Diverso è il discorso del brigantaggio del Lazio
meridionale e nella Ciociaria, sviluppatosi all’inizio dell’800 e
durò circa venti anni. Era frutto di una società rurale, visto come
fenomeno fuori legge; ma il brigantaggio sotto l’aspetto di rivolta
contro un ordinamento sociale ingiusto, non è mai stato presentato,
anche se la sua storia non può non scalfire questi aspetti, poiché
non si limitò ad essere un episodio di mera criminalità, ma ebbe un
alto valore politico. Fu infatti, spinto anche dallo Stato
pontificio che non aveva intenzione di seguire le novità giacobine,
fu organizzato secondo le finalità della reazione anti francese. I
capobanda provocarono l’anarchia e tennero in allerta il governo
francese. In seguito, ritiratisi i francesi, il brigantaggio divenne
una lotta contro il sistema del privilegio e della miseria, imposto
dallo Stato pontificio, tanto che Papa Pio VII, al suo ritorno a
Roma nel 1814, dopo aver concesso un’amnistia a tutti i membri delle
bande, che infestavano la provincia di Marittima e Campagna
,
accusati di delitti contro lo Stato napoleonico, si ritrovò a
combattere questo problema.
In un primo tempo il brigantaggio fu alimentato dallo
scombussolamento portato dalle truppe francesi e dal desiderio di
sfuggire alla coscrizione obbligatoria
e in seguito dalle prepotenze dei baroni, abituati a trattare
pastori e contadini come merci di loro proprietà senza speranza di
giustizia, in quanto era fatta e amministrata dalla classe dominante
e da una schiera di funzionari corrotti. Un quadro preciso della
corruzione nella società di questi anni viene da un rapporto inviato
dall’avvocato Fiori, uditore della Sacra Consulta e presidente della
Commissione Speciale per la repressione del brigantaggio, residente
in Frosinone, al Cardinale Consalvi, segretario di Stato, del
21 agosto 1822.
Il rapporto descrive le reali condizioni della provincia di
Marittima e Campagna. L’analisi è spietata e non risparmia nessuno,
cominciando dai contadini e dai pastori portati dalla loro vita
agreste e rozza al punto che “… talvolta soltanto la loquela li
distingue dagli armenti”; per passare ai preti definiti nella
massima parte ignoranti e viziosi, corruttori del costume e
“capaci di manovrare intrighi”, per continuare con
l’amministrazione della giustizia dove “… l’autorità del
giusdicente baronale sottoposta a quella del proprio padrone non
trovasse modo migliore per guadagnare, di aggirare la giustizia o
venderla”.
I briganti divisi in bande, scorrazzavano per gran
parte dell’attuale Lazio e Abruzzo. Mimetizzandosi nei boschi
riuscivano a spostarsi da una zona all’altra coprendo a marce
forzate lunghe distanze. La base era il paese d’origine a cui
rimanevano legati per la presenza di parenti ed amici e la perfetta
conoscenza dei luoghi. Le bande, composte da malviventi provenienti
dallo stesso paese, sapevano di contare sugli anfratti poco noti e
sulla rete delle loro conoscenze per sfuggire alla caccia delle
forze di repressione. Ad essi si unirono disertori napoletani
fuggiti dalla Repubblica Partenopea, così le bande poterono contare
sulle esperienze di uomini diversi, che conoscevano più territori e
erano al corrente delle situazioni di un vasto numero di paesi.
Alla base dell’aggregazione banditesca, al rapporto
preesistente con il paese che restò il vincolo e il motore
dell’unione, si associò il rapporto con il capo che dominava
l’aggregazione e la vita sociale. I capi erano i banditi più anziani
o esperti, che possedevano ferocia, capacità di comandare e di farsi
ubbidire, una rete di informatori, fornitori e conoscenze utili.
Essere capi non era facile, ma il capo era colui che approfittava
della vita brigantesca: acquistava fama e percepiva la maggior parte
del bottino, che veniva speso per il mantenimento della banda.
