronali dove l’amministrazione era ai livelli medievali e, erano tutti paesi di confine con il Regno delle Due Sicilie e zone di transito delle transumanze.

Verso il 1825 ebbe fine questo fenomeno. I motivi furono molteplici: una campagna repressiva incisiva e la cessazione della politica di amnistia da parte dello Stato Pontificio, un esaurimento per stanchezza dei quadri delle bande [6]. Subentrarono difficoltà nell’ambiente: diminuì l’appoggio dei contadini e dei pastori, intimoriti dalla repressione pontificia e dagli stessi briganti, colpevoli di vendette feroci. Contribuirono le campagne religiose, volute dallo Stato Pontificio e viste favorevolmente dalla locale classe dirigente, che vedeva nella religione una scorciatoia per conseguire la pace.

Dopo il 1825, azioni illegali furono commesse nel territorio ciociaro, come conseguenza dell’endemico stato di indigenza di larga parte della popolazione, ma le misure di prevenzione furono in grado tenere sotto controllo il fenomeno.

L’equilibrio divenne precario a partire dal 1856, al termine di un’eccezionale carestia fronteggiata dalle autorità locali, civili e religiose, con interventi finanziari e provvedimenti illuminati, adottati sotto la spinta di periodiche e minacciose proteste popolari, insidiose nel contesto politico generale. Il precario equilibrio si spezzò nel 1860 in concomitanza degli avvenimenti politici e militari che avrebbero portato alla formazione del Regno d’Italia e il brigantaggio tornò a manifestarsi con intensità, nella fascia pedemontana a ridosso del confine con il nuovo Regno. Tra le cause del fenomeno va ricordata la crisi economica che accompagnò il crollo del regime borbonico; la zona della Ciociaria colpita da questa crisi fu Sora, che si trovava nella parte settentrionale del Regno Borbonico ed era considerata una zona ad alta concentrazione industriale. Qui si verificarono fallimenti e chiusure di fabbriche. Per il difficile rifornimento di materie prime, dovuto ai disordini di guerra, le industrie tessili interruppero la produzione nei primi giorni del settembre 1860. Carovita e disoccupazione, resero esasperata la condizione di braccianti e di lavoratori di industria ed esercitarono sulle masse popolari della Ciociaria un’ulteriore spinta a ricorrere alla protesta violenta.

Si possono distinguere due fasi. La prima iniziò con la “reazione” attuata da formazioni di ex militari borbonici di contadini e di briganti perseguitati in territorio italiano, che avevano trovato rifugio e protezione dentro i confini dello Stato Pontificio e volta ad impedire il consolidamento del nuovo ordine di cose, scaturito dall’impresa di Garibaldi ed al ripristino della monarchia borbonica. Tale reazione che si fonde con la guerriglia legittimista borbonica si protrasse fino al 1863, era stata tenuta a battesimo dal clero e favorita dalla corte pontificia. Non a caso i quartieri generali della reazione furono Casamari, Scifelli e Trisulti [7]. Oltre ad offrire ospitalità ai briganti e ad essere centrali di aiuti materiali, questi famosi luoghi di culto e di contemplazione ubicati ai piedi di montagne alte e boscose, offrivano la disponibilità di nascondigli e di utili punti di avvistamento.

Protagonista in questo periodo, fu Luigi Alonzi, passato alla storia con il nome di Chiavone, capo indiscusso di una banda di 900 uomini che, pose il suo quartier generale tra Santa Francesca e Fontana Fratta, in territorio di Veroli. Egli era nato a Sora nel 1825 in contrada Selva, confinante con lo Stato Pontificio ed era stato soldato dell’esercito borbonico e guardaboschi del comune di Sora. L’Alonzi godeva di notorietà tra i Selvaroli in quanto esercitava la “professione” del contrabbandiere e fu a causa di alcuni furti da lui compiuti durante la sua vita militare che venne punito. La carriera di Luigi Alonzi nell’esercito borbonico lo aveva portato a diventare sergente dell’esercito reale. Nel momento in cui, in seguito all’entrata di Garibaldi a Napoli [8], venne instaurato il governo provvisorio a Sora, Chiavone si recò a Gaeta per chiedere a Francesco II le istruzioni sul da farsi. Fu là che ebbe l’investitura di capo di tutti i guardaboschi del Distretto.

