Gli anni
che vanno dall’ultimo scorcio del secolo diciannovesimo fino ai
nostri giorni sono stati anni di profondi cambiamenti evidenti
nell’espressione artistica e letteraria alla stregua di quanto è
avvenuto nell’evoluzione delle tecnologie e delle comunicazioni.
L’obiettivo che ci si prefigge in questa sede non è tanto quello di
effettuare un saggio sulla poesia napoletana di questi anni, quanto
quello di una breve conversazione sull’argomento; il nostro
contributo non è tanto di dissertare sulla poesia a Napoli quanto di
offrire lo spunto al dialogo ad ampio raggio. A tale proposito
riguardo alla quantità e alla tipologia della poesia a Napoli
riportiamo le parole del Tilgher in La poesia dialettale
napoletana: «Il mondo di affetti e passioni, concetti e
preconcetti, giudizi e pregiudizi, ideali e convenzioni di cui la
poesia dialettale napoletana si alimentava è in piena avanzatissima
dissoluzione.[…] Profondissima, soprattutto, la trasformazione che
sta subendo il sentimento di cui pressoché esclusivamente la poesia
dialettale napoletana si alimentò per quasi mezzo secolo». La
trasformazione della società incide quindi sul modo di esprimere i
sentimenti, dall’amore tra uomo e donna, che da sempre è il
sentimento per eccellenza della poesia napoletana al sentimento
dell’amore per i figli, l’amicizia, il lavoro, per Napoli.
La poesia
dialettale napoletana rispecchia una società di stampo maschilista
con ruoli ben definiti e distinti tra uomo e donna; il maschio che
fa da padrone e la donna a casa che aspetta il marito, immersa nelle
faccende domestiche. In seguito, con l’evoluzione dei costumi, anche
i contenuti della poesia partenopea cambiano.
Sarebbe
paradossale oggi sovrapporre ai vecchi ruoli le nuove immagini di
ragazze in jeans a vita bassa, viso bucato da piercing, ipod con
auricolare. Ve l’immaginate così attillata, affacciata alla
finestra, che attende la serenata dal suo spasimante?
«Un
fenomeno d’arte così fervido
- commenta De Mura - come quello della poesia napoletana avrebbe
meritato, in altri paesi, un rigoglio di saggi e di investigazioni,
un amoroso fervore critico ed illustrativo. Invece la nostra poesia
è ancora da fare, di molti poeti si conosce pochissimo, scarseggiano
i testi a stampa, mancano le edizioni critiche. Per taluno difettano
anche le più elementari indagini, diciamo, di cronaca: si è insicuri
sulle date della vita, ancor più su quelle delle opere, anche se, a
quel che pare, tutto quanto riguardi Napoli è, in questi termini
oggetto di attenzione».
Cambiano i costumi, cambia la poesia
Nel
rivolgere questo nostro breve sguardo sulla poesia a Napoli negli
anni che vanno da Matilde Serao all’attualissimo Roberto Saviano si
è pensato di individuare delle tematiche come fili conduttori della
poesia a Napoli nel periodo che va dal diciannovesimo al ventunesimo
secolo. Le poesie che ci sono parse più interessanti e che
proponiamo all’attenzione sono quelle legate ai temi del lavoro, tra
cui si segnala Fravecature di Raffaele Viviani in cui si
affronta il tema della morte bianca e quello della solidarietà
sociale. Per quest’ultimo si affronta il problema della dispersione
scolastica con Guaglione di Raffaele Viviani, il problema
delle diverse abilità con ’E cecate e Caravaggio, di
Salvatore Di Giacomo e ’O surdo e ’a cecata di Luciano Somma.
