“Tirate fuori i tromboni”. Così ordinò il
Nibbio ai suoi, allorché la loro carrozza con Lucia
rapita si apprestava a località poco sicure. E
aggiungeva la spiegazione del suo ordine “C’è sempre
dei birboni annidati”. Ma tale ordine non era
necessario solo sulle vie della Lombardia del
diciassettesimo secolo: lo era anche sulle strade che
attraversavano il Regno Borbonico. Dovunque si
viaggiasse in diligenza, si era costretti a “tirare
fuori i tromboni”, perché c’erano “dei birboni
annidati”. Fin dove era possibile, il governo
predisponeva scorte armate e se la scorta non era
prevista, i viaggiatori pagavano per ottenerla. Poteva,
accadere che la squadra di scorta fosse inferiore di
numero e di coraggio alla squadra assalitrice e che i
suoi componenti non se la sentissero di rischiare la
propria pelle per salvare la pelle altrui. |
Alcuni focolai di “briganti” infestavano il Sud Italia
all’inizio del 1800, dopo le guerre napoleoniche, ma ciò
che ci riguarda da vicino, è la “persecuzione” contro i
“briganti” che seguì a ruota l’Unità
d’Italia.
La
resistenza del
Mezzogiorno ha inizio nell’agosto del 1860, dopo lo
sbarco sul continente delle milizie mercenarie di
Garibaldi provenienti dalla Sicilia. La popolazione
rurale, rovesciati i comitati insurrezionali, innalzò la
bandiera con i gigli e restaurò i legittimi poteri. La
spietata repressione operata dagli unitari, con
esecuzioni sommarie e arresti in massa, fece affluire
nelle bande migliaia di uomini, soldati della disciolta
armata reale, coscritti che rifiutarono di militare
sotto un’altra bandiera, pastori, braccianti e
montanari. All’indomani della partenza per l’esilio del
re
Francesco II di Borbone, il 13 febbraio 1861, alcuni
paesi si sollevarono; la repressione da parte
dell’esercito piemontese fu veloce e violenta:
interi paesi furono dati alle fiamme, molte persone
vennero fucilate o imprigionate senza processo. Nella
primavera del 1861 la reazione divampò in tutto il Regno
e il controllo del territorio da parte degli unitari
diventò precario. In agosto venne inviato a Napoli, il
generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno
d’Italia
Enrico Cialdini (1811-1892), che costituì un fronte
unito contro la “reazione” arruolando i mercenari di
Garibaldi e perseguitando il clero ed i nobili lealisti,
i quali furono costretti a emigrare, lasciando la
resistenza priva di una valida guida politica. Il
governo adottò la linea dura e ordinò eccidi e
rappresaglie nei confronti della popolazione insorta,
decretando il saccheggio e la distruzione dei centri
ribelli. Venne impedita l’insurrezione generale e venne
scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello
stato unitario.
I “briganti” non furono i soli ad essere perseguitati;
il neo nato Regno d’Italia, mise in atto quella che si
può definire come la prima seria repressione
anticattolica dopo Diocleziano. A cominciare dai
Gesuiti, gli ordini religiosi della “Religione di Stato”
vennero soppressi uno dopo l’altro ed i loro beni
vennero incamerati; i membri degli ordini religiosi
vennero privati delle loro case
e di quanto possedevano. Oltre
2.565.253 ettari di terra, centinaia di edifici, archivi e
biblioteche, oggetti di culto, quadri e statue, tutto
scomparve nel ventre molle di una classe dirigente che
si definiva liberatrice d’Italia dall’oscurantismo dei
preti e dei sovrani assoluti. Nel nome della libertà i
liberali restringevano la libertà dei cattolici
: vietavano le donazioni alla
chiesa, impedivano le processioni cattoliche
, negavano la libertà d’istruzione,
per stampa “libera” intendevano la stampa liberale
. In nome della “nazione” italiana,
i liberali imponevano una sudditanza economica,
culturale alle potenze definite “civili”: Inghilterra e
Francia prima, Germania poi. Lo stato liberale che, in
nome della libertà e della costituzione, impone la
volontà dell’1% della popolazione al restante 99% è un
esempio di stato totalitario in cui spadroneggiano le
società segrete legate ai potentati internazionali
anticattolici. I Savoia tentano di realizzare il sogno
di tutti i protestanti, dei massoni e degli ebrei
: la distruzione del cattolicesimo.
