Chi si pone come tema l’argomento in epigrafe si imbatte subito in
alcune questioncelle niente affatto facili da risolvere:
a) stabilire se il napoletano abbia o no una precisa data di nascita
e stabilire se esso sia da considerarsi lingua o dialetto; una volta
poi chiarito che la parlata partenopea fu la più antica della
penisola, deve
b) tentar di rispondere al perché quella parlata non riuscì a
diventar lingua nazionale e si lasciò battere in ciò dal dialetto
fiorentino.
A tanto mi accingo, sperando con queste paginette, di venire a capo
di quanto ripromessomi.
Comincio con il dire subito che
Napoli (maggiore
città della
Magna Graecia, risalente con un emporio dorico sull’isolotto di
Megaride, al IX sec. a.C.) per lungo tempo conservò il suo "greco"
dorico, via via sopraffatto e smantellato nel tempo da Roma, col suo
"latino parlato" di militari, commercianti, coloni, amministratori
etc. Si costituì quindi un "latino popolare" parlato a Napoli
già nell'Alto Medioevo, anche se ci fu una parziale ripresa del "greco"
durante la
dipendenza da Bisanzio (specie nei secoli VI-VII-VIII d.C.). Poi
si ebbero mistioni solo lessicali esterne nel Basso Medioevo: ad
esempio Normanni,
Svevi,
Angioini; poi i Catalani, gli
Spagnoli etc.
Oggi si può tranquillamente affermare che il dialetto/idioma
napoletano, così come unanimemente riconosciuto, è un
idioma
romanzo che, accanto all'italiano,
è correntemente parlato (non solo in
Italia meridionale, ma
anche all’estero tra le migliaia di emigrati che vogliono ancora
sentirsi vicini alla terra d’origine) nelle sue molteplici
variazioni diatopiche; è
parlato cioè nelle regioni della
Campania, Basilicata,
Calabria settentrionale,
Abruzzo,
Molise,
Puglia e nel
Lazio meridionale, al
confine con la Campania, con le variabilità dovute alla provenienza
o alla collocazione geografica dei parlanti.
Si tratta di tutti quei territori che, nell’antico
Regno/Reame delle
Due Sicilie,
costituivano il Reame al di qua del faro di
Messina,
laddove la lingua nazionale era appunto il napolitano, mentre
il siciliano
era quella del Reame al di là del faro (Sicilia).
Rammento che Il volgare pugliese (dove
per pugliese si intende tutto ciò che è relativo al
Mezzogiorno)
è l’altro
nome con cui sono storicamente conosciuti il napoletano ed i
dialetti ausoni
(cioè
dell’Ausonia, antico termine per indicare una parte della
Campania, Basilicata, Calabria e, per estensione,
tutta l'Italia
meridionale), ed esso sostituì il
latino nel 1442
nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a
Napoli,
dall'unificazione delle
Due Sicilie, per decreto
di
Alfonso V d’Aragona (Medina
del Campo,
1394 – †
Napoli,
27 giugno
1458).
|
Alfonso d'Aragona, detto il Magnanimo, statua di
Palazzo Reale Napoli |
Si potrebbe pertanto ritenere la data del 1442 quella di nascita del
napoletano; tuttavia del napoletano che (come il siciliano ed altre
varietà italoromanze) possiede una ricchissima tradizione letteraria
si ànno testimonianze scritte già a far tempo dal
960,
con il famoso
Placito di Capua
(considerato in genere il primo documento in lingua italiana, ma di
fatto si tratta invece della lingua utilizzata in Campania, e cioè
appunto del volgare pugliese) e poi all'inizio del Trecento,
con una volgarizzazione dal latino della Storia della
distruzione di Troia di
Guido delle Colonne.
La prima opera in prosa è invece considerata comunemente un testo di
Matteo Spinelli,
sindaco di Giovinazzo,
conosciuta come
Diurnali,
un Cronicon
degli avvenimenti più importanti del
Regno di Sicilia
dell’XI secolo,
che si arresta al 1268.