Attualissima è la tematica dell’integrazione riguardante sia gli
immigrati con Faccella nera, sia coloro che vivono ai margini
della società con Barboni entrambe del contemporaneo Luciano
Somma. Merita un cenno anche il tema della malavita con So’
bammenella ’e copp’ e quartiere di Viviani che descrive
in modo alquanto realistico la vita di una donna di strada
napoletana pronta a tutto pur di difendere il suo uomo che oltre a
sfruttarla ogni sera “l’accide ’e mazzate”. Questo tema è
presente anche con in altre poesie di Salvatore Di Giacomo, E. A.
Mario, Libero Bovio e Luciano Somma. A Napoli, le poesie dei grandi
dell’Ottocento e della prima metà del Novecento sono talvolta
diventate anche canzoni. Per questo motivo è stato quasi necessario
occuparci, in questa sede, anche della canzone napoletana.
Negli
ultimi decenni del diciannovesimo secolo la canzone napoletana vive
la sua epoca d’oro. In tutti i luoghi della città, dalle osterie
popolari ai ritrovi più mondani, dai bassi alle nobili dimore, si
cantano le stesse canzoni, che diventano così patrimonio di tutte le
classi sociali. Spesso i versi vengono musicati. Fino a questo
momento la canzone napoletana non era assurta a dignità artistica,
finora si trattava solo di canti nei quartieri popolari e villanelle
colte nelle case aristocratiche, ora nasce la canzone napoletana
nazionale e internazionale apprezzata anche all’estero.
Nel
presentare i poeti inseriti in questo nostro lavoro oltre a dare un
cenno biografico, si è scelto di riportare i giudizi che gli autori
hanno espresso su loro stessi, al fine di essere il più possibile
fedeli al messaggio di questi grandi della poesia napoletana.
Bibliografia
-
E. De
Mura , Poeti napoletani dal seicento ad oggi, Marotta, 1989
-
La
poesia a Napoli 1940-1987,
a cura di Matteo D’Ambrosio ,1992
-
A.
Tilgher, La poesia dialettale napoletana 1880-1930, Roma,
1930
-
http://www.interviu.it/canzone/canzone2.htm
|
Salvatore Di Giacomo
L’autore
«Fin dal
primo anno di vita di Salvatore di Giacomo la città di Napoli
stava vivendo una nuova fioritura, ricca com’era di giardini, fiori,
e gli incantevoli panorami che tutti conosciamo. La città di Napoli
era popolosa più di ogni altra del regno. Il contesto è
indispensabile per presentare la vita di Salvatore Di Giacomo che fu
il poeta napoletano per eccellenza e le cui poesie, come tutti sanno
sono state anche canzoni.
Nasce a
Napoli il 13 marzo 1860 da Francesco Saverio, medico pediatra e da
Patrizia Buongiorno, figlia di un insegnante di musica del
Conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella. Studia al liceo
Vittorio Emanuele. Dopo gli studi classici si iscrive alla facoltà
di Medicina dell’università di Napoli , ma un episodio
raccapricciante lo indusse, dopo tre anni, ad abbandonare
l'università: una mattina, un bidello soprannominato "Setaccio",
cadendo dalle scale gli versò, quasi addosso, una bacinella ricolma
di resti umani che erano serviti agli studenti per esercitarsi...
Salvatore sgomento si rese conto all'istante che quella intrapresa
non era la sua strada ed abbandonò gli studi.
Già nel
1879 a soli 19 anni pubblica sul Corriere del Mattino,
diretto da Martino Cafiero, alcune novelle di tono autobiografico e
collabora alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio
Bersezio. Negli anni successivi 1881 e 1882 frequenta gli ambienti
artistici e letterari e collabora con numerose riviste come Il
fantasio, Pro patria, La Gazzetta, Il Pungolo.
Pubblica
nel 1883 le novelle Minuetto settecenesco che viene notato
dalla Serao.