Il Papa Leone XIII definisce il Risorgimento Italiano
come il “Risorgimento del paganesimo”, una forma di
persecuzione anticattolica scatenata nel cuore della
cattolicità: Roma e l’Italia. Alla stessa Italia spetta
un primato di doppiezza: la realizzazione della propria
unificazione nazionale contro la Chiesa cattolica, in
nome della Chiesa cattolica. Sia per quanto riguarda la
Chiesa cattolica, sia per quanto riguarda il
brigantaggio, gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un
periodo di disumana violenza, durante il quale si
seminarono disprezzo e odio. Gli stessi soldati
piemontesi ne furono travolti: ai 23.000 uccisi in
combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di
suicidi e un migliaio di disertori, molti dei quali
passarono dalla parte dei briganti. Verso la fine del
decennio, il brigantaggio, decimato e incattivito, andò
perdendo la spinta che lo aveva animato e le bande
rimaste si diedero ad atti di malavita, istigate anche
dalla condizione di estrema povertà e dalla scarsa
possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel
momento in poi, la repressione piemontese ebbe il
sopravvento: il brigantaggio fu debellato
definitivamente
ed i Meridionali andarono a
cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un
fenomeno sconosciuto. Nel 1861 si contavano 220.000
italiani residenti all’estero; nel 1914 essi erano
6.000.000. E’ inquietante, se si pensa che la
popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da
8.000.000 di persone. L’esercito sabaudo aveva avuto la
propria vittoria, ma non il regno d’Italia: i briganti
non erano stati distrutti, avevano trovato un’altra
forma di resistenza, l’emigrazione.
Briganti: Delinquenti o partigiani? Malfattori o
patrioti?
Non è difficile intuire quanto vale la risposta a
questa domanda. Non solo in senso cronologico, o per le
migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione
che ne fu data e accettata dalla storiografia
successiva, divenne matrice dei rapporti tra Nord e Sud
che si è perpetuata fino ai giorni nostri, perché ha
radici profonde: se i briganti furono delinquenti,
l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono
patrioti e resistenti, allora è un’altra storia. I padri
Gesuiti della rivista “Civiltà
Cattolica” dicono del brigantaggio: “Quello che
voi chiamate con il nome ingiurioso di brigantaggio non
è che una vera reazione dell’oppresso contro
l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del
derubato contro il ladro, in una parola del diritto
contro l’iniquità. L’idea che muove codesta reazione è
l’idea politica, morale e religiosa della giustizia,
della proprietà, della libertà”.
Il sorgere del brigantaggio è connesso con le
difficoltà politiche incontrate dal governo nazionale
nelle province meridionali, la debolezza dei legami che
queste ebbero con la rivoluzione nazionale e il
contrasto tra moderati e democratici contribuì ad
allentare ; ma è il risultato del modo di sviluppo
storico della società meridionale. Al di là della
disgregazione e del tramonto del regime feudale, le
masse contadine, non domate dal predominio dei
“galantuomini”, conservavano la loro forza di pressione.
Il Mezzogiorno si presentava come società arretrata che
non aveva trovato le premesse del suo equilibrio,
dominata da una esigenza di trasformazione strutturale e
di rinnovamento, che non aveva possibilità di esprimersi
e svolgersi all’interno dei grandi mutamenti nazionali.
La crisi del 1860 doveva far esplodere tal senso di
oppressione in quella guerra sociale che fu il
Brigantaggio, con il suo carattere disperato e
barbarico, che ne fa uno degli episodi più tragici e
cupi della nostra storia nazionale, esito sanguinoso e
anarchico e di una mancata rivoluzione agraria. Gli
accenni alle radici sociali del brigantaggio tendono, a
svalutare il significato politico della resistenza
meridionale all’unificazione e ad attenuare,
l’importanza della ripresa del borbonismo. Lo stesso
borbonismo non può essere considerato un riconoscimento
del significato profondo del brigantaggio, per la cui
comprensione, più che il richiamo alla miseria,
all’ignoranza, alla superstizione dei contadini poveri e
del bracciantato agricolo, è necessaria una valutazione
storica delle caratteristiche dei ceti dominanti del
Mezzogiorno. E’ facile dire che il brigantaggio si è
manifestato nelle province meridionali a motivo della
crisi politica avvenuta in quel periodo; con ciò si
enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma
rimangono nell’ombra le ragioni sostanziali, le quali,
studiate, sono le uniche che possono fornire la verità.