Il brigante Chiavone

Con un gruppo di giovani sorani robusti Chiavone, autorizzato dal re, partì in missione alla ricerca dei traditori che avevano innalzato la bandiera tricolore accogliendo i mercenari di Garibaldi e poi erano scappati al primo accenno di reazione. Nel periodo successivo Chiavone, con un centinaio di uomini seguì La Grange [9] in una spedizione contro Garibaldi che in quell’occasione venne sconfitto grazie al contributo di Luigi Chiavone il cui ausilio fu “di essenzialissima utilità” [10]. Mentre si combatteva alla baionetta, entrò in azione il piccolo esercito dei guardaboschi, che attaccando il nemico da sinistra, lo indussero a lasciare la posizione. Questa fu una mossa strategica importante, che permise a Chiavone di conquistare la fiducia del governo borbonico. Dopo, questa azione, l’Alonzi fu chiamato a Gaeta da Pietro Ulloa, ministro degli interni, di polizia e di giustizia [11] da cui ricevette 450 fucili e molte munizioni. Così Chiavone, forte dell’appoggio del Re e della Santa Sede, iniziò la sua attività contro il Regno d’Italia e si protrasse per due anni. La situazione per l’Alonzi fu abbastanza tranquilla; i problemi iniziarono nel momento in cui Francesco II non fu più in grado di finanziare le scorribande dei briganti, anche perché gli era stato confiscato tutto il patrimonio personale. A questo punto la banda dei guardaboschi entrò in crisi: iniziarono i saccheggi e le incursioni nei vari paesi facendo scemare la popolarità del brigante Chiavone [12].