A questo
punto la sua produzione letteraria diviene serrata e non c’è anno
che non pubblichi novelle, bozzetti, sonetti, commedie drammi poesie
e quant’altro. In seguito passò al giornalismo militante ed al
Corriere di Napoli di Eduardo Scarfoglio e
Matilde Serao e cominciò il suo
tirocinio di cronista. Dopo un breve periodo però, accettò di
dirigere la Biblioteca Lucchesi Palli sezione della Biblioteca
Nazionale dove tuttora si possono ritrovare le annotazioni fatte con
la sua scrittura minuta ma chiarissima. Nel frattempo la sua fama
era diventata grande dopo lo strepitoso successo di Assunta Spina
nel 1908. Conobbe in biblioteca Elisa Avigliano, una ragazza appena
laureata, della quale si innamorò. Il poeta pur avendo raggiunto il
46° anno di età decise di sposarla. Nel 1924 Mussolini nominò Di
Giacomo senatore insieme con Ugo Ojetti. Il Senato però bocciò la
nomina, che era stata molto caldeggiata da Benedetto Croce, perché
si disse: "Piedigrotta non può entrare in Senato" ed Ugo Ojetti ebbe
a scrivere dopo aver rifiutato: "arrossirei al pensiero di entrare
per censo al Senato dove, solo perché povero, non ha potuto entrare
un grande poeta". Ebbe una piccola rivincita don Salvatore quando,
nel 1929, fu nominato Accademico d'Italia, ma non poté mai
partecipare alle sedute anche perché non possedeva la divisa. Aveva
soltanto un vecchio cappotto che cominciava a diventare
impresentabile: "Era di un così bel colore marrone, ma ora sta
diventando Rousseau; bisogna che lo faccia Voltaire"...scherzava Di
Giacomo.
Di
Giacomo ha scritto di tutto e moltissime sono le poesie assurte a
dignità artistica divenute canzoni tra le migliori della tradizione
napoletana e immortali tanto che ancora riescono ad emozionarci,
nonostante l’evoluzione, a volte troppo rapida, della nostra
società. Morì la notte del 4 aprile 1934».
Poesie scelte
Molteplici i temi da lui affrontati nella sua produzione poetica,
non va trascurata anche la sua nota sensibile ma tra gli altri
abbiamo scelto per questa nostra breve disamina quelli della
solidarietà sociale e della malavita.
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’E cecate ’e caravaggio
Dimme na cosa. T’allicuorde tu
’e quacche faccia ca p’ ’o munno e’ vista,
mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?
- Si, m’allicordo; e tu? - No frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì cielo
pe mme murtificà, vulette Dio…
- Lassa sta’ Dio!...Quant’io ll’aggio priato,
frato, nun t’ ’o può manco mmaggenà,
e Dio m’ha fatto addeventà cecato.
- È overo ca fa luce pe la via
’o sole?…E comm’è ’o sole? - ’O sole è d’oro,
comme ’e capille ’e Sarrafina mia…
- Sarrafina? …E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà? – Sì…quacche vota…
- E comm’è? Bella assaie? – Sì…bella assaie…
Chillo ch’era cecato ’a che nascette
suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,
e ’a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.
Dicette ’o primmo, doppo a nu mumente:
- Nun te lagnà, ca ’e mammema carnale
io saccio ’a voce… ’a voce solamente…
E se stettero zitte. E attorno a ’lloro
addurava ’o ciardino, e ncielo ’o sole
luceva, ’o sole bello, ’o sole d’oro…
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Si
ripropone il tema della solidarietà sociale verso coloro che sono
stati privati dell’uso della vista
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie del 1907, narra
l’incontro e il dialogo tra due non vedenti di cui uno nato cieco e
l’altro divenutovi. Quello nato cieco consola in qualche modo
l’altro che dice: di mia madre conosco solo la voce, l’altro cerca
di spiegargli il mondo com’è fatto con il ricordo del colore del
sole e dei capelli dell’amata spiegando all’altro il sole con l’oro
della chioma.