La prima domanda è: il brigantaggio che contristava le
province del Mezzodì dell’Italia è conseguenza esclusiva
del cambiamento politico avvenuto nel 1860, oppure
questo cambiamento è stato soltanto la goccia che ha
fatto traboccare il vaso? E’ cosa evidente che in tutte
le crisi politiche il principio di autorità soggiace a
gravi scosse, i vincoli sociali si allentano; ed è
naturale che avvengano disordini, e che la sicurezza
pubblica sia turbata. Certo le province napoletane hanno
soggiaciuto nel 1860 ad una crisi di questo genere, e
torna agevole il comprendere come in seguito a ciò si
sia manifestato il brigantaggio. Le vicende del 1860
rappresentano una fase di estrema importanza sotto due
aspetti: perché si combatté la battaglia politica
decisiva tra le forze democratiche, protagoniste della
rivoluzione meridionale e quelle moderate, raccolte
attorno a Cavour e al Regno sabaudo; e perché le
difficoltà di assimilazione politica delle regioni
meridionali dovevano accentuare le tendenze oligarchiche
del ceto dirigente politico, geloso della propria
funzione e diffidente, dopo la “grande paura” suscitata
dall’iniziativa demagogica e populista di Garibaldi del
60, nei confronti di ogni tentativo di allargare la
sfera del potere politico. Ma basta la sola crisi
politica a spiegare l’intensità e le proporzioni del
brigantaggio? Gli influssi della crisi politica non sono
diversi nelle province dell’ex Regno napoletano, e
sarebbero dovuti essere gli stessi effetti. In alcune
province, come la Basilicata e la Calabria, il
brigantaggio ha raggiunto terribili proporzioni.
Dobbiamo chiederci se non esistessero cause generali che
contribuirono a rendere, più agevole, più pronto, più
terribile lo sviluppo del brigantaggio. La risposta
fornita da osservazioni, rimembranze e opinioni che ci
hanno portato a concludere che il brigantaggio deriva da
cause non rilevabili con una occhiata. Possiamo dire che
il brigantaggio, anche se “ha pigliato le mosse” nel
1860, trova le sue origini da cose preesistenti al
mutamento politico; come nell’organismo umano le
malattie derivano da cause immediate e cause
predisponenti, la “malattia sociale”, di cui il
brigantaggio è il fenomeno, si è originata dallo stesso
ordine di cause. Le prime cause sono quelle
predisponenti. La condizione sociale, lo stato economico
del “campagnolo”, infelice. Il contadino non aveva
nessun legame con la terra e la sua condizione era
quella del nullatenente. Infatti l’abbandono delle
campagne da parte della nobiltà, favorì l’ascesa di
amministratori rapaci e di nuovi proprietari terrieri,
che portarono la durezza e la fiscalità proprie del
capitalismo liberale; dall’altro lato provocò la rottura
di quel contatto, di quella omogeneità culturale, di
quella solidarietà fra signori e contadini che erano le
caratteristiche fondanti dell’antico regime. La reazione
popolare, non è perciò anti feudale e anti
aristocratica, se non dove la nobiltà era venuta meno
alla sua funzione di mediazione e di comando, ma rivolta
contro la mentalità rivoluzionaria, che imponeva
un’economia senza vincoli corporativi e senza remore
morali, infrangeva i legami fra i diversi ceti della
nazione e veicolava una cultura estranea e avversa alle
tradizioni civili e religiose del paese. Tanta miseria e
squallore furono naturale “apparecchio” al brigantaggio.
La causa predisponente al brigantaggio, che riconosciamo
nell’infelice condizione sociale, non possederebbe la
terribile efficacia che in realtà possiede e manifesta,
se non fosse coadiuvata da un’altra causa dello stesso
genere, vale a dire dal sistema borbonico. La sola
miseria non sarebbe forse cagione di effetti tanto
perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la
signoria dei Borbone creò e lasciò nelle province
napoletane. L’ignoranza, gelosamente conservata ed
ampliata, la superstizione diffusa e accreditata, e la
mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia.
Le cause per le quali il brigantaggio sussistette e non
cedette all’eroica costanza e all’indomito valore
dell’esercito italiano, sono indicate dalle vicende di
quegli ultimi due anni (1860-1861).