Chiavone era, amato alla povera gente in quanto era rappresentante e allo stesso tempo l’espressione della volontà popolare di fare la guerra ai piemontesi che, con la conquista del Regno delle due Sicilie, avevano aggravato le precarie condizioni socio economiche della povera gente. Aldilà del fatto che si pose come espressione dei bisogni e degli interessi popolari, l’ammirazione di cui era oggetto, deriva dalla sua abilità nel condurre la guerriglia: evitare lo scontro in campo aperto con un esercito regolare [13], attaccare obiettivi isolati e fuggire senza perdite. Questo gli permetteva di tenere intatte le sue forze, autofinanziarsi e diventare una “leggenda” per le popolazioni locali, tanto che giammai le sue incursioni lasciavano morti sul campo, né operavano stragi [14]. Chiavone e il suo gruppo di briganti provenienti dal territorio di Sora, rappresentavano l’anima popolare del fenomeno, laddove La Grange e Zimmerman si ponevano come espressione del “brigantaggio aristocratico”, dati i loro precedenti militari. E furono loro a determinare la morte dell’Alonzi, nel  momento in cui, osteggiando la sua popolarità, cercarono di inquadrarlo militarmente ottenendone un rifiuto e da questi viene preso a tradimento ed ucciso, giustiziato dal generale Tristany sul monte Muliera, presso Veroli. Ebbe così  termine la fase “legittimista” e si aprì la seconda nella quale le gesta dei “guerriglieri”, spoglie delle motivazioni politiche, assunsero connotazioni criminali. Constatato il fallimento del progetto controrivoluzionario e sfumato il movente della restaurazione, il governo papale cominciò a preoccuparsi degli effetti che il fenomeno procurava nei territori della Chiesa e si decise di sconfessarlo e reprimerlo. Questa fase si protrasse fino al 1870 e fece registrare momenti di particolare intensità nel 1866 e nel 1867, in occasione della terza guerra d’indipendenza e della spedizione dei mercenari di Garibaldi nell’agro romano. La parte di Ciociaria situata nel territorio dello Stato Pontificio non fu interessata dagli sconvolgimenti portati dalle milizie mercenarie di Garibaldi, per cui la popolazione locale non aveva motivi per darsi al brigantaggio, qui la situazione rimase invariata fino al 1870. Tuttavia imperversarono bande di briganti. Non si trattava di popolazioni locali ma di superstiti di bande armate di reazionari, provenienti dai territori dell’ex Regno di Napoli. Quei pochi che si unirono a queste bande erano dei criminali comuni che agivano per scopo personale. A questo proposito è interessante leggere un brano delle “Memorie del Santuario della Speranza”, raccolte dal sacerdote, padre Vannarelli, e conservate nel archivio parrocchiale di Giuliano di Roma [15]; a pagina 78 si legge “nel 1865 per la seconda volta tornò a funestare queste zone la piaga del brigantaggio [16],  ma questa volta nessun giulianese si dié compagno a tali malfattori e dei pochissimi presi in ostaggio nessuno fu offeso gravemente nella vita: alcuni si salvarono con la fuga, altri si riscattarono con discreto sborso di denaro o di altro”. Questa situazione era comune a molti paesi della Ciociaria, per combattere questo fenomeno si arrivò agli storici editti contro il brigantaggio, emanati da monsignor Pericoli, delegato apostolico di Frosinone nel 1865 e nel 1867. Essi consideravano “conventricola” la riunione di soli tre briganti armati, che condannava alla fucilazione alla schiena; puniva con la galera perpetua il brigante armato non appartenente a comitiva; puniva i manutengoli ed i fautori del brigantaggio ed i loro congiunti fino al quarto grado. Imitando il governo italiano, a chiunque eseguiva il fermo di un brigante, concedeva il premio di 500 scudi e, se di un capobanda di 1000 scudi. Garantiva salva la vita ai briganti che, nello spazio di 15 giorni dall’editto si costituissero. Da dati statistici, risulta che dal 1865 al 1870, il Governo Pontificio arrestò, condannò o uccise 701 briganti e manutengoli. Malgrado l’opera energica del Tribunale e delle truppe pontificie, il brigantaggio non diminuiva, perché i briganti, attaccati da soldati italiani o pontifici, trovavano rifugio sconfinando a vicenda in uno dei due territori, beffando le forze governative dei due stati.

Per non fare il gioco dei malviventi, nel 1867, i due governi stipularono una convenzione militare, tra il maggiore Lauri, per lo Stato Pontificio e il maggiore generale Fontana, per il governo italiano. L’accordo ammetteva lo scambio di informazioni e forme di collaborazione, oltre alla possibilità di sconfinamenti di forze militari regolari, allo scopo di inseguire le bande e se ne regolamentarono le modalità. Nei momenti più carichi di tensioni tra i due Stati, e, nei mesi in cui si preparò e si attuò la presa di Roma, la convenzione fu mantenuta e rispettata, tanto era avvertito e sofferto il problema del brigantaggio, dalle forze che controllavano, da punti opposti il confine meridionale. Dopo due anni di persecuzioni, le province pontificie furono liberate completamente dai briganti. Lo stesso non accadde a Sora e nei paesi vicini dove il brigantaggio visse un altro anno per opera dei briganti Pace, Fuoco, Guerra e Cedrone che conclusero la loro carriera nel 1870.

Giovanni Di Silvestre


Note

[1] Attuale Ciociaria

[2] Servizio militare

[3] Cosa che però non avvenne, per fortuna dei suoi abitanti

[4] Allora San Lorenzo

[5] Patria dei capobanda Luigi Masocco e Giovanni Rita

[6] I più anziani sparirono, infatti, quasi contemporaneamente tra il 1821 e il 1824

[7] Situate sul confine dei due Stati

[8] 7 settembre 1860

[9] Barone Klitshe de La Grange che parteggiava per Francesco II. Il Re gli aveva affidato il compito di difendere le posizioni abruzzesi grazie all’ausilio di reparti di forze regolari

[10] Secondo lo stesso La Grange

[11] Infatti proprio a Gaeta Francesco II aveva istituito un gabinetto

[12] Il giorno 9 maggio 1862, senza conoscerlo che poche ore prima, circa le ore 16.00, entrò Chiavone nel nostro paese. Si attaccò subito il fuoco fra i nazionali e la banda chiavonese. Si fece piccola resistenza ed entrarono nel paese a suono di tromba e gridando: Viva Francesco II.