Si può dunque affermare che il napoletano/volgare pugliese nacque
ben prima di tutti gli altri dialetti della penisola e, come tutti i
più recenti studi ànno chiarito, fu figlio non del “latino
scritto o classico”, studiato nelle scuole del passato ed in quelle
odierne, ma di quello “tardo, volgare o parlato”, nell’antico
e quotidiano uso orale di esso da parte di tutte le classi sociali
in ogni tempo e luogo dell’ampio territorio romanzo.
Purtroppo dei suoi effetti specifici nel “napoletano” non vi
sono tracce informative, di modo che i molteplici caratteri
delineati qua e là sono ricavati in base alle esperienze e deduzioni
di molteplici addetti ai lavori e dei loro studi. Più precisamente è
acclarato che il dialetto napoletano (da una visuale
fono-morfo-sintattica) si basò, come ho già detto, prevalentemente
sul “latino”, non tanto quello “classico o scritto” studiato nelle
scuole sui testi di Cicerone e Cesare, ma quanto su quello “volgare
o parlato” da tutti quotidianamente, con tracce del sostrato
rappresentato da apporti fonetici (di rado morfologici) della lingua
“osca” (collaterale del ramo “latino” rispetto a cui con gli Umbri
rappresenta l’ultima migrazione indeuropea in Italia).
Circa 2600 anni fa gli Osci erano padroni dell'intero Sud, finché
dal III secolo a.C. l'espansione romana non interessò anche il
Meridione e per un certo periodo si ebbe una miscela delle due
lingue, fino a quando man mano prevalse la supremazia militare e
linguistica dell'Urbe.
Da non dimenticare poi che “quel latino tardo, volgare o parlato”
ebbe anche altri influssi da un’altra eventuale lingua pre-latina;
di conseguenza, sotto quest’aspetto linguistico, il basilare
impianto linguistico del napoletano non è debitore di alcun influsso
straniero subito nell’Alto e nel Basso Medioevo.
Va poi chiarito che tutti gli apporti che il partenopeo à subito in
conseguenza del contatto con popoli stranieri (il greco antico
e quello bizantino dal secolo VI ed inizio del VII; il
francese dei Normanni, degli Angioini ed in quanto lingua
internazionale dal 1700 in poi; il contatto con gli Svevi, quello
indiretto coi Longobardi e quello con gli Arabi specie per il
tramite della mediazione spagnola, la breve
dominazione austriaca dal 1707 al 1734) sono soltanto di natura
lessicale: cioè apporti ristretti a parole nude e semplici,
senz’alcuna struttura grammaticale di natura fonetica, morfologica o
sintattica.
|
la Tavola Strozzi |
Mi pare però opportuno soffermarsi un po’ specificamente sugli
effetti del lungo contatto con la dominazione spagnola (con gli
Aragonesi-catalani e poi con i Castigliani rispettivamente dal 1442
al 1503 e dal 1503 al 1707). Se ne ricava che circa un mezzo
migliaio di parole italiane sono entrate nell’uso di tale lingua, e
poco meno di altrettante voci spagnole sono state accolte nel
vocabolario italiano; ma certo se ne conterebbero di più se si
considerassero anche i lemmi penetrati nel dialetto napoletano del
passato ma ormai desueti. Tuttavia un apporto più straordinario è
ascrivibile alla sola lingua spagnola, cioè in particolare all’etnia
castigliana, la cui lunga dominazione probabilmente à lasciato nel
dialetto/idioma napoletano quattro – forse cinque – nitide tracce
grammaticali, al di là dei molteplici ispanismi lessicali:
1) il verbo spagnolo “estar”, collaterale di “ser =
essere”, è impiegato innanzitutto in comunione col gerundio, in
abbinamenti lessical-sintattici come “están comiendo” = “stanno
mangiando” ecc., che il napoletano à ereditato in certi usi
analoghi di “stare” in forme progressive: sto durmenno = sono