Questo era un aspetto curioso, in quanto sembravano una sorta di
società, con un unico padrone che investiva i capitali, per
mantenere i suoi accoliti, i quali gli restituivano il denaro
collaborando alle ruberie, alle rapine ecc. Al di sotto dei capi
c’erano i briganti più anziani e in ordine gerarchico a seconda
dell’anzianità, venivano i gregari e i neofiti.
Discorso a parte meritano i “manutengoli”, che
costituivano la quinta colonna del brigantaggio ed erano molto
importanti; è determinante per la vita del brigantaggio l’esistenza
del manutengolismo. Essi fornivano ai briganti informazioni e
rifornimenti, pagati a peso d’oro. Fornivano cibo, vestiario,
armamento, munizioni e ricoveri sicuri. Le informazioni sugli
spostamenti della forza armata incaricata della repressione, sui
novizi da arruolare, i percorsi, venivano da una fitta rete di
informatori. Essi erano pastori che, a causa del loro mestiere,
frequentavano il territorio delle Provincie, venendo a conoscenza di
tutto quello che accadeva. Dietro ai pastori, vi erano anche
commercianti e sensali di pochi scrupoli, che rifornivano i pastori
e i briganti. A questi commercianti il brigante si rivolgeva per le
forniture, come le munizioni. C’erano i sarti che collaboravano con
i briganti, fornendo vestiti, mantelle e cappelli. C’era
un’organizzazione che, riusciva a fornire al brigante quegli
elementi necessari alla vita randagia. Furono i manutengoli che
godettero i profitti del brigantaggio, anche perché mai la rete
della complicità venne a galla. Infatti, malgrado gli sforzi del
governo pontificio, nessun manutengolo importante venne alla luce,
vennero colpiti personaggi secondari, commercianti, sarti, orafi,
farmacisti, grazie alla complicità e alla protezione, non vennero
mai toccati. Nello scontro diretto con le forze dell’ordine, i
briganti avevano tutto da perdere perché non erano abituati ad una
battaglia di campo. La loro arma principale era la sorpresa; i
malviventi irradiavano la loro azione dai monti colpendo le contrade
e i luoghi più vicini. Colpivano all’improvviso e si ritiravano
guidati da condottieri nell’interno dei boschi e negli inaccessibili
dirupi. I reati principali erano il sequestro di persona, la rapina
a mano armata o l’estorsione. Tutte azioni che tendevano a
destabilizzare la società e raramente si rivolgevano direttamente
verso i centri di potere come attacchi alle caserme. Il sequestro di
persona poteva avere due scopi: o miravano al riscatto o intendevano
vendicarsi, e per essi la vendetta si realizzava con l’uccisione di
una persona. Il riscatti era proporzionato alla reputazione di
ricchezza che la famiglia godeva, ma spesso era elevato e
costringeva i parenti dei malcapitati a ricorrere al prestito. La
rapina era commessa lungo le strade principali contro i viandanti, i
mercanti non legati al brigantaggio. In caso di necessità rapinavano
i pastori e i loro manutengoli, anche se a volte, i manutengoli, per
scansare le accuse si auto trasformavano in rapinati. L’estorsione
avveniva nei confronti dei ricchi possidenti locali posti “a
contribuzione”, cioè dovevano offrire tributi in natura e in denaro
per aver salva la vita e i beni. Qualche volta i contadini erano
oggetto di reati, spesso, il confine tra estorsione ed offerta si
confondeva, a causa del rapporto di mutua comprensione tra briganti
ed abitanti dei paesi. Spesso si lasciavano andare ad azioni
criminali e crudeli: resi arditi dalla paura delle popolazioni
locali, assalivano le case, le saccheggiavano e le incendiavano.
Oltraggiavano, ferivano, uccidevano le persone che osavano opporsi
alle loro rapine o, magari, non volevano sborsare denaro o non
volevano rivelare dove fosse nascosto. C’è da dire, che molti di
essi erano solo dei delinquenti, abbrutiti dalla loro vita
errabonda, che non perseguivano nessun cambiamento sociale.
Volendo fare un elenco dei centri di maggiore
diffusione del brigantaggio locale, si può dire che, per lunghi
anni, Sonnino, dove nacque Antonio Gasbarrone fu considerata la
patria di tale fenomeno, tanto da diventare l’emblema della
malvivenza al punto che lo Stato Pontificio ne decretò la
distruzione totale
.