Oltre le persone armate che sparavano continuate fucilate per intimorire la popolazione, vi erano di quelle che portavano accette grandi e piccole, e tutto ciò che poteva incendiare. La prima cosa che fecero fu di sfasciare con poche accettate la bottega di Sofia. Presero quel poco di tavacco che aveva e gittarono dell’acqua rosa e misero fuoco; così s’incendiò il soffitto ed arse anche la camera di sopra, restando il solo tetto. Tutta la famiglia di Gaetano Rotondi di Pietro se ne fuggì sul tetto liberando la vita e restando in mezzo la strada, senza letti e senza quei pochi cenci che aveva.

Passarono alla casa di Francesco Rocchi di Raffaele in via Scenna e volevano fare lo stesso, ma Antonio Canini lo liberò, avendo già principiato ad accendere i combustibili.

Quindi si portarono alla casa del Sindaco Notaro Don Benedetto Vani, ove non vi era nessuno perché fuggirono tutti. Con poche accettate aprirono il portone e tutte le porte che erano chiuse, saccheggiarono e misero fuoco alle carte che teneva ed arsero varii protocolli, sedie e tavolini. Ebbero però compassione e vi lasciarono una quindicina di lenzuola, delle coperte e degli abiti, ma il letto ove dormiva andiede in fiamme.

Sfasciarono la porta del forno perché ritenuto in affitto da Gaetano Rotondi e vi misero fuoco che fu subito smorzato da Antonio Canini, per il timore che andasse in fiamme la sua casa contigua.

In ultimo fu aperta la farmacia di Lepore e ridussero in frantumi tutti i vasi di cristallo e misero fuoco a due sedie.

Mentre si facevano queste operazioni, continuate fucilate si sparavano per intimorire onde non si facesse fuoco, sparavano fucilate alle finestre e ruppero tanti cristalli; altre fucilate sparavano alla casa di Lepore ed altre alla casa del Capitano Don Francesco De Carolis, che si difese valorosamente nella sua casa e resistette agli assalti.

Una spia indicò ove stava la moglie del Sindaco, Donna Teresa Ciolfi. Vi andiedero per tre volte, finalmente la trovarono con la serva Maria Conte; la presero e la portarono a Santa Maria, ove stava il generale Chiavone. Le preghiere, gli strilli, specialmente della serva, furono grandi; il Sindaco, nascosto a pochi passi distanti dal paese, sentiva tutto.

Il generale Chiavone fece forti rimproveri per la condotta serbata dal marito stando in carica. Gli chiese cinquecento ducati e gl’impose che dicesse al marito che non più maltrattasse i contadini e la fece ricondurre in casa dai suoi soldati ordinando che non fosse minimamente molestata, come difatti sia lei che la serva non riceverono nessuna molestia, ma restò priva però delle sue cose preziose che portava con sé in un facottino.

Chiavone venne dalla contrada Cisterna con una moltitudine di persone più munite di scure e sacchi che di fucili ed una porzione scese dalla parte della Oliva di San Giovanni, ed un’altra della contrada detta “Corno”, sicché per la strada retta non passò nessuno.

Entrando nel paese Chiavone ad alta voce disse “Incendiate la casa di Gaetano Roptondi, sacco e fuoco alla casa del Sindaco e la testa del Tenente occhi”. Alla porta poi uno gridò “Rispettate le case dei Realisti”. Nel fare la salita del Cavaliere un altro gridò “Rispettate le case buone”.

