Le Pagine di Storia

Cattolici e Briganti

Saggio storico di Giovanni Di Silvestre

 

“Tirate fuori i tromboni”. Così ordinò il Nibbio ai suoi, allorché la loro carrozza con Lucia rapita si apprestava a località poco sicure. E aggiungeva la spiegazione del suo ordine “C’è sempre dei birboni annidati”. Ma tale ordine non era necessario solo sulle vie della Lombardia del diciassettesimo secolo: lo era anche sulle strade che attraversavano il Regno Borbonico. Dovunque si viaggiasse in diligenza, si era costretti a “tirare fuori i tromboni”, perché c’erano “dei birboni annidati”. Fin dove era possibile, il governo predisponeva scorte armate e se la scorta non era prevista, i viaggiatori pagavano per ottenerla. Poteva, accadere che la squadra di scorta fosse inferiore di numero e di coraggio alla squadra assalitrice e che i suoi componenti non se la sentissero di rischiare la propria pelle per salvare la pelle altrui.

Alcuni focolai di “briganti” infestavano il Sud Italia all’inizio del 1800, dopo le guerre napoleoniche, ma ciò che ci riguarda da vicino, è la “persecuzione” contro i “briganti” che seguì a ruota l’Unità d’Italia.

La resistenza del Mezzogiorno ha inizio nell’agosto del 1860, dopo lo sbarco sul continente delle milizie mercenarie di Garibaldi provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, rovesciati i comitati insurrezionali, innalzò la bandiera con i gigli e restaurò i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e arresti in massa, fece affluire nelle bande migliaia di uomini, soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutarono di militare sotto un’altra bandiera, pastori, braccianti e montanari. All’indomani della partenza per l’esilio del re Francesco II di Borbone, il 13 febbraio 1861, alcuni paesi si sollevarono; la repressione da parte dell’esercito piemontese fu veloce e violenta: interi paesi furono dati alle fiamme, molte persone vennero fucilate o imprigionate senza processo. Nella primavera del 1861 la reazione divampò in tutto il Regno e il controllo del territorio da parte degli unitari diventò precario. In agosto venne inviato a Napoli, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d’Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituì un fronte unito contro la “reazione” arruolando i mercenari di Garibaldi e perseguitando il clero ed i nobili lealisti, i quali furono costretti a emigrare, lasciando la resistenza priva di una valida guida politica. Il governo adottò la linea dura e ordinò eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli. Venne impedita l’insurrezione generale e venne scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello stato unitario.

I “briganti” non furono i soli ad essere perseguitati; il neo nato Regno d’Italia, mise in atto quella che si può definire come la prima seria repressione anticattolica dopo Diocleziano. A cominciare dai Gesuiti, gli ordini religiosi della “Religione di Stato” vennero soppressi uno dopo l’altro ed i loro beni vennero incamerati; i membri degli ordini religiosi [1] vennero privati delle loro case [2] e di quanto possedevano. Oltre 2.565.253 ettari di terra, centinaia di edifici, archivi e biblioteche, oggetti di culto, quadri e statue, tutto scomparve nel ventre molle di una classe dirigente che si definiva liberatrice d’Italia dall’oscurantismo dei preti e dei sovrani assoluti. Nel nome della libertà i liberali restringevano la libertà dei cattolici [3]: vietavano le donazioni alla chiesa, impedivano le processioni cattoliche [4], negavano la libertà d’istruzione, per stampa “libera” intendevano la stampa liberale [5]. In nome della “nazione” italiana, i liberali imponevano una sudditanza economica, culturale alle potenze definite “civili”: Inghilterra e Francia prima, Germania poi. Lo stato liberale che, in nome della libertà e della costituzione, impone la volontà dell’1% della popolazione al restante 99% è un esempio di stato totalitario in cui spadroneggiano le società segrete legate ai potentati internazionali anticattolici. I Savoia tentano di realizzare il sogno di tutti i protestanti, dei massoni e degli ebrei [6]: la distruzione del cattolicesimo. Il Papa Leone XIII definisce il Risorgimento Italiano come il “Risorgimento del paganesimo”, una forma di persecuzione anticattolica scatenata nel cuore della cattolicità: Roma e l’Italia. Alla stessa Italia spetta un primato di doppiezza: la realizzazione della propria unificazione nazionale contro la Chiesa cattolica, in nome della Chiesa cattolica. Sia per quanto riguarda la Chiesa cattolica, sia per quanto riguarda il brigantaggio, gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un periodo di disumana violenza, durante il quale si seminarono disprezzo e odio. Gli stessi soldati piemontesi ne furono travolti: ai 23.000 uccisi in combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di suicidi e un migliaio di disertori, molti dei quali passarono dalla parte dei briganti. Verso la fine del decennio, il brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà e dalla scarsa possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese ebbe il sopravvento: il brigantaggio fu debellato definitivamente [7] ed i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno sconosciuto. Nel 1861 si contavano 220.000 italiani residenti all’estero; nel 1914 essi erano 6.000.000. E’ inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8.000.000 di persone. L’esercito sabaudo aveva avuto la propria vittoria, ma non il regno d’Italia: i briganti non erano stati distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.

Briganti: Delinquenti o partigiani? Malfattori o patrioti?

Non è difficile intuire quanto vale la risposta a questa domanda. Non solo in senso cronologico, o per le migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione che ne fu data e accettata dalla storiografia successiva, divenne matrice dei rapporti tra Nord e Sud che si è perpetuata fino ai giorni nostri, perché ha radici profonde: se i briganti furono delinquenti, l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono patrioti e resistenti, allora è un’altra storia. I padri Gesuiti della rivista “Civiltà Cattolica” dicono del brigantaggio: “Quello che voi chiamate con il nome ingiurioso di brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove codesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà”.

Il sorgere del brigantaggio è connesso con le difficoltà politiche incontrate dal governo nazionale nelle province meridionali, la debolezza dei legami che queste ebbero con la rivoluzione nazionale e il contrasto tra moderati e democratici contribuì ad allentare ; ma è il risultato del modo di sviluppo storico della società meridionale. Al di là della disgregazione e del tramonto del regime feudale, le masse contadine, non domate dal predominio dei “galantuomini”, conservavano la loro forza di pressione. Il Mezzogiorno si presentava come società arretrata che non aveva trovato le premesse del suo equilibrio, dominata da una esigenza di trasformazione strutturale e di rinnovamento, che non aveva possibilità di esprimersi e svolgersi all’interno dei grandi mutamenti nazionali. La crisi del 1860 doveva far esplodere tal senso di oppressione in quella guerra sociale che fu il Brigantaggio, con il suo carattere disperato e barbarico, che ne fa uno degli episodi più tragici e cupi della nostra storia nazionale, esito sanguinoso e anarchico e di una mancata rivoluzione agraria. Gli accenni alle radici sociali del brigantaggio tendono, a svalutare il significato politico della resistenza meridionale all’unificazione e ad attenuare, l’importanza della ripresa del borbonismo. Lo stesso borbonismo non può essere considerato un riconoscimento del significato profondo del brigantaggio, per la cui comprensione, più che il richiamo alla miseria, all’ignoranza, alla superstizione dei contadini poveri e del bracciantato agricolo, è necessaria una valutazione storica delle caratteristiche dei ceti dominanti del Mezzogiorno. E’ facile dire che il brigantaggio si è manifestato nelle province meridionali a motivo della crisi politica avvenuta in quel periodo; con ciò si enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma rimangono nell’ombra le ragioni sostanziali, le quali, studiate, sono le uniche che possono fornire la verità. La prima domanda è: il brigantaggio che contristava le province del Mezzodì dell’Italia è conseguenza esclusiva del cambiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cambiamento è stato soltanto la goccia che ha fatto traboccare il vaso? E’ cosa evidente che in tutte le crisi politiche il principio di autorità soggiace a gravi scosse, i vincoli sociali si allentano; ed è naturale che avvengano disordini, e che la sicurezza pubblica sia turbata. Certo le province napoletane hanno soggiaciuto nel 1860 ad una crisi di questo genere, e torna agevole il comprendere come in seguito a ciò si sia manifestato il brigantaggio. Le vicende del 1860 rappresentano una fase di estrema importanza sotto due aspetti: perché si combatté la battaglia politica decisiva tra le forze democratiche, protagoniste della rivoluzione meridionale e quelle moderate, raccolte attorno a Cavour e al Regno sabaudo; e perché le difficoltà di assimilazione politica delle regioni meridionali dovevano accentuare le tendenze oligarchiche del ceto dirigente politico, geloso della propria funzione e diffidente, dopo la “grande paura” suscitata dall’iniziativa demagogica e populista di Garibaldi del 60, nei confronti di ogni tentativo di allargare la sfera del potere politico. Ma basta la sola crisi politica a spiegare l’intensità e le proporzioni del brigantaggio? Gli influssi