intento a dormire, sta facenno ’a spesa = è intento a far la
spesa, stanno parlanno = essi sono alle prese coi colloqui…
Inoltre lo stesso verbo “estar” in unione con un aggettivo o
participio indica una rispettiva caratteristica transitoria, che
invece con “ser” risulterebbe permanente: ecco “mi mujer está
cansada = mia moglie è stanca”, “tú estás sudado = tu sei sudato”,
“la chica está enferma = la ragazza è malata”, ecc., cui il nostro
dialetto risponde con tipologie espressive analoghe, quali sta
arraggiato = “è adirato”, stongo assettato = “sono
seduto”, stanno malati = “sono ammalati”, tu staje surato
= “tu sei sudato”…
2) Così il verbo spagnolo “tener” è usato assoluto al
posto di “àber”= “avere” quando non à funzione d’ausiliare e regge
il complemento oggetto. Ne danno riprova frasi come “tengo sueño” =
“ho sonno”, “tenemos mucho dinero” = “abbiamo molto denaro” ecc.,
cui rispondono i nostri sintagmi dialettali con tengo suonno,
tengo famma e ssete, nu’ ttengo tiempo ’a perdere…
3) Ancora: nel “complemento oggetto” rappresentato da esseri
animati si trova puntuale nelle due comunità linguistiche la
premessa del segnacaso “a”, come capita anche nel portoghese
e addirittura in un’area marginale qual è quella del rumeno, altra
lingua neolatina; ma si ritrova, senza tale preposizione indiretta,
nel Basile (chiamma lo scrivano), forse per vivido influsso
della lingua “letteraria” fiorentina?
Ess.: “vi a tu hermano en la plaza = vidi tuo fratello nella
piazza”, “he conocido al niño = ho conosciuto il bambino”
ecc., con analoghi echi nel napoletano quali aggiu visto a
frateto, aggiu salutato a Ppascale, à ‘ncuntrato ô (=a
’o) figlio, capisce a mme!, bbiato a tte! (complemento
esclamativo), salutame a ssoreta!
4) Il complemento di compagnia latino coi pronomi personali
presenta il “cum” posposto (mecum, tecum = con me, con te); però la
ripetizione delle preposizioni anteposte in napoletano nei due primi
pronomi personali del singolare (cu mmico, cu ttico)
indurrebbe al sospetto che tali ulteriori premesse siano state
modellate secondo la parallela tipologia spagnola, nel resto
autonoma per la grafia unica e per la lenizione della gutturale “c→g”
(conmigo, contigo + consigo).
5) Infine la maggior parte dei verbi intransitivi napoletani
specie indicanti “movimento” mostra – in quasi tutte le persone dei
tempi composti – la possibilità d’alternanza degli ausiliari “essere
/ avere”. È probabile che, accanto all’uso locale di “essere”,
eguale a quello prevalentemente tipico del fiorentino-italiano, il
napoletano abbia abbinato l’altro ausiliare forse per riferimento e
influsso diretto dello spagnolo (attinto durante i lunghi
duecentoquattro anni di dominazione), che appunto ricorre
esclusivamente ad “àber” = avere.
Ess.: yo he ido = i’ so’ gghjuto / i’ aggio juto = io sono
andato ; ellos àn venido conmigo = chille so’ vvenuti / ànno
venuto cu mmico = essi sono venuti con me; yo àbía casi muerto
de miedo = i’ ero / êvo quasi muorto ’e paura = io ero quasi
morto di paura, ecc..
Tuttavia la mancanza sia d’un dizionario che d’una grammatica
d’impronta storica ci impedisce d’avere salde certezze negli
orientamenti d’attestazione cronologica circa tali tipi di lessico,
di costrutti e sintagmi particolari.
|
La tomba di Ferdinando e Isabella,
Cappella reale, Granada |
Torniamo all’excursus storico ricordando che nel
XVI secolo re
Ferdinando II d’Aragona, il Cattolico (Sos,
10 marzo
1452
–† Madrigalejo,
25 gennaio
1516),
impose il castigliano
come
nuova lingua ufficiale ed il napoletano di stato sopravvisse solo
nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari
pubblici.