E intanto
tutto continua a scorrere come prima, il sole d’oro brilla, il
giardino è profumato…
La
poesia, dedicata a chi non ha più la “luce” e a chi non l’ha mai
avuta, propone il tema della solidarietà nei confronti delle persone
con diversa abilità. Tenerissimo il confrontarsi di entrambi i
ciechi che, pur nella sfortuna, si consolano a vicenda. [http://www.roman-zieri.com/archives/001459.php]
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’O ’nteresse
Quante
so’? . So’ se’ solde… Embè?… Scusate:
ll’ati
quatto v’’e ddongo viernarì…
Sette,
allora. – Comm’è? M’aumentate
tre solde
pe tre ghiuorne, se’ Marì?!
- Te cummiene? – Ma comme?
Ve
pigliate
chisto
nteresse ? – Oi ne’, tu ’e buo’ accussì?
M’è ditto
niente quanno t’aggio date?…
È troppo
giusto… che ve pozzo dì?…
Penzate
ca maritemo sta a spasso,
ca nun me
porta niente pe magnà,
ca sta
facendo ll’arte ’e Micalasso!…
- Bella
mia tu che buò ? Che t’aggia fa’?
È giusto,
è giusto…nun ve mporta niente…
Vevitevillo ’o sango de la gente! …
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La
poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose, ripubblicata
nel 1990, affronta il tema del prestito ad usura. La poesia sciorina
un dialogo tra la debitrice e l’usuraia, dove la debitrice cerca,
invano, di diminuire il debito adducendo il motivo che il marito è
disoccupato e quindi non può restituire il denaro con un interesse
tanto forte. Ovviamente l’usuraia, indurita dall’avidità di danaro,
non cede alle richieste della povera donna in difficoltà.
Efficacissima l’ironia “E’ giusto, è giusto non ve ’mporta niente” e
sferzante la chiusa “Bevetelo il sangue della gente!”.
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Furtunata
E ce
steva ’na guagliona
cu ’na
faccia ’e ’na Madonna,
cu ’na
capa ionna ionna ,
c’’a
salute assai suttile,
e cu
n’anema gentile.
Puverella! A dudece anne
Primma ’a
mamma lle murette
Sola sola
rummanette
Cu nu
pate scimunito
p’’a
miseria e ll’appetito.
- Moro –
dicette ’a mamma - e nun me lagno:
ma chello ca mme coce è ca rummane
figliema
abbandonata!…
(Ah
povera povera Furtunata!)
E teneva sidece anne
Quanno ’o
pate lle murette:
i’ chessà
che lle venette
ca
passaie dopp’’o spitale,
a ngrassà
Puggeriale.
Se
vendette n’anelluccio
Pe doie
cere e na curona,
chella
povera guagliona…
Lle
spiaino: - E mo’ addò ’e ppuorte? –
Rispunnette : - Ogge so’ ’e muorte…
E ’a llà
ncoppa turnaie cu ll’uocchie russe…
E nu
giuvanuttiello ’e mala vita
piglie e
ncuntraie p’’a strata…
(Ah
povera Furtunata!)
E ched’è
sta vita nosta!
Quant’è
amara e quant’è triste!
Furtunata
!… ah che faciste!…
Sta
creatura ca t’è nata
Mo’ addò
a lasse? A Nunziata…
(Penzatece a stu nomme ca teneva,
e a sta
barbara sciorta. A sidece anne
è morta e
s’è atterrata…)
(Ah
povera Furtunata!)
|
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Anche
questa poesia è inserita nella raccolta Poesie e Prose
e affronta il tema della povertà che nella tradizione napoletana è
portatrice anche di altri mali come la delinquenza. La mamma muore
quando lei, Fortunata, ha solo dodici anni; il padre viene a mancare
alcuni anni dopo ed è costretta a vivere in povertà e a vendersi
qualche oggettino d’oro per portare dei fiori al cimitero nel giorno
in cui si commemorano i defunti.
