Le pagine della cultura

 

La nascita del dialetto/idioma napoletano

di Raffaele Bracale

Università degli Studi di Napoli. Il Frontale con Federico II scolpito da F. Jerace

 

Chi si pone come tema l’argomento in epigrafe si imbatte subito in alcune questioncelle niente affatto facili da risolvere:

a) stabilire se il napoletano abbia o no una precisa data di nascita e stabilire se esso sia da considerarsi lingua o dialetto; una volta poi chiarito che la parlata partenopea fu la più antica della penisola, deve

b) tentar di rispondere al perché quella parlata non riuscì a diventar lingua nazionale e si lasciò battere in ciò dal dialetto fiorentino.

A tanto mi accingo, sperando con queste paginette, di venire a capo di quanto ripromessomi.

Comincio con il dire subito che Napoli (maggiore città della Magna Graecia, risalente con un emporio dorico sull’isolotto di Megaride, al IX sec. a.C.) per lungo tempo conservò il suo "greco" dorico, via via sopraffatto e smantellato nel tempo da Roma, col suo "latino parlato" di militari, commercianti, coloni, amministratori etc. Si costituì quindi un "latino popolare" parlato a Napoli già nell'Alto Medioevo, anche se ci fu una parziale ripresa del "greco" durante la dipendenza da Bisanzio (specie nei secoli VI-VII-VIII d.C.). Poi si ebbero mistioni solo lessicali esterne nel Basso Medioevo: ad esempio Normanni, Svevi, Angioini; poi i Catalani, gli Spagnoli etc.

Oggi si può tranquillamente affermare che il dialetto/idioma napoletano, così come unanimemente riconosciuto, è un idioma romanzo che, accanto all'italiano, è correntemente parlato (non solo in Italia meridionale, ma anche all’estero tra le migliaia di emigrati che vogliono ancora sentirsi vicini alla terra d’origine) nelle sue molteplici variazioni diatopiche; è parlato cioè nelle regioni della Campania, Basilicata, Calabria settentrionale, Abruzzo, Molise, Puglia e nel Lazio meridionale, al confine con la Campania, con le variabilità dovute alla provenienza o alla collocazione geografica dei parlanti.

Si tratta di tutti quei territori che, nell’antico Regno/Reame delle Due Sicilie, costituivano il Reame al di qua del faro di Messina, laddove la lingua nazionale era appunto il napolitano, mentre il siciliano era quella del Reame al di là del faro (Sicilia). Rammento che Il volgare pugliese (dove per pugliese si intende tutto ciò che è relativo al Mezzogiorno) è l’altro nome con cui sono storicamente conosciuti il napoletano ed i dialetti ausoni (cioè dell’Ausonia, antico termine per indicare una parte della Campania, Basilicata, Calabria e, per estensione, tutta l'Italia meridionale), ed esso sostituì il latino nel 1442 nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli, dall'unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso V d’Aragona (Medina del Campo, 1394 – † Napoli, 27 giugno 1458).

Alfonso d'Aragona, detto il Magnanimo, statua di Palazzo Reale Napoli

Si potrebbe pertanto ritenere la data del 1442 quella di nascita del napoletano; tuttavia del napoletano che (come il siciliano ed altre varietà italoromanze) possiede una ricchissima tradizione letteraria si ànno testimonianze scritte già a far tempo dal 960, con il famoso Placito di Capua (considerato in genere il primo documento in lingua italiana, ma di fatto si tratta invece della lingua utilizzata in Campania, e cioè appunto del volgare pugliese) e poi all'inizio del Trecento, con una volgarizzazione dal latino della Storia della distruzione di Troia di Guido delle Colonne. La prima opera in prosa è invece considerata comunemente un testo di Matteo Spinelli, sindaco di Giovinazzo, conosciuta come Diurnali, un Cronicon degli avvenimenti più importanti del Regno di Sicilia dell’XI secolo, che si arresta al 1268. Si può dunque affermare che il napoletano/volgare pugliese nacque ben prima di tutti gli altri dialetti della penisola e, come tutti i più recenti studi ànno chiarito, fu figlio non del “latino scritto o classico”, studiato nelle scuole del passato ed in quelle odierne, ma di quello “tardo, volgare o parlato”, nell’antico e quotidiano uso orale di esso da parte di tutte le classi sociali in ogni tempo e luogo dell’ampio territorio romanzo.