Ora chiediamoci come mai quel dialetto/idioma napoletano, pur
essendo il più antico idioma che tenne dietro al latino tardo,
volgare e parlato sostituendoli in una vastissima area peninsulare
ed insulare (Reame al di là ed al di qua del faro), com’è che non
riuscì ad imporsi come lingua ufficiale e nazionale, cosa che invece
riuscì ad un altro dialetto locale, quello fiorentino, parlato in
un’area più circoscritta e verosimilmente da un numero minore di
soggetti?
La risposta è relativamente semplice e penso che (checché ne dica
qualche moderno studioso, aduso a storcere il muso innanzi ad
affermazioni come quella che sto per fare) il dialetto fiorentino,
come giustamente disse
Ferdinando Galiani (Chieti 1728 -† Napoli 1787), si impose non
per sue intrinseche capacità o virtù espressive, quanto per ragioni
storico-politiche, senza dimenticare la destrezza toscana e la
soverchieria di letterati e studiosi, mercanti e banchieri toscani
che brigarono per imporre il loro dialetto come lingua comune,
mentre nel Meridione la perdita dell’indipendenza post-unitaria
penalizzò ulteriormente il dialetto/idioma napoletano, già non più
in uso negli atti pubblici della nazione e già confinato negli
scritti ingiustamente ritenuti buffoneschi di scrittori del calibro
di
Giulio Cesare Cortese (Napoli,
1570
– †Napoli,
1640),
Giambattista Basile
(Giugliano in Campania, 1566 - †Giugliano
in Campania, 23 febbraio 1632), Filippo Sgruttendio
(pseudonimo dello stesso G.C. Cortese), Niccolò Capasso (Grumo
Nevano,
13 settembre
1671
- † ivi
1744), Pompeo
Sarnelli (Polignano 1649 –†Bisceglie
1724).
L’avvento della monarchia sabauda fece il resto e la vanagloria
glottica e riservata di quella casa regnante poi, attraverso il
fascismo, impedì la piena commistione tra la parlata napoletana e
quella toscana. Non dimentichiamo infatti che ancora tra il 1915 ed
il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a difendere i sacri (la
retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone nordiche…)
confini d’Italia, parlavano solo il napoletano e non riuscendo
spesso a capire gli ordini dati in lingua italiana finirono per
eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando
le cuoia per una patria sentita tale solo nella pomposità
interessata di E.A.
Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta, Napoli 1884 - † ivi
1961) e della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati
graduati partenopei che avessero tradotto gli ordini dall’italiano
al napoletano, forse meno mamme e spose e sorelle napoletane,
lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e pugliesi avrebbero pianto
i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del Carso ed altre
impervie alture estranee alle loro terre d’origine!
Infine conviene rammentare che non è esatto quanto affermato dal
prof. Nicola De Blasi che tempo fa insisté nel dimostrare (?) ed
affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli "capitale" del regno
meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle
altre regioni del Sud, che continuarono a conservare ed attuare un
proprio sistema linguistico; invece ancora mo', se si va ad indagare
nei linguaggi di Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie si
possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente
dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto nomine!) forse con
le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini? O tentò
di rifarsi una verginità, sprovincializzandosi nella speranza forse
di passare un giorno dalla Federico II ad università più prestigiose
(Luiss, Bocconi etc.).
|
Napoli, pianta Munster, 1572 |
Diamo, qui giunti, una risposta alla domanda che c’eravamo posti:
come definire il napoletano?