Priva di
una guida, incontra un giovane di malavita col quale concepisce una
bimba. La povera creatura viene portata all’Annunziata non
potendo mantenerla. Giovanissima, a soli 16 anni, muore.
Triste il
destino della povera Furtunata e meno male che il suo nome è
Fortunata!
|
Sfregio
Ha
tagliata la faccia a Peppenella
Gennareniello de la Sanità:
che
rasulata! Mo’ la puverella,
mo’
proprio è stata a farse mmedecà.
Po’ ll’hanno
misa int’a ’na carruzzella,
è ghiuta
a ll’ispezzione a dichiarà;
e ’o
delicato don Ciccio Pacella,
ll’ha
ditto: - Iammo! Dì la verità.
Ch’è
stato, nu rasulo, nu curtiello?
Giura
primma , llà sta nu crocefisso
(e s’ha tuccato mpont’a lu cappiello).
Dì, nun
t’ammenacciava spisso spisso?
- Chi? –
ha rispuost’essa. – chi? Gennareniello!
- No! …
Ve giuro signò! Nun è stat’isso!…
|
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La
poesia, inserita nella raccolta Poesie, descrive un episodio
di violenza su una donna. Infatti Gennareniello della Sanità ha
inferto un colpo di rasoio sul viso di Peppenella che essendo andata
a medicarsi in ospedale viene interrogata dall’ispettore. Costui,
dopo averla fatta giurare, le chiede con insistenza: “Chi è stato?”
E lei risponde: “Ve lo giuro non è stato lui.” Il meccanismo
dell’ottenere il silenzio attraverso la violenza è una delle
peculiarità della malavita napoletana. Ma è altrettanto vero che
esiste un altro meccanismo per cui la violenza per alcune donne è un
modo in cui sentono di avere “l’attenzione”, come se la donna
dicesse: “mi picchia quindi mi cerca, mi desidera, ecc…”
Ovviamente si sottolinea che si tratta di manifestazioni quanto meno
condannabili ed esecrabili.
|
Ll’acciso
Si ve
conviene nu dichiaramento,
tant’onore pe mme. – L’onore è moi…
Ccà
stesso ?? – Pe’ dimane. Appuntamento
A
mezzanotte. – resta fatto. – Addio –
Quatto
parole. E doppo mezzanotte,
’a sera
appresso, Carmine De Riso,
pe’ mmano
’e Ciro Assante e cu tre botte,
nterra,
’int’’o vico, rummanette acciso.
Pe’
mbriaco ’o pigliano albante iuorno:
lle s’accustaie
’na femmina vicino,
e se
mettette a ffa’: - Te miette scuorno?!…
Porco! A
primma matina vive vino!…
Vino? Era
sanco. Lle parette vino,
nterra,
’na macchia e sancofriddo e mollo…
-Sciù
nnanz’’a chiesia ’e santo severino!…
E lle
menaie nu cato d’acqua ncuollo…
|
|
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose
affronta il tema della sfida a duello all’ultimo sangue tra due
persone. Il morto viene trovato di primo mattino da una donna alla
quale sembra vino la macchia di sangue che scorre sulla strada e
pensa si tratti di un ubriaco. La tematica della malavita è una
piaga purtroppo sempre attuale nella nostra società. Incisiva la
chiusa: “E gli buttò un secchio d’acqua addosso”, come se volesse
lavare il delitto con un po’ d’acqua.
|
’O guaio
-
Arresta! Arresta!… ferma!… - Uh mamma mia!
Che
sarrà?… Vuie sentite?… Che sarrà?…
Scetateve!… - Faranno …pe’…pazzià…
-Arresta!
Arresta! - Vuie sentite, oi ma?
-Secutanno a quaccuno mmiez’ ’a via…
Iamm’a
vedè… - No… che n’avimma fa?…
Bene mio!
Sta saglienno ’a pulezzia!
Giesù chi
è stato?! … Oi ma’…Ma’…Ascite cca’
- Ch’è
stato? – Siete voi Giuseppa Aiello?