L’altra “capitale”, quella che più di ogni altra terra dette un
contributo sostanziale al brigantaggio, fu Vallecorsa, la patria di
Alessandro Massaroni, uno dei grandi capobanda. Posta in posizione
strategica, Vallecorsa non fu distrutta, ma parte dei parenti dei
briganti venne confinata e con questa misura gli altri vallecorsani
furono convinti a collaborare con la forza pubblica. Altri paesi
interessati furono: Amaseno
,
Patrica, Giuliano di Roma
,
Castro dei Volsci, Pisterzo, Norma, Bassiano e Carpineto Romano. Non
a caso furono questi i paesi del brigantaggio, come scrive G. Fiori
nella sua “Storia sul brigantaggio della provincia di Marittima e
Campagna” del 1976, essi furono tutti feudi e terre baronali dove
l’amministrazione era ai livelli medievali e, erano tutti paesi di
confine con il Regno delle Due Sicilie e zone di transito delle
transumanze.
Verso il 1825 ebbe fine questo fenomeno. I motivi
furono molteplici: una campagna repressiva incisiva e la cessazione
della politica di amnistia da parte dello Stato Pontificio, un
esaurimento per stanchezza dei quadri delle bande
.
Subentrarono difficoltà nell’ambiente: diminuì l’appoggio dei
contadini e dei pastori, intimoriti dalla repressione pontificia e
dagli stessi briganti, colpevoli di vendette feroci. Contribuirono
le campagne religiose, volute dallo Stato Pontificio e viste
favorevolmente dalla locale classe dirigente, che vedeva nella
religione una scorciatoia per conseguire la pace.
Dopo il 1825, azioni illegali furono commesse nel
territorio ciociaro, come conseguenza dell’endemico stato di
indigenza di larga parte della popolazione, ma le misure di
prevenzione furono in grado tenere sotto controllo il fenomeno.
L’equilibrio divenne precario a partire dal 1856, al
termine di un’eccezionale carestia fronteggiata dalle autorità
locali, civili e religiose, con interventi finanziari e
provvedimenti illuminati, adottati sotto la spinta di periodiche e
minacciose proteste popolari, insidiose nel contesto politico
generale. Il precario equilibrio si spezzò nel
1860 in concomitanza degli avvenimenti politici e militari che
avrebbero portato alla formazione del Regno d’Italia e il
brigantaggio tornò a manifestarsi con intensità, nella fascia
pedemontana a ridosso del confine con il nuovo Regno. Tra le cause
del fenomeno va ricordata la crisi economica che accompagnò il
crollo del regime borbonico; la zona della Ciociaria colpita da
questa crisi fu Sora, che si trovava nella parte settentrionale del
Regno Borbonico ed era considerata una zona ad alta concentrazione
industriale. Qui si verificarono fallimenti e chiusure di fabbriche.
Per il difficile rifornimento di materie prime, dovuto ai disordini
di guerra, le industrie tessili interruppero la produzione nei primi
giorni del settembre 1860. Carovita e disoccupazione, resero
esasperata la condizione di braccianti e di lavoratori di industria
ed esercitarono sulle masse popolari della Ciociaria un’ulteriore
spinta a ricorrere alla protesta violenta.
Si possono distinguere due fasi. La prima iniziò con
la “reazione” attuata da formazioni di ex militari borbonici di
contadini e di briganti perseguitati in territorio italiano, che
avevano trovato rifugio e protezione dentro i confini dello Stato
Pontificio e volta ad impedire il consolidamento del nuovo ordine di
cose, scaturito dall’impresa di Garibaldi ed al ripristino della
monarchia borbonica. Tale reazione che si fonde con la guerriglia
legittimista borbonica si protrasse fino al 1863, era stata tenuta a
battesimo dal clero e favorita dalla corte pontificia. Non a caso i
quartieri generali della reazione furono Casamari, Scifelli e
Trisulti
.
Oltre ad offrire ospitalità ai briganti e ad essere centrali di
aiuti materiali, questi famosi luoghi di culto e di contemplazione
ubicati ai piedi di montagne alte e boscose, offrivano la
disponibilità di nascondigli e di utili punti di avvistamento.