Purtroppo dei suoi effetti specifici nel “napoletano” non vi sono tracce informative, di modo che i molteplici caratteri delineati qua e là sono ricavati in base alle esperienze e deduzioni di molteplici addetti ai lavori e dei loro studi. Più precisamente è acclarato che il dialetto napoletano (da una visuale fono-morfo-sintattica) si basò, come ho già detto, prevalentemente sul “latino”, non tanto quello “classico o scritto” studiato nelle scuole sui testi di Cicerone e Cesare, ma quanto su quello “volgare o parlato” da tutti quotidianamente, con tracce del sostrato rappresentato da apporti fonetici (di rado morfologici) della lingua “osca” (collaterale del ramo “latino” rispetto a cui con gli Umbri rappresenta l’ultima migrazione indeuropea in Italia).

Circa 2600 anni fa gli Osci erano padroni dell'intero Sud, finché dal III secolo a.C. l'espansione romana non interessò anche il Meridione e per un certo periodo si ebbe una miscela delle due lingue, fino a quando man mano prevalse la supremazia militare e linguistica dell'Urbe.

Da non dimenticare poi che “quel latino tardo, volgare o parlato” ebbe anche altri influssi da un’altra eventuale lingua pre-latina; di conseguenza, sotto quest’aspetto linguistico, il basilare impianto linguistico del napoletano non è debitore di alcun influsso straniero subito nell’Alto e nel Basso Medioevo.

Va poi chiarito che tutti gli apporti che il partenopeo à subito in conseguenza del contatto con popoli stranieri (il greco antico e quello bizantino dal secolo VI ed inizio del VII; il francese dei Normanni, degli Angioini ed in quanto lingua internazionale dal 1700 in poi; il contatto con gli Svevi, quello indiretto coi Longobardi e quello con gli Arabi specie per il tramite della mediazione spagnola, la breve dominazione austriaca dal 1707 al 1734) sono soltanto di natura lessicale: cioè apporti ristretti a parole nude e semplici, senz’alcuna struttura grammaticale di natura fonetica, morfologica o sintattica.

la Tavola Strozzi

Mi pare però opportuno soffermarsi un po’ specificamente sugli effetti del lungo contatto con la dominazione spagnola (con gli Aragonesi-catalani e poi con i Castigliani rispettivamente dal 1442 al 1503 e dal 1503 al 1707). Se ne ricava che circa un mezzo migliaio di parole italiane sono entrate nell’uso di tale lingua, e poco meno di altrettante voci spagnole sono state accolte nel vocabolario italiano; ma certo se ne conterebbero di più se si considerassero anche i lemmi penetrati nel dialetto napoletano del passato ma ormai desueti. Tuttavia un apporto più straordinario è ascrivibile alla sola lingua spagnola, cioè in particolare all’etnia castigliana, la cui lunga dominazione probabilmente à lasciato nel dialetto/idioma napoletano quattro – forse cinque – nitide tracce grammaticali, al di là dei molteplici ispanismi lessicali:

1) il verbo spagnolo “estar”, collaterale di “ser = essere”, è impiegato innanzitutto in comunione col gerundio, in abbinamenti lessical-sintattici come “están comiendo” = “stanno mangiando” ecc., che il napoletano à ereditato in certi usi analoghi di “stare” in forme progressive: sto durmenno = sono intento a dormire, sta facenno ’a spesa = è intento a far la spesa, stanno parlanno = essi sono alle prese coi colloqui…

Inoltre lo stesso verbo “estar” in unione con un aggettivo o participio indica una rispettiva caratteristica transitoria, che invece con “ser” risulterebbe permanente: ecco “mi mujer está cansada = mia moglie è stanca”, “tú estás sudado = tu sei sudato”, “la chica está enferma = la ragazza è malata”, ecc., cui il nostro dialetto risponde con tipologie espressive analoghe, quali sta arraggiato = “è adirato”, stongo assettato = “sono seduto”, stanno malati = “sono ammalati”, tu staje surato = “tu sei sudato”…

2) Così il verbo spagnolo “tener” è usato assoluto al posto di “àber”= “avere” quando non à funzione d’ausiliare e regge il complemento oggetto. Ne danno riprova frasi come “tengo sueño” = “ho sonno”, “tenemos mucho dinero” = “abbiamo molto denaro” ecc., cui rispondono i nostri sintagmi dialettali con tengo suonno, tengo famma e ssete, nu’ ttengo tiempo ’a perdere

3) Ancora: nel “complemento oggetto” rappresentato da esseri animati si trova puntuale nelle due comunità linguistiche la premessa del segnacaso “a”, come capita anche nel portoghese e addirittura in un’area marginale qual è quella del rumeno, altra lingua neolatina; ma si ritrova, senza tale preposizione indiretta, nel Basile (chiamma lo scrivano), forse per vivido influsso della lingua “letteraria” fiorentina?