Sfasciarono pure la bottega del calzolaio Francesco Laudazzi e si presero tutto ciò che vi era, come ancora la bottega di Beatrice Martini ad uso di caffè e rubarono tutto. Si trattennero  circa quattro ore e se ne andiedero.

Allora uscì il popolo e con l’acqua cercò di smorzare le case che ardevano e si giunse in tempo alla farmacia Lepore, dove non arsero che poche sedie.

Il timore e lo spavento è più facile poterlo immaginare che esprimerlo. Non mancarono gli svenimenti alle donne. Il timore che ebbe il signor Pietro Ruggieri forse superò quello di tutti perché fuggì dalla casa per la via della Postievera, ed a mezza costa trovò delle persone che lo fermarono, lo legarono, gli fecero una tirata di barba e di mustacci, pugni e minacciarono di volerlo uccidere. Con preghiere, con lagrime e col sborsare cinque piastre si liberò dalla vessazione e se ne fuggì alla casa di Andrea Longo a Santa Lucia.

Alle ore otto il Sindaco spedì come corrieri a Sora Domenico Canestraro e Antonio Figliolini per la forza, ma non fu creduto per la ragione che altre volte l’aveva richiesta. Furono mandati solo sei soldati, ma quando furono a Schiavi la banda era già lontano.

Il giorno 10 venne a Schiavi il Sotto Prefetto Amadeo, il Giudice Regio ed il Capitano della truppa, e la sera vennero 33 soldati con il secondo Tenente Moriggi di Ravenna del 43° Reggimento Fanteria, così il paese si tranquillizzò.

Per fare trattenere la truppa nel paese si era risoluto il giorno 23 maggio di andare in deputazione al Colonnello di Sora. La notte però la truppa di Casalvieri con i Nazionali, andando in giro, venne a Schiavi e si fermò a S. Maria. Si cedettero chiavonesi e poco mancò a non venire ad un fatto di armi. Il Tenente di qui spedì un corriere in Casalvieri e così si conobbe l’equivoco.

Si ottenne poi di stabilire la truppa a Schiavi che giunse il dì 27 alle ore 22.00, ma al solo vederli intimorirono tutti per la loro vestitura e modo di agire. Appartengono alla Compagnia dei Bersaglieri, “dediti alla dissonestà” in modo che le donne dovettero rinchiudersi.

Il distaccamento si acquartierò alla casa del fu Don Giovanni Ruggieri a Portanova, mentre il Tenente fu alloggiato in casa di Don Carlo Ricciardelli; il secondo Tenente di questo distaccamento di Bersaglieri era Carlo Giuseppe Fracchi di Alessandria. Era, questi, un mangione e i signori Ricciardelli presso i quali dimorava, dovevano tenere in una camera sempre preparato vino, cacio cavallo, pregiutto e frutti per quando voleva mangiare, prima di pranzo.

Il terrore della venuta di Chiavone a Schiavi fu tale che nonostante la truppa che stava nel paese e la ragione era persuasa che nuovo assalto non poteva temersi, pur tuttavia il cuore era impiccolito in modo che ci vollero una quindicina di giorni per risentire “una risata” nel paese.

Passata l’azione brigantesca che pur nella breve durata di quattro ore aveva lasciato nel paese profonde ferite per le devastazioni materiali, incendi e ruberie, se ne trasse il bilancio fortunatamente senza alcuna vittima umana.

Ne uscì, maggiormente danneggiato il Posto di Guardia in via Scenna, che dovette essere riattato quasi per intero. Michele Ferri e Domenico Celestino “Il brigante Chiavone”. Edizioni C.S. Comium

[13] Perché sapeva di non avere nessuna possibilità di successo.

[14] Cosa insolita per un brigante.

[15] Situato nel territorio dello Stato Pontificio.

[16] La prima volta all’inizio dell’800.


Pagine correlate


Pubblicazione de Il Portale del Sud, Giugno 2011

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino- il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2011: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato