Vincenzo Cuoco (Civitacampomarano 1770 - Napoli 1823) proveniva da
una famiglia borghese che lo avviò agli studi di giurisprudenza, che
non completò mai, dedicandosi con maggior profitto alla filosofia e
alla letteratura. Si interessò in particolare allo studio della
storia e della cultura delle antiche popolazioni italiche.
Fu uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799 e per
questo motivo, al ritorno dei Borbone, fu condannato alla confisca
dei beni, a qualche mese di prigionia ed a venti anni di esilio.
Durante l’esilio iniziò a scrivere il Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, la sua opera più nota. Nel
saggio, Cuoco imputa il fallimento dell’azione rivoluzionaria
all’incauta applicazione dei modelli giacobini alla realtà sociale
del regno meridionale, profondamente diversa da quella francese.
L’opera venne pubblicata a Milano nel 1801, prima anonima e poi nel
1806, a suo nome.
Nei primi anni dell’Ottocento fu impegnato in attività
pubblicistiche presso il Giornale Italiano, e nella stesura
di numerose opere rimaste però incompiute tranne il Platone in
Italia, una specie di romanzo storico-epistolare in cui si
celebra l’antica "Italia pitagorica" come luogo mitico di saggezza e
si inserisce nella polemica del "primato degli italiani", tanto caro
a Gioberti, che animava la cultura del primo Ottocento, rivendicando
la supremazia culturale dell’Italia sulla Francia.
In seguito alla mutata condizione politica, Cuoco tornò a Napoli
continuando ad occuparsi di pubblicistica collaborando al
Monitore delle Sicilie e ricoprendo incarichi politici sotto
Gioacchino Murat. La restaurazione del 1815 minò irreversibilmente
il suo precario equilibrio, portandolo alla follia. Morì a Napoli
nel 1823.
Nel Settecento gl'intellettuali italiani, ed in particolare quelli
napoletani, si aprirono all'influsso delle idee illuministiche
francesi e degli ideali della Rivoluzione del 1789 utilizzandole in
modo autonomo e creativo. Ma dopo l’avventura napoleonica anche in
Italia iniziarono critiche, sia contro l’eccesso di astrazione degli
illuministi, sia degli ideali rivoluzionari del 1789 che con troppa
leggerezza si erano ritenuti applicabili anche in Italia.
In questo clima clulturale, Vincenzo Cuoco affermò, nei Frammenti
di lettere a V. Russo e nel Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, che nessuna rivoluzione può
essere imposta, né con "la forza delle baionette", né ad opera di
"un'assemblea di filosofi"; sostenne che ogni popolo deve avere una
costituzione adeguata alle proprie caratteristiche, alla sua cultura
e alla sua storia. Ogni realtà ha le sue condizioni e le sue
peculiarità, sicchè non è detto che, quanto risulta ottimo a Parigi,
tale risulti anche a Napoli. Non esistono valori universalmente
validi e universalmente applicabili a prescindere dalle particolari
realtà storiche e sociali: questo è stato l’errore dell’illuminismo
e dei rivoluzionari francesi.
In Cuoco troviamo già i germi del Romanticismo, con la sua
attenzione per le realtà particolari. A proposito del fallimento
della rivoluzione napoletana, egli annotava:
"Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere
popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime
dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano
lontanissime da' sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse,
come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti
di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri
capricci, dagli usi nostri...
Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi, se la
costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse
fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità che il
popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso
linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato dei beni
reali, e liberato lo avesse da que' mali che soffriva... forse...
chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore... La nostra rivoluzione,
essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon
fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute
de' patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano
diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse".
(Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799)
Fara
Misuraca
aprile 2007
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