della crisi politica non sono diversi nelle province dell’ex Regno napoletano, e sarebbero dovuti essere gli stessi effetti. In alcune province, come la Basilicata e la Calabria, il brigantaggio ha raggiunto terribili proporzioni. Dobbiamo chiederci se non esistessero cause generali che contribuirono a rendere, più agevole, più pronto, più terribile lo sviluppo del brigantaggio. La risposta fornita da osservazioni, rimembranze e opinioni che ci hanno portato a concludere che il brigantaggio deriva da cause non rilevabili con una occhiata. Possiamo dire che il brigantaggio, anche se “ha pigliato le mosse” nel 1860, trova le sue origini da cose preesistenti al mutamento politico; come nell’organismo umano le malattie derivano da cause immediate e cause predisponenti, la “malattia sociale”, di cui il brigantaggio è il fenomeno, si è originata dallo stesso ordine di cause. Le prime cause sono quelle predisponenti. La condizione sociale, lo stato economico del “campagnolo”, infelice. Il contadino non aveva nessun legame con la terra e la sua condizione era quella del nullatenente. Infatti l’abbandono delle campagne da parte della nobiltà, favorì l’ascesa di amministratori rapaci e di nuovi proprietari terrieri, che portarono la durezza e la fiscalità proprie del capitalismo liberale; dall’altro lato provocò la rottura di quel contatto, di quella omogeneità culturale, di quella solidarietà fra signori e contadini che erano le caratteristiche fondanti dell’antico regime. La reazione popolare, non è perciò anti feudale e anti aristocratica, se non dove la nobiltà era venuta meno alla sua funzione di mediazione e di comando, ma rivolta contro la mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami fra i diversi ceti della nazione e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese. Tanta miseria e squallore furono naturale “apparecchio” al brigantaggio. La causa predisponente al brigantaggio, che riconosciamo nell’infelice condizione sociale, non possederebbe la terribile efficacia che in realtà possiede e manifesta, se non fosse coadiuvata da un’altra causa dello stesso genere, vale a dire dal sistema borbonico. La sola miseria non sarebbe forse cagione di effetti tanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la signoria dei Borbone creò e lasciò nelle province napoletane. L’ignoranza, gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa e accreditata, e la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. Le cause per le quali il brigantaggio sussistette e non cedette all’eroica costanza e all’indomito valore dell’esercito italiano, sono indicate dalle vicende di quegli ultimi due anni (1860-1861).

Dal giorno in cui la dinastia borbonica cessò di regnare, il principio politico del governo delle province napoletane è stato sempre quello dell’unità monarchica e costituzionale; ma i rappresentanti, gli esecutori del concetto sono stati diversi, ed hanno adoperato, sistemi diversi. L’Italia affrontò un enorme lavoro di trasformazione: lavoro pieno di grandezza e di gloria, irto di difficoltà, le quali furono maggiori in quelle province dove maggiori furono le sventure passate, e più ampie e profonde le piaghe da esse prodotte. Da ciò torna agevole comprendere come a Sud abbiano avuto a grandeggiare le difficoltà nel periodo che intercede tra la distruzione degli ordini vecchi e l’instaurazione dei nuovi; tra la cessazione del regno della forza e l’attuazione di quello della legge. Per concludere, sembra opportuno citare le parole di Giuseppe Massari a riguardo di tale evento “Il giorno in cui sarà compiutamente attuato in quelle province il sistema della legalità costituzionale, superiore a tutti i partiti, protettrice di tutti i diritti, vindice imparziale di tutti i torti, gli argomenti e i pretesti di sfiducia cesseranno e ognuno accorrerà fidente a riparare all’ombra di una legalità, che non è privilegio di nessuno in particolare, ma di tutti, senza eccezione”. Anche se la situazione è migliorata da quel 1860, quel giorno tanto atteso dal Massari, oggi, nel 2011, non è ancora arrivato. Arriverà mai?