Ess.: “vi a tu hermano en la plaza = vidi tuo fratello nella piazza”, “he conocido al niño = ho conosciuto il bambino” ecc., con analoghi echi nel napoletano quali aggiu visto a frateto, aggiu salutato a Ppascale, à ‘ncuntrato ô (=a ’o) figlio, capisce a mme!, bbiato a tte! (complemento esclamativo), salutame a ssoreta!

4) Il complemento di compagnia latino coi pronomi personali presenta il “cum” posposto (mecum, tecum = con me, con te); però la ripetizione delle preposizioni anteposte in napoletano nei due primi pronomi personali del singolare (cu mmico, cu ttico) indurrebbe al sospetto che tali ulteriori premesse siano state modellate secondo la parallela tipologia spagnola, nel resto autonoma per la grafia unica e per la lenizione della gutturale “cg” (conmigo, contigo + consigo).

5) Infine la maggior parte dei verbi intransitivi napoletani specie indicanti “movimento” mostra – in quasi tutte le persone dei tempi composti – la possibilità d’alternanza degli ausiliari “essere / avere”. È probabile che, accanto all’uso locale di “essere”, eguale a quello prevalentemente tipico del fiorentino-italiano, il napoletano abbia abbinato l’altro ausiliare forse per riferimento e influsso diretto dello spagnolo (attinto durante i lunghi duecentoquattro anni di dominazione), che appunto ricorre esclusivamente ad “àber” = avere.

Ess.: yo he ido = i’ so’ gghjuto / i’ aggio juto = io sono andato ; ellos àn venido conmigo = chille so’ vvenuti / ànno venuto cu mmico = essi sono venuti con me; yo àbía casi muerto de miedo = i’ ero / êvo quasi muorto ’e paura = io ero quasi morto di paura, ecc..

Tuttavia la mancanza sia d’un dizionario che d’una grammatica d’impronta storica ci impedisce d’avere salde certezze negli orientamenti d’attestazione cronologica circa tali tipi di lessico, di costrutti e sintagmi particolari.

La tomba di Ferdinando e Isabella, Cappella reale, Granada

Torniamo all’excursus storico ricordando che nel XVI secolo re Ferdinando II d’Aragona, il Cattolico (Sos, 10 marzo 1452 –† Madrigalejo, 25 gennaio 1516), impose il castigliano come nuova lingua ufficiale ed il napoletano di stato sopravvisse solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici.

Ora chiediamoci come mai quel dialetto/idioma napoletano, pur essendo il più antico idioma che tenne dietro al latino tardo, volgare e parlato sostituendoli in una vastissima area peninsulare ed insulare (Reame al di là ed al di qua del faro), com’è che non riuscì ad imporsi come lingua ufficiale e nazionale, cosa che invece riuscì ad un altro dialetto locale, quello fiorentino, parlato in un’area più circoscritta e verosimilmente da un numero minore di soggetti?

La risposta è relativamente semplice e penso che (checché ne dica qualche moderno studioso, aduso a storcere il muso innanzi ad affermazioni come quella che sto per fare) il dialetto fiorentino, come giustamente disse Ferdinando Galiani (Chieti 1728 -† Napoli 1787), si impose non per sue intrinseche capacità o virtù espressive, quanto per ragioni storico-politiche, senza dimenticare la destrezza toscana e la soverchieria di letterati e studiosi, mercanti e banchieri toscani che brigarono per imporre il loro dialetto come lingua comune, mentre nel Meridione la perdita dell’indipendenza post-unitaria penalizzò ulteriormente il dialetto/idioma napoletano, già non più in uso negli atti pubblici della nazione e già confinato negli scritti ingiustamente ritenuti buffoneschi di scrittori del calibro di Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570Napoli, 1640), Giambattista Basile (Giugliano in Campania, 1566 - †Giugliano in Campania, 23 febbraio 1632), Filippo Sgruttendio (pseudonimo dello stesso G.C. Cortese), Niccolò Capasso (Grumo Nevano, 13 settembre 1671 - ivi 1744), Pompeo Sarnelli (Polignano 1649 –†Bisceglie 1724).