Non lo si può definire lingua perché pur essendo stato, per lunga
pezza, un sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi),
di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi
e
sintagmi), e di forme grammaticali (morfemi),
accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come
mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e
sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo
storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche
e sintattiche al pari della lingua
italiana,
francese,
inglese,
tedesca,
araba,
turca,
cinese, ecc all’attualità, pur essendo mezzo di
comunicazione scritta ed orale di molti individui, non è parlata da
tutta una nazione e resta nell’ambito della varietà dei dialetti e
delle parlate regionali; non la si può definire lingua,
mancandogliene la dignità pur risultando essere mezzo espressivo di
moltissimi letterati, poeti, commediografi che servendosi del
napoletano ànno prodotto importanti opere letterarie (poesie,
commedie, narrativa), spesso anche accompagnate dalla musica
(melodrammi, canzoni ecc.).
Ma non lo si deve neppure definire dialetto atteso che in genere con
tale termine si intende un volgare, riduttivo linguaggio minore
tributario della lingua ufficiale, cosa che non si attaglia per
nulla al napoletano che è invece (e mi ripeto sottolineandolo) è un
degnissimo idioma, una apprezzabilissima parlata autonoma, ad ampia
diffusione regionale, figlia del tardo latino e di quello volgare e
parlato, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli
in tutto il meridione, non diventato lingua nazionale solo per la
protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni mercanti,
banchieri, scrittori e/o poeti toscani!
Rammento a chi mi legge che il fiorentino diventò lingua nazionale
peraltro (se non ricordo male, e non ricordo male!) rubando a piene
mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali; tutti son
concordi nel riconoscere che l'italiano moderno è infatti, come
spesso accade con le lingue nazionali, un dialetto che è riuscito,
per motivi a volte incomprensibili, a far carriera; ad
imporsi, cioè, come lingua ufficiale di una regione molto più vasta
di quella originaria.
Alla base dell’italiano si trova infatti il fiorentino letterario
usato nel
Trecento
da
Dante
(1265 -†1321),
Petrarca
(1304 -†1374), e
Boccaccio
(1313 -†1375), che fu a sua volta influenzato dalla
lingua siciliana
letteraria elaborata in origine dalla
Scuola siciliana di
Giacomo da Lentini
(1230-†1250)
e dal modello latino.
|
Federico II, alla cui corte fiorì la
Scola Siciliana |
L’italiano è pervenuto poi alle nostre latitudine anche per il
tramite degli invasori lombardo- piemontesi, soppiantando o almeno
tentando di soppiantare (senza riuscirvi) la ns. parlata autoctona
costruita nobilmente, come del resto il fiorentino, e tutti gli
altri linguaggi locali dell’Italia, verosimilmente sul latino
volgare (parlato dal popolo, volgo) parlato in età classica (e non
direttamente dal latino illustre, che fu la lingua usata dai
letterati dell'epoca). L’italiano che non à nulla in più del
napoletano, si impose come lingua nazionale in epoca trecentesca per
l’opera interessata di poeti e scrittori, di mercanti e di banchieri
ed in età post-unitaria per la proditoria diffusione voluta dai
Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di ministri, filosofi e
professori che per anni imposero e continuano ad imporre a schiere
di poveri indifesi ragazzi Divine Commedie e Promessi Sposi,
Libri Cuore etc. a colazione, pranzo e cena, tenendo in non cale
tutta la produzione seicentesca ed ottocentesca napoletana! In
conclusione reputo che per evitare confusione o fraintendimenti il
napoletano non sia da definirsi né dialetto, né lingua, ma idioma!
Idioma ch’io difendo a spada tratta e mi auguro che prima o poi chi
comanda i giuochi prenda una decisione storica e si decida a fare
insegnare l’idioma partenopeo almeno nel meridione, in tutte le
scuole d’ogni ordine e grado affidandone l’insegnamento non a “strascinafacenne”
incolti e presuntuosi né ai soliti noti amici degli amici, ma ad
appassionati e preparati studiosi sia pure estranei ai palazzi del
potere.
Hoc est in votis!
Raffaele Bracale
Nota esplicativa
la
questione della
h
etimologica nel verbo avere e dintorni.
Prima questione.