Brigantaggio. Una Vandea italiana

La storiografia liberale ha tramandato una nozione screditata della resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e esito della sobillazione reazionaria, abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno. Espressione del fastidio di trattare un argomento ignobile è la posizione di Gino Doria, che considera il brigantaggio solo un “un episodio da espellere” dalla storia di Italia da relegare nelle cronache criminali.

Benedetto Croce considerava il brigantaggio una conseguenza del vuoto di potere seguito al crollo della monarchia borbonica e concludeva che non si poteva parlare di una Vandea italiana, perché non si erano visti sul terreno operativo gentiluomini e difensori della causa legittimistica come in Francia. Invece, nei primi anni il motivo, legittimistico fu dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, furono tali da richiamare alla mente l’epopea vandeana. Il conte Henry de Chatelineau [8], il barone Teodoro Klitsche de La Grange, il conte Edwin di Kalckrent, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, il conte Theodule de Christien, i catalani José Borges, definito “l’anti Garibaldi”, e Rafael Tristany, artefici di memorabili imprese e fecero a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia. Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere sociale delle insurrezioni. L’eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l’età napoleonica, che avevano trasformato l’assetto della società e dato origine alla questione demaniale, ebbero parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non basta a spiegare l’intensità, l’estensione sociale, l’ampiezza territoriale e la durata del brigantaggio. L’attribuzione di un carattere esclusivamente sociale alla resistenza antiunitaria è causata dai pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o negare la componente politica del fenomeno sia dalla diffusione e persistenza del mito della oggettiva potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine, secondo le tesi del sociologo inglese Eric Hobsbawn.

L’elemento religioso è presente nelle raffigurazioni d’epoca, così come sui vestiti e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi [9] sostengono l’insurrezione, stampando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche proveniente dalla Santa Sede.

Il brigantaggio, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto tra due mentalità, fra due impostazioni culturali che ha indotto l’antropologo Carlo Tullio Altan a parlare di “reazione di rigetto della società meridionale nei confronti di una realtà storica diversa” e di “uno scontro di civiltà”.

La Resistenza armata

A Napoli, l’ex capitale travagliata da una grave crisi economica, agisce la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico della città, che riesce a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile è sventata una cospirazione antiunitaria e sono arrestate oltre 600 persone, fra cui 466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano.

Il presidente del consiglio, Bettino Ricasoli, preoccupato per le ripercussioni all’estero della sanguinosa repressione, lancia una vigorosa offensiva diplomatica, volta a negare il carattere politico del brigantaggio. Nella polemica interviene la “Civiltà Cattolica”, che confuta le dichiarazioni del governo italiano “Ma è la bandiera borbonica che i Sardi vedono spuntare sopra ogni vetta, non è ella un programma politico abbastanza visibile? E le grida di “Viva Francesco II” che i Sardi odono risuonar sì spesso, non sono quelle un programma politico abbastanza udibile?”

Il problema più urgente è quello di dare una guida militare di valore alle schiere degli insorgenti, che possono creare preoccupazioni al nemico, ma non hanno né la capacità militare, né il coordinamento necessario per rovesciare la situazione. L’offensiva di Vittorio Emanuele II di Savoia contro lo Stato Pontificio aveva richiamato in Italia gran parte della nobiltà lealista europea. Sulle orme del cardinale Fabrizio Ruffo, José Borges, generale dell’esercito carlista, sbarca con pochi compagni sulla costa ionica della Calabria, il 14 settembre 1861. Nonostante l’ambiguo comportamento di Carmine Crocco, comandante della più forte banda lucana, il generale riesce a imporre la sua autorità e organizza un forte schieramento partigiano, guidato da ufficiali legittimisti e da capi locali.