Dal giorno in cui la dinastia borbonica cessò di
regnare, il principio politico del governo delle
province napoletane è stato sempre quello dell’unità
monarchica e costituzionale; ma i rappresentanti, gli
esecutori del concetto sono stati diversi, ed hanno
adoperato, sistemi diversi. L’Italia affrontò un enorme
lavoro di trasformazione: lavoro pieno di grandezza e di
gloria, irto di difficoltà, le quali furono maggiori in
quelle province dove maggiori furono le sventure
passate, e più ampie e profonde le piaghe da esse
prodotte. Da ciò torna agevole comprendere come a Sud
abbiano avuto a grandeggiare le difficoltà nel periodo
che intercede tra la distruzione degli ordini vecchi e
l’instaurazione dei nuovi; tra la cessazione del regno
della forza e l’attuazione di quello della legge. Per
concludere, sembra opportuno citare le parole di
Giuseppe Massari a riguardo di tale evento “Il giorno
in cui sarà compiutamente attuato in quelle province il
sistema della legalità costituzionale, superiore a tutti
i partiti, protettrice di tutti i diritti, vindice
imparziale di tutti i torti, gli argomenti e i pretesti
di sfiducia cesseranno e ognuno accorrerà fidente a
riparare all’ombra di una legalità, che non è privilegio
di nessuno in particolare, ma di tutti, senza eccezione”.
Anche se la situazione è migliorata da quel 1860, quel
giorno tanto atteso dal Massari, oggi, nel 2011, non è
ancora arrivato. Arriverà mai?
Brigantaggio. Una Vandea italiana
La storiografia liberale ha tramandato una nozione
screditata della resistenza popolare come manifestazione
di criminalità comune e esito della sobillazione
reazionaria, abile a sfruttare mali endemici e secolari
del
Mezzogiorno. Espressione del fastidio di trattare un
argomento ignobile è la posizione di Gino Doria, che
considera il brigantaggio solo un “un episodio da
espellere” dalla storia di Italia da relegare nelle
cronache criminali.
Benedetto Croce considerava il brigantaggio una
conseguenza del vuoto di potere seguito al crollo della
monarchia borbonica e concludeva che non si poteva
parlare di una Vandea italiana, perché non si erano
visti sul terreno operativo gentiluomini e difensori
della causa legittimistica come in Francia. Invece, nei
primi anni il motivo, legittimistico fu dominante e le
modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici
e popolo, furono tali da richiamare alla mente l’epopea
vandeana. Il conte Henry de Chatelineau
, il barone Teodoro Klitsche de La
Grange, il conte Edwin di Kalckrent, il marchese belga
Alfred Trazégnies de Namour, il conte Theodule de
Christien, i catalani José Borges, definito “l’anti
Garibaldi”, e Rafael Tristany, artefici di memorabili
imprese e fecero a lungo sperare in una conclusione
vittoriosa della guerriglia. Con queste considerazioni
non si intende sottovalutare il carattere sociale delle
insurrezioni. L’eversione della feudalità e la
privatizzazione dei beni della Chiesa durante l’età
napoleonica, che avevano trasformato l’assetto della
società e dato origine alla questione demaniale, ebbero
parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei
contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non basta
a spiegare l’intensità, l’estensione sociale, l’ampiezza
territoriale e la durata del brigantaggio.
L’attribuzione di un carattere esclusivamente sociale
alla resistenza antiunitaria è causata dai pregiudizi
ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o
negare la componente politica del fenomeno sia dalla
diffusione e persistenza del mito della oggettiva
potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine,
secondo le tesi del sociologo inglese Eric Hobsbawn.
L’elemento religioso è presente nelle raffigurazioni
d’epoca, così come sui vestiti e sulle insegne di
battaglia; frati e sacerdoti sono presenti nelle schiere
degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in
caso di cattura; i vescovi
sostengono l’insurrezione,
stampando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le
proteste e le scomuniche proveniente dalla Santa Sede.
Il brigantaggio, è stato un fenomeno composito,
manifestazione del contrasto tra due mentalità, fra due
impostazioni culturali che ha indotto l’antropologo
Carlo Tullio Altan a parlare di “reazione di rigetto
della società meridionale nei confronti di una realtà
storica diversa” e di “uno scontro di civiltà”.
La Resistenza armata
A Napoli, l’ex capitale travagliata da una grave crisi
economica, agisce la propaganda dell’agguerrito comitato
borbonico della città, che riesce a organizzare una
manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia.
Nel mese di aprile è sventata una cospirazione
antiunitaria e sono arrestate oltre 600 persone, fra cui
466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano.
Il presidente del consiglio, Bettino Ricasoli,
preoccupato per le ripercussioni all’estero della
sanguinosa repressione, lancia una vigorosa offensiva
diplomatica, volta a negare il carattere politico del
brigantaggio. Nella polemica interviene la “Civiltà
Cattolica”, che confuta le dichiarazioni del governo
italiano “Ma è la bandiera borbonica che i Sardi
vedono spuntare sopra ogni vetta, non è ella un
programma politico abbastanza visibile? E le grida di
“Viva Francesco II” che i Sardi odono risuonar sì
spesso, non sono quelle un programma politico abbastanza
udibile?”