Il problema del mantenimento della
h
etimologica nella coniugazione del verbo avere (dal
lat. habere) affonda le sue radici lontano nel
tempo: nell’italiano antico la sua presenza era di gran lunga
maggiore rispetto all’uso moderno, in cui è limitato alle forme
verbali
hanno,
ha,
ho,
hai
(come sostanzialmente sancisce in modo definitivo il
Vocabolario
degli Accademici della Crusca, a partire dalla terza
edizione, del 1691). In queste quattro forme la
h è
stata mantenuta per una questione diacritica, perché consentiva di
distinguer le voci verbali da altre omofone (cioè “che ànno lo
stesso suono, la stessa pronuncia”)
anno
(sostantivo),
a
(preposizione),
o
(congiunzione) e
ai
(preposizione articolata); ma, visto che una discriminazione di
questo tipo costituisce un’eccezione nel sistema grafico italiano,
alcuni ànno proposto l’eliminazione della
h,
che in fondo all’attualità, a malgrado della sua presenza
etimologica, non è che una consonante diacritica, e non v’à ragione
di mantenerla se non in presenza di voci omofone da distinguere (ed
in effetti in parecchie parole derivate da voci latine principianti
per h (cfr. homo→uomo,
honestas→onestà
etc.) nel passaggio all’italiano l’aspirata iniziale è o
sparita del tutto (cfr. onestà ) o al massimo à procurato
dittongazione della sillaba iniziale (cfr. homo→uomo,
heri→ieri);
dicevo che alcuni ànno proposto l’eliminazione della
h,
suggerendo di affrontare il problema della trasparenza delle forme
con un’indicazione diacritica (cioè indicativa) diversa, meno
invasiva quale quella dell’accento.
La questione, dicevo viene di lontano e già sul finire del 1700 si
propose da qualcuno l’adozione delle voci accentate ò, ài, à,
ànno in luogo di ho, hai, ha, hanno ma bisognò
attendere il1911 quando il Congresso della “Società Ortografica
Italiana” avanzò la proposta di indicare questa differenza con
l’ausilio dell’accento sulle quattro voci verbali. La questione si è
trascinata a lungo nel periodo tra le due guerre (un grande
sostenitore di questa tesi è stato Ferdinando Martini, docente di
Letteratura Italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), ed
à avuto un suo epilogo anche nel secondo dopoguerra: nel
Dizionario
Bompiani delle Opere e dei Personaggi (recentemente
pubblicato anche in versione elettronica su CD-ROM) l’editore
sceglie questa soluzione per indicare le quattro voci verbali, con
un risparmio, come afferma in un suo scritto, di un centinaio di
pagine. Pure nell’usatissimo e completissimo Grande Dizionario
della Lingua Italiana Garzanti le forme accentate vengono
segnalate come esatte anche se rare e mi meraviglio molto che il
Treccani non dia le medesime indicazioni! Va però confermato che
attualmente le forme con la
h
sono senz’altro le più diffuse ed indicate come corrette dai
grammatici e dai linguisti sessantottini(?) iconoclasti di tutto
quel che à sapore di passato; ad esempio: nella
Grammatica
di Luca Serianni (cattedratico a LA SAPIENZA di Roma) si trova una
breve sintesi sulla questione e si precisa che “le forme
à,
ài,
ànno ed
ò oggi appaiono grafie non certo erronee, ma di
uso raro e di tono popolare; tuttavia non sono poche le persone che
le usano, soprattutto se la loro formazione scolastica è stata
compiuta nella prima metà del secolo scorso”. Ora io dico che lo
spocchioso Serianni deve mettersi d’accordo con se stesso; prima
infatti afferma che le forme
à,
ài,
ànno
ed ò
son di uso raro, poi confessa che non sono poche le
persone che le usano. Ubi veritas? Una cosa è certa: nella
pluriennale questione è emerso che si insegnava la praticabilità
delle forme
à,
ài,
ànno
ed ò
anche in alcune scuole elementari degli anni Cinquanta e Sessanta;
sono i cattedratici giovani che storcono il naso e respingono l’uso
delle forme
à,
ài,
ànno
ed ò
pur senza indicare convincenti, adeguati motivi del loro dissentire.