Maschio Angioino, particolare del Portale di Alfonso d'Aragona

L’avvento della monarchia sabauda fece il resto e la vanagloria glottica e riservata di quella casa regnante poi, attraverso il fascismo, impedì la piena commistione tra la parlata napoletana e quella toscana. Non dimentichiamo infatti che ancora tra il 1915 ed il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a difendere i sacri (la retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone nordiche…) confini d’Italia, parlavano solo il napoletano e non riuscendo spesso a capire gli ordini dati in lingua italiana finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando le cuoia per una patria sentita tale solo nella pomposità interessata di E.A. Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta, Napoli 1884 - † ivi 1961) e della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati graduati partenopei che avessero tradotto gli ordini dall’italiano al napoletano, forse meno mamme e spose e sorelle napoletane, lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e pugliesi avrebbero pianto i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del Carso ed altre impervie alture estranee alle loro terre d’origine!

San Lorenzo Maggiore, gli stemmi dei Sedili ed il campanile

Infine conviene rammentare che non è esatto quanto affermato dal prof. Nicola De Blasi che tempo fa insisté nel dimostrare (?) ed affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli "capitale" del regno meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle altre regioni del Sud, che continuarono a conservare ed attuare un proprio sistema linguistico; invece ancora mo', se si va ad indagare nei linguaggi di Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie si possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto nomine!) forse con le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini? O tentò di rifarsi una verginità, sprovincializzandosi nella speranza forse di passare un giorno dalla Federico II ad università più prestigiose (Luiss, Bocconi etc.).

Napoli, pianta Munster, 1572

Diamo, qui giunti, una risposta alla domanda che c’eravamo posti: come definire il napoletano?

Non lo si può definire lingua perché pur essendo stato, per lunga pezza, un sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfemi), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche al pari della lingua italiana, francese, inglese, tedesca, araba, turca, cinese, ecc all’attualità, pur essendo mezzo di comunicazione scritta ed orale di molti individui, non è parlata da tutta una nazione e resta nell’ambito della varietà dei dialetti e delle parlate regionali; non la si può definire lingua, mancandogliene la dignità pur risultando essere mezzo espressivo di moltissimi letterati, poeti, commediografi che servendosi del napoletano ànno prodotto importanti opere letterarie (poesie, commedie, narrativa), spesso anche accompagnate dalla musica (melodrammi, canzoni ecc.).

Ma non lo si deve neppure definire dialetto atteso che in genere con tale termine si intende un volgare, riduttivo linguaggio minore tributario della lingua ufficiale, cosa che non si attaglia per nulla al napoletano che è invece (e mi ripeto sottolineandolo) è un degnissimo idioma, una apprezzabilissima parlata autonoma, ad ampia diffusione regionale, figlia del tardo latino e di quello volgare e parlato, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli in tutto il meridione, non diventato lingua nazionale solo per la protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni mercanti, banchieri, scrittori e/o poeti toscani!

Rammento a chi mi legge che il fiorentino diventò lingua nazionale peraltro (se non ricordo male, e non ricordo male!) rubando a piene mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali; tutti son concordi nel riconoscere che l'italiano moderno è infatti, come spesso accade con le lingue nazionali, un dialetto che è riuscito, per motivi a volte incomprensibili, a far carriera; ad imporsi, cioè, come lingua ufficiale di una regione molto più vasta di quella originaria.

Alla base dell’italiano si trova infatti il fiorentino letterario usato nel Trecento da Dante (1265 -†1321), Petrarca (1304 -†1374), e Boccaccio (1313 -†1375), che fu a sua volta influenzato dalla lingua siciliana letteraria elaborata in origine dalla Scuola siciliana di Giacomo da Lentini (1230-†1250) e dal modello latino.