La resistenza prosegue in vaste zone del reame, segno visibile della diffusa e persistente ostilità popolare nei confronti della rivoluzione. Nell’agosto 1863, il Parlamento approva la legge Pica, detta così dal nome del proponente, che istituzionalizza la repressione. Per la prima volta viene introdotto nel diritto pubblico italiano l’istituto del domicilio coatto, sul modello delle deportazioni bonapartisti che, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà.

Cure particolari sono dedicate alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto, servizi giornalistici e fotografici. Le immagini dei combattenti, raffigurati in atteggiamento truce e con una fisionomia “inselvatichita” o miseramente allineati per terra, nudi e crivellati di pallottole, sono utilizzate come forza deterrente contro la popolazione o per segnalare in maniera apologetica la vittoria degli unitari e rappresentano i primi esempi di una moderna “informazione deformante”. In questo modo è distrutto il cosiddetto “manutengolismo”, cioè quel vasto movimento di sostegno e fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresentò un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter esser stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Nell’estate del 1863 è costituita un’unica zona militare, il cui comando è affidato al generale Emilio Pallavicini, conte di Priola, che attua la tattica della “persecuzione” incessante delle bande, mobilita la guardia nazionale, impone e ottiene la collaborazione delle autorità civili.

Nel gennaio 1870, il governo italiano sopprime le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio. La resistenza non è ancora terminata ma è venuto meno qualsiasi carattere di azione collettiva. Gli ottimi combattenti si aggregano alle formazioni carliste, tornate in Spagna dopo l’abdicazione di don Juan e la successione del dinamico Carlos VII. Sotto la bandiera del legittimismo, carlisti spagnoli e borbonici napoletani combattono ancora contro i Savoia, sul trono spagnolo dal 1870 e contro la rivoluzione. La resistenza antiunitaria non riuscì a ripetere il successo dell’armata della Santa Fede. In primo luogo era mutata la situazione internazionale. Il fronte conservatore e la Santa Alleanza si erano dissolti con la guerra di Crimea: l’Inghilterra aveva sposato la causa rivoluzionaria e trascinato dietro di sé la Francia di Napoleone III, isolando l’Austria. Anche i Borbone di Spagna fecero poco per aiutare il ramo dinastico napoletano, a causa della politica di compromesso seguita dal governo della Union Liberal e per l’impossibilità di concertare un’azione comune con la Francia e con l’Austria, ambigua l’una, incerta e rinunciataria l’altra. In secondo luogo, gli insorgenti del 1799 combatterono contro un esercito impegnato su molteplici fronti e schierato sulla difensiva, mentre i combattenti del 1860–1870 si scontrarono frontalmente con lo Stato unitario, di cui non conoscevano i meccanismo e che poté concentrare per alcuni anni forze imponenti nel Mezzogiorno. La reazione popolare, spontanea e generale, non fu autonoma perché quasi ovunque mancò la guida di una classe dirigente valida e ben determinata. “Non ci fu un cardinale Ruffo”, era scritto su uno dei pannelli della mostra napoletana sul brigantaggio, a conferma dell’assenza determinante di elementi locali dotati della tempra e dell’acume di colui che fu artefice della vittoria della Santa Fede.

Giovanni Di Silvestre


Note

[1] Circa 57.000

[2] I conventi

[3] La quasi totalità della popolazione

[4] Plaudendo quelle massoniche

[5] Cavour arrivò a proibire le encicliche pontificie

[6] Che non a caso sono i loro unici ed influenti alleati

[7] Con la legge marziale e le Leggi Pica

[8] Discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea

[9] Benché spesso scacciati dalle loro sedi


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Pubblicazione de Il Portale del Sud, Maggio 2011

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