Seconda questione.
Col verbo
avere si è sempre più diffusa nell'italiano parlato di
ogni regione l'inclusione dell'elemento
ci,
dando quasi luogo a un paradigma diverso: non
ho,
hai,
ha,
ma ciò,
ciai,
cià.
Quando però forme del genere, tipiche dell'oralità, devono ricevere
rappresentazione scritta sorgono problemi. Naturalmente non è
possibile adottare scrizioni come *c'ho...,
*c’ha…,*c’hai… *c’hanno atteso che è noto, o dovrebbe esser
noto (almeno a chi abbia fatto delle buone scuole elementari e
medie…) che la vocale i si può elidere solo davanti ad
altra i oppure può essere elisa la i di
ci davanti alla e, elisione che comunque
continua a mantenere il suono palatale della consonante (c)
d’accompagnamento e non genera un suono gutturale come invece
avviene per l’ impossibile elisione della i di
ci davanti a, o,u (cfr. ci è
→c’è
che si legge ce (di cesto), mentre non si può elidere la i
di ci abbiamo perché c’abbiamo si legge o leggerebbe
cabbiamo, e non si può elidere la i di ci
ostacolano perché c’ostacolano si legge o leggerebbe
costacolano, né si può elidere, sempre per esempio la i
di ci usano perché c’usano si legge o leggerebbe
cúsano o cusàno. Va da sé che il problema non si pone per
la i di altri digrammi (ti – di – si) per i quale l’elisione della i
è sempre consentita davanti a tutte le vocali, atteso che non si
generano mutamenti di suoni consonantici.
Tornando al problema della scrizione, si potrebbe optare per
la grafia
ci ho,
ci hai ci ha,
ci hanno - che è quella a cui ricorse un grande
scrittore sensibile alla rappresentazione del parlato, il Verga;
però molti arroganti linguisti non ritengono soddisfacente la
soluzione del Verga, ma non ne spiegano il motivo, né se ne capisce
il perché; io dico che usando le antiche, raccomandate forme
à,
ài,
ànno
ed ò
si risolverebbe la questione ottenendo
ci ò, ci ài, ci
à, ci ànno
di tranquilla, corretta lettura
ci-ò, ci-ài, ci-à, ci-ànno
e corretta scrizione.
Un’ultima notazione.
Le
forme
à,
ài,
ànno ed
ò
usate in luogo di
ho, hai, ha,
hanno
trovano il dissenso non solo dei linguisti imberbi e sessantottini,
ma pure dei redattori dei giornali, redattori che son usi a
correggere in
ho, hai, ha,
hanno
le forme
à,
ài,
ànno
ed ò
usate da qualche lettore che scrive ai giornali, motivando tali
indebite correzioni con l’affermare che i giornali vanno nelle mani
d’un pubblico eterogeneo: persone istruite (che forse sanno della
possibilità della doppia grafia dell’indicativo presente del verbo
avere)
e persone ignoranti (che resterebbero interdetti davanti alle voci
verbali accentate del tipo
ànno
usate in luogo delle più comuni come
hanno.
E poiché oggi sono i media che dirigono la musica e le redazioni dei
giornali brulicano di iconoclasti ragazzini settantottini, figli del
marxismo dilagante ragazzini che ànno preso la mano anche ai
redattori nati negli anni quaranta e cinquanta, non resta che
accettare le correzioni del redattore di turno e tenerse ‘a posta
sia pure obtorto collo! Ma quando non si scrive ai giornali forse ci
si potrà riprender la libertà di scrivere
ò, à,
ài,
ànno
in luogo di
ho, hai, ha,
hanno
impipandosene dei redattori dei giornali e dei linguisti
sessantottini e tenendo fede agli insegnamenti delle maestre come la
mia (classe 1911) che Iddio l’abbia in gloria!
Raffaele Bracale
Articolo
inviato dall'autore al Portale del Sud, che ringrazia, nel mese di
giugno 2010 |