Federico II, alla cui corte fiorì la Scola Siciliana

L’italiano è pervenuto poi alle nostre latitudine anche per il tramite degli invasori lombardo- piemontesi, soppiantando o almeno tentando di soppiantare (senza riuscirvi) la ns. parlata autoctona costruita nobilmente, come del resto il fiorentino, e tutti gli altri linguaggi locali dell’Italia, verosimilmente sul latino volgare (parlato dal popolo, volgo) parlato in età classica (e non direttamente dal latino illustre, che fu la lingua usata dai letterati dell'epoca). L’italiano che non à nulla in più del napoletano, si impose come lingua nazionale in epoca trecentesca per l’opera interessata di poeti e scrittori, di mercanti e di banchieri ed in età post-unitaria per la proditoria diffusione voluta dai Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di ministri, filosofi e professori che per anni imposero e continuano ad imporre a schiere di poveri indifesi ragazzi Divine Commedie e Promessi Sposi, Libri Cuore etc. a colazione, pranzo e cena, tenendo in non cale tutta la produzione seicentesca ed ottocentesca napoletana! In conclusione reputo che per evitare confusione o fraintendimenti il napoletano non sia da definirsi né dialetto, né lingua, ma idioma!

Idioma ch’io difendo a spada tratta e mi auguro che prima o poi chi comanda i giuochi prenda una decisione storica e si decida a fare insegnare l’idioma partenopeo almeno nel meridione, in tutte le scuole d’ogni ordine e grado affidandone l’insegnamento non a “strascinafacenne” incolti e presuntuosi né ai soliti noti amici degli amici, ma ad appassionati e preparati studiosi sia pure estranei ai palazzi del potere.

Hoc est in votis!

Raffaele Bracale

Nota esplicativa

la questione della h etimologica nel verbo avere e dintorni.

Prima questione.

Il problema del mantenimento della h etimologica nella coniugazione del verbo avere (dal lat. habere) affonda le sue radici lontano nel tempo: nell’italiano antico la sua presenza era di gran lunga maggiore rispetto all’uso moderno, in cui è limitato alle forme verbali hanno, ha, ho, hai (come sostanzialmente sancisce in modo definitivo il Vocabolario degli Accademici della Crusca, a partire dalla terza edizione, del 1691). In queste quattro forme la h è stata mantenuta per una questione diacritica, perché consentiva di distinguer le voci verbali da altre omofone (cioè “che ànno lo stesso suono, la stessa pronuncia”) anno (sostantivo), a (preposizione), o (congiunzione) e ai (preposizione articolata); ma, visto che una discriminazione di questo tipo costituisce un’eccezione nel sistema grafico italiano, alcuni ànno proposto l’eliminazione della h, che in fondo all’attualità, a malgrado della sua presenza etimologica, non è che una consonante diacritica, e non v’à ragione di mantenerla se non in presenza di voci omofone da distinguere (ed in effetti in parecchie parole derivate da voci latine principianti per h (cfr. homouomo, honestasonestà etc.) nel passaggio all’italiano l’aspirata iniziale è o sparita del tutto (cfr. onestà ) o al massimo à procurato dittongazione della sillaba iniziale (cfr. homouomo, heriieri); dicevo che alcuni ànno proposto l’eliminazione della h, suggerendo di affrontare il problema della trasparenza delle forme con un’indicazione diacritica (cioè indicativa) diversa, meno invasiva quale quella dell’accento.

La questione, dicevo viene di lontano e già sul finire del 1700 si propose da qualcuno l’adozione delle voci accentate ò, ài, à, ànno in luogo di ho, hai, ha, hanno ma bisognò attendere il1911 quando il Congresso della “Società Ortografica Italiana” avanzò la proposta di indicare questa differenza con l’ausilio dell’accento sulle quattro voci verbali. La questione si è trascinata a lungo nel periodo tra le due guerre (un grande sostenitore di questa tesi è stato Ferdinando Martini, docente di Letteratura Italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), ed à avuto un suo epilogo anche nel secondo dopoguerra: nel Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (recentemente pubblicato anche in versione elettronica su CD-ROM) l’editore sceglie questa soluzione per indicare le quattro voci verbali, con un risparmio, come afferma in un suo scritto, di un centinaio di pagine. Pure nell’usatissimo e completissimo Grande Dizionario della Lingua Italiana Garzanti le forme accentate vengono segnalate come esatte anche se rare e mi meraviglio molto che il Treccani non dia le medesime indicazioni! Va però confermato che attualmente le forme con la h sono senz’altro le più diffuse ed indicate come corrette dai grammatici e dai linguisti sessantottini(?) iconoclasti di tutto quel che à sapore di passato; ad esempio: nella Grammatica di Luca Serianni (cattedratico a LA SAPIENZA di Roma) si trova una breve sintesi sulla questione e si precisa che “le forme à, ài, ànno ed ò oggi appaiono grafie non certo erronee, ma di uso raro e di tono popolare; tuttavia non sono poche le persone che le usano, soprattutto se la loro formazione scolastica è stata compiuta nella prima metà del secolo scorso”. Ora io dico che lo spocchioso Serianni deve mettersi d’accordo con se stesso; prima infatti afferma che le forme à, ài, ànno ed ò son di uso raro, poi confessa che non sono poche le persone che le usano. Ubi veritas? Una cosa è certa: nella pluriennale questione è emerso che si insegnava la praticabilità delle forme à, ài, ànno ed ò anche in alcune scuole elementari degli anni Cinquanta e Sessanta; sono i cattedratici giovani che storcono il naso e respingono l’uso delle forme à, ài, ànno ed ò pur senza indicare convincenti, adeguati motivi del loro dissentire.