Protagonista in questo periodo, fu Luigi Alonzi,
passato alla storia con il nome di Chiavone, capo indiscusso di una
banda di 900 uomini che, pose il suo quartier generale tra Santa
Francesca e Fontana Fratta, in territorio di Veroli. Egli era nato a
Sora nel
1825 in contrada Selva, confinante con lo Stato Pontificio ed era
stato soldato dell’esercito borbonico e guardaboschi del comune di
Sora. L’Alonzi godeva di notorietà tra i Selvaroli in quanto
esercitava la “professione” del contrabbandiere e fu a causa di
alcuni furti da lui compiuti durante la sua vita militare che venne
punito. La carriera di Luigi Alonzi nell’esercito borbonico lo aveva
portato a diventare sergente dell’esercito reale. Nel momento in
cui, in seguito all’entrata di Garibaldi a Napoli
,
venne instaurato il governo provvisorio a Sora, Chiavone si recò a
Gaeta per chiedere a Francesco II le istruzioni sul da farsi. Fu là
che ebbe l’investitura di capo di tutti i guardaboschi del
Distretto.
|
Il brigante Chiavone |
Con un gruppo di giovani sorani robusti Chiavone,
autorizzato dal re, partì in missione alla ricerca dei traditori che
avevano innalzato la bandiera tricolore accogliendo i mercenari di
Garibaldi e poi erano scappati al primo accenno di reazione. Nel
periodo successivo Chiavone, con un centinaio di uomini seguì La
Grange
in una spedizione contro Garibaldi che in quell’occasione venne
sconfitto grazie al contributo di Luigi Chiavone il cui ausilio fu
“di essenzialissima utilità”
.
Mentre si combatteva alla baionetta, entrò in azione il piccolo
esercito dei guardaboschi, che attaccando il nemico da sinistra, lo
indussero a lasciare la posizione. Questa fu una mossa strategica
importante, che permise a Chiavone di conquistare la fiducia del
governo borbonico. Dopo, questa azione, l’Alonzi fu chiamato a Gaeta
da Pietro Ulloa, ministro degli interni, di polizia e di giustizia
da cui ricevette 450 fucili e molte munizioni. Così Chiavone, forte
dell’appoggio del Re e della Santa Sede, iniziò la sua attività
contro il Regno d’Italia e si protrasse per due anni. La situazione
per l’Alonzi fu abbastanza tranquilla; i problemi iniziarono nel
momento in cui Francesco II non fu più in grado di finanziare le
scorribande dei briganti, anche perché gli era stato confiscato
tutto il patrimonio personale. A questo punto la banda dei
guardaboschi entrò in crisi: iniziarono i saccheggi e le incursioni
nei vari paesi facendo scemare la popolarità del brigante Chiavone
.
Chiavone era, amato alla povera gente in quanto era
rappresentante e allo stesso tempo l’espressione della volontà
popolare di fare la guerra ai piemontesi che, con la conquista del
Regno delle due Sicilie, avevano aggravato le precarie condizioni
socio economiche della povera gente. Aldilà del fatto che si pose
come espressione dei bisogni e degli interessi popolari,
l’ammirazione di cui era oggetto, deriva dalla sua abilità nel
condurre la guerriglia: evitare lo scontro in campo aperto con un
esercito regolare
,
attaccare obiettivi isolati e fuggire senza perdite. Questo gli
permetteva di tenere intatte le sue forze, autofinanziarsi e
diventare una “leggenda” per le popolazioni locali, tanto che
giammai le sue incursioni lasciavano morti sul campo, né operavano
stragi
.
Chiavone e il suo gruppo di briganti provenienti dal territorio di
Sora, rappresentavano l’anima popolare del fenomeno, laddove La
Grange e Zimmerman si ponevano come espressione del “brigantaggio
aristocratico”, dati i loro precedenti militari. E furono loro a
determinare la morte dell’Alonzi, nel momento in cui, osteggiando
la sua popolarità, cercarono di inquadrarlo militarmente ottenendone
un rifiuto e da questi viene preso a tradimento ed ucciso,
giustiziato dal generale Tristany sul monte Muliera, presso Veroli.