Il problema più urgente è quello di dare una guida
militare di valore alle schiere degli insorgenti, che
possono creare preoccupazioni al nemico, ma non hanno né
la capacità militare, né il coordinamento necessario per
rovesciare la situazione. L’offensiva di Vittorio
Emanuele II di Savoia contro lo Stato Pontificio aveva
richiamato in Italia gran parte della nobiltà lealista
europea. Sulle orme del cardinale
Fabrizio Ruffo, José Borges, generale dell’esercito
carlista, sbarca con pochi compagni sulla costa ionica
della Calabria, il
14 settembre 1861. Nonostante l’ambiguo comportamento di
Carmine Crocco, comandante della più forte banda lucana,
il generale riesce a imporre la sua autorità e organizza
un forte schieramento partigiano, guidato da ufficiali
legittimisti e da capi locali.
La resistenza prosegue in vaste zone del reame, segno
visibile della diffusa e persistente ostilità popolare
nei confronti della rivoluzione. Nell’agosto 1863, il
Parlamento approva la legge Pica, detta così dal nome
del proponente, che istituzionalizza la repressione. Per
la prima volta viene introdotto nel diritto pubblico
italiano l’istituto del domicilio coatto, sul modello
delle deportazioni bonapartisti che, che risulta
particolarmente odioso per la sua arbitrarietà.
Cure particolari sono dedicate alla guerra
psicologica, condotta su larga scala mediante bandi,
proclami e soprattutto, servizi giornalistici e
fotografici. Le immagini dei combattenti, raffigurati in
atteggiamento truce e con una fisionomia
“inselvatichita” o miseramente allineati per terra, nudi
e crivellati di pallottole, sono utilizzate come forza
deterrente contro la popolazione o per segnalare in
maniera apologetica la vittoria degli unitari e
rappresentano i primi esempi di una moderna
“informazione deformante”. In questo modo è distrutto il
cosiddetto “manutengolismo”, cioè quel vasto movimento
di sostegno e fiancheggiamento alla guerriglia, che
rappresentò un fenomeno così ampio e articolato
socialmente da non poter esser stroncato con il solo
ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale.
Nell’estate del 1863 è costituita un’unica zona
militare, il cui comando è affidato al generale Emilio
Pallavicini, conte di Priola, che attua la tattica della
“persecuzione” incessante delle bande, mobilita la
guardia nazionale, impone e ottiene la collaborazione
delle autorità civili.
Nel gennaio 1870, il governo italiano sopprime le zone
militari nelle province meridionali, sancendo così la
fine ufficiale del brigantaggio. La resistenza non è
ancora terminata ma è venuto meno qualsiasi carattere di
azione collettiva. Gli ottimi combattenti si aggregano
alle formazioni carliste, tornate in Spagna dopo
l’abdicazione di don Juan e la successione del dinamico
Carlos VII. Sotto la bandiera del legittimismo, carlisti
spagnoli e borbonici napoletani combattono ancora contro
i Savoia, sul trono spagnolo dal 1870 e contro la
rivoluzione. La resistenza antiunitaria non riuscì a
ripetere il successo dell’armata della Santa Fede. In
primo luogo era mutata la situazione internazionale. Il
fronte conservatore e la Santa Alleanza si erano
dissolti con la guerra di Crimea: l’Inghilterra aveva
sposato la causa rivoluzionaria e trascinato dietro di
sé la Francia di Napoleone III, isolando l’Austria.
Anche i Borbone di Spagna fecero poco per aiutare il
ramo dinastico napoletano, a causa della politica di
compromesso seguita dal governo della Union Liberal e
per l’impossibilità di concertare un’azione comune con
la Francia e con l’Austria, ambigua l’una, incerta e
rinunciataria l’altra. In secondo luogo, gli insorgenti
del 1799 combatterono contro un esercito impegnato su
molteplici fronti e schierato sulla difensiva, mentre i
combattenti del 1860–1870 si scontrarono frontalmente
con lo Stato unitario, di cui non conoscevano i
meccanismo e che poté concentrare per alcuni anni forze
imponenti nel
Mezzogiorno. La reazione popolare, spontanea e generale,
non fu autonoma perché quasi ovunque mancò la guida di
una classe dirigente valida e ben determinata. “Non
ci fu un cardinale Ruffo”, era scritto su uno dei
pannelli della mostra napoletana sul brigantaggio, a
conferma dell’assenza determinante di elementi locali
dotati della tempra e dell’acume di colui che fu
artefice della vittoria della Santa Fede.
Giovanni Di Silvestre
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