Seconda questione.

Col verbo avere si è sempre più diffusa nell'italiano parlato di ogni regione l'inclusione dell'elemento ci, dando quasi luogo a un paradigma diverso: non ho, hai, ha, ma ciò, ciai, cià. Quando però forme del genere, tipiche dell'oralità, devono ricevere rappresentazione scritta sorgono problemi. Naturalmente non è possibile adottare scrizioni come *c'ho..., *c’ha…,*c’hai… *c’hanno atteso che è noto, o dovrebbe esser noto (almeno a chi abbia fatto delle buone scuole elementari e medie…) che la vocale i si può elidere solo davanti ad altra i oppure può essere elisa la i di ci davanti alla e, elisione che comunque continua a mantenere il suono palatale della consonante (c) d’accompagnamento e non genera un suono gutturale come invece avviene per l’ impossibile elisione della i di ci davanti a, o,u (cfr. ci è c’è che si legge ce (di cesto), mentre non si può elidere la i di ci abbiamo perché c’abbiamo si legge o leggerebbe cabbiamo, e non si può elidere la i di ci ostacolano perché c’ostacolano si legge o leggerebbe costacolano, né si può elidere, sempre per esempio la i di ci usano perché c’usano si legge o leggerebbe cúsano o cusàno. Va da sé che il problema non si pone per la i di altri digrammi (ti – di – si) per i quale l’elisione della i è sempre consentita davanti a tutte le vocali, atteso che non si generano mutamenti di suoni consonantici.

Tornando al problema della scrizione, si potrebbe optare per la grafia ci ho, ci hai ci ha, ci hanno - che è quella a cui ricorse un grande scrittore sensibile alla rappresentazione del parlato, il Verga; però molti arroganti linguisti non ritengono soddisfacente la soluzione del Verga, ma non ne spiegano il motivo, né se ne capisce il perché; io dico che usando le antiche, raccomandate forme à, ài, ànno ed ò si risolverebbe la questione ottenendo ci ò, ci ài, ci à, ci ànno di tranquilla, corretta lettura ci-ò, ci-ài, ci-à, ci-ànno e corretta scrizione.

Un’ultima notazione.

Le forme à, ài, ànno ed ò usate in luogo di ho, hai, ha, hanno trovano il dissenso non solo dei linguisti imberbi e sessantottini, ma pure dei redattori dei giornali, redattori che son usi a correggere in ho, hai, ha, hanno le forme à, ài, ànno ed ò usate da qualche lettore che scrive ai giornali, motivando tali indebite correzioni con l’affermare che i giornali vanno nelle mani d’un pubblico eterogeneo: persone istruite (che forse sanno della possibilità della doppia grafia dell’indicativo presente del verbo avere) e persone ignoranti (che resterebbero interdetti davanti alle voci verbali accentate del tipo ànno usate in luogo delle più comuni come hanno. E poiché oggi sono i media che dirigono la musica e le redazioni dei giornali brulicano di iconoclasti ragazzini settantottini, figli del marxismo dilagante ragazzini che ànno preso la mano anche ai redattori nati negli anni quaranta e cinquanta, non resta che accettare le correzioni del redattore di turno e tenerse ‘a posta sia pure obtorto collo! Ma quando non si scrive ai giornali forse ci si potrà riprender la libertà di scrivere ò, à, ài, ànno in luogo di ho, hai, ha, hanno impipandosene dei redattori dei giornali e dei linguisti sessantottini e tenendo fede agli insegnamenti delle maestre come la mia (classe 1911) che Iddio l’abbia in gloria!

Raffaele Bracale


Articolo inviato dall'autore al Portale del Sud, che ringrazia, nel mese di giugno 2010

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