Ebbe così termine la fase “legittimista” e si aprì la seconda nella
quale le gesta dei “guerriglieri”, spoglie delle motivazioni
politiche, assunsero connotazioni criminali. Constatato il
fallimento del progetto controrivoluzionario e sfumato il movente
della restaurazione, il governo papale cominciò a preoccuparsi degli
effetti che il fenomeno procurava nei territori della Chiesa e si
decise di sconfessarlo e reprimerlo. Questa fase si protrasse fino
al 1870 e fece registrare momenti di particolare intensità nel 1866
e nel
1867, in occasione della terza guerra d’indipendenza e della
spedizione dei mercenari di Garibaldi nell’agro romano. La parte di
Ciociaria situata nel territorio dello Stato Pontificio non fu
interessata dagli sconvolgimenti portati dalle milizie mercenarie di
Garibaldi, per cui la popolazione locale non aveva motivi per darsi
al brigantaggio, qui la situazione rimase invariata fino al 1870.
Tuttavia imperversarono bande di briganti. Non si trattava di
popolazioni locali ma di superstiti di bande armate di reazionari,
provenienti dai territori dell’ex Regno di Napoli. Quei pochi che si
unirono a queste bande erano dei criminali comuni che agivano per
scopo personale. A questo proposito è interessante leggere un brano
delle “Memorie del Santuario della Speranza”, raccolte dal
sacerdote, padre Vannarelli, e conservate nel archivio parrocchiale
di Giuliano di Roma
;
a pagina 78 si legge “nel 1865 per la seconda volta tornò a
funestare queste zone la piaga del brigantaggio
,
ma questa volta nessun giulianese si dié compagno a tali malfattori
e dei pochissimi presi in ostaggio nessuno fu offeso gravemente
nella vita: alcuni si salvarono con la fuga, altri si riscattarono
con discreto sborso di denaro o di altro”. Questa situazione era
comune a molti paesi della Ciociaria, per combattere questo fenomeno
si arrivò agli storici editti contro il brigantaggio, emanati da
monsignor Pericoli, delegato apostolico di Frosinone nel 1865 e nel
1867. Essi consideravano “conventricola” la riunione di soli tre
briganti armati, che condannava alla fucilazione alla schiena;
puniva con la galera perpetua il brigante armato non appartenente a
comitiva; puniva i manutengoli ed i fautori del brigantaggio ed i
loro congiunti fino al quarto grado. Imitando il governo italiano, a
chiunque eseguiva il fermo di un brigante, concedeva il premio di
500 scudi e, se di un capobanda di 1000 scudi. Garantiva salva la
vita ai briganti che, nello spazio di 15 giorni dall’editto si
costituissero. Da dati statistici, risulta che dal 1865 al 1870, il
Governo Pontificio arrestò, condannò o uccise 701 briganti e
manutengoli. Malgrado l’opera energica del Tribunale e delle truppe
pontificie, il brigantaggio non diminuiva, perché i briganti,
attaccati da soldati italiani o pontifici, trovavano rifugio
sconfinando a vicenda in uno dei due territori, beffando le forze
governative dei due stati.
Per non fare il gioco dei malviventi, nel 1867, i due
governi stipularono una convenzione militare, tra il maggiore Lauri,
per lo Stato Pontificio e il maggiore generale Fontana, per il
governo italiano. L’accordo ammetteva lo scambio di informazioni e
forme di collaborazione, oltre alla possibilità di sconfinamenti di
forze militari regolari, allo scopo di inseguire le bande e se ne
regolamentarono le modalità. Nei momenti più carichi di tensioni tra
i due Stati, e, nei mesi in cui si preparò e si attuò la presa di
Roma, la convenzione fu mantenuta e rispettata, tanto era avvertito
e sofferto il problema del brigantaggio, dalle forze che
controllavano, da punti opposti il confine meridionale. Dopo due
anni di persecuzioni, le province pontificie furono liberate
completamente dai briganti. Lo stesso non accadde a Sora e nei paesi
vicini dove il brigantaggio visse un altro anno per opera dei
briganti Pace, Fuoco, Guerra e Cedrone che conclusero la loro
carriera nel 1870.
Giovanni Di Silvestre