-
Sissignore sign’… - ci avete un figlio?
- Nu
figlio… sissignore… Peppiniello…
- Ha
avuto quattro colpi di cortello…
Madonna!…
- E ’a chi?… - Da un certo Ciro Giglio,
- Figlio
mio!... - Frate mio!… - Figlio mio bello!
|
|
La
poesia, tratta da Poesie e Prose, descrive un’aggressione a
colpi di coltello nei confronti del figlio della signora Giuseppa
Aiello. Efficace la disperazione della madre e la reazione immediata
del popolo che pensa si tratti di uno scherzo. Si evidenzia il
concetto della solidarietà delle persone con la madre in
contrapposizione all’atteggiamento della malavita che, incurante di
chi potrebbe vedere, agisce in pieno giorno in strada e priva, senza
troppo pensare, una donna di suo figlio.
L’autore
«Figlio
di un filosofo con ideologie repubblicane (da qui il suo nome) e di
una brava pianista, Libero Bovio nacque l'8 giugno 1883 a
Napoli. Anche se frequentava i corsi universitari di Medicina non
arrivò mai alla laurea perché appassionato di teatro in lingua.
Infatti la sua prima realizzazione risale al 1902, appena
diciannovenne. Morto il padre, fu esortato a trovarsi un impiego che
gli consentisse il sostentamento. Trovò lavoro prima in un
quotidiano locale Don marzio poi al Museo Nazionale di Napoli
fino a diventare direttore dell'Ufficio Esportazioni: attività che
gli daranno l’opportunità di scrivere molto. Gode di una popolarità
strepitosa e gli aneddoti raccontano delle scene di vero e proprio
entusiasmo al suo passaggio per le strade della città. Con la
sigaretta sempre tra le labbra diventa ben presto uno dei più grandi
personaggi della Napoli dell’inizio del secolo scorso. Amore, gioia
e dolore si alternano continuamente nella sua produzione e nella sua
vita. Sempre pronto alle battute, in possesso di una grande
comunicabilità, rappresenta a lungo uno stimolante interlocutore nei
salotti di una Napoli alla ricerca della sua identità. Grandissima
la varietà dei temi, trattati sempre con immediatezza popolaresca,
anche nelle poesie non destinate alla musica. Perché, se è vero che
viene ricordato come autore di versi intramontabili in vernacolo, è
anche vero che evidenziò condizioni e temi comuni ai grandi poeti
del decadentismo italiano ed europeo. La sua poesia Vespero,
ad esempio, tratta il tema della solitudine, tema che si ritrova,
com’è noto, nei grandi poeti del nostro Novecento: si notano la
stessa contemplazione stupita del paesaggio, la fugacità della vita
e alla ricerca fanciullesca del linguaggio della natura. Fu
giornalista, autore di teatro e novelliere. Della sua produzione
ricordiamo titoli famosissimi: Passione, Silenzio
cantatore, Chiove, Guapparia, Signorinella.
I musicisti furono i maestri Gaetano Lama, Nicola Valente, E.
Nardella, E. de Curtis, Rodolfo Falvo, ed altri. Nella canzone
napoletana Bovio inventò anche il genere drammatico.
Si
racconta che un giorno Libero Bovio, nella sede della casa musicale
La canzonetta di Francesco Feola, seduto alla scrivania,
leggeva a Mario Spera, direttore della rivista omonima, una sua
nuova lirica. Entra un gerarchetto fascista, inviato dal federale
per informare il poeta che era arrivato Edmondo Rossoni, un alto
esponente del partito, il quale desiderava vederlo; avanza fino alla
scrivania e pronunzia con molto sussiego il suo nome preceduto dal
grado. Bovio, che vuole terminare la lettura della poesia, gli dice:
“Pigliatevi una sedia”. Il gerarchetto, con tono offeso,
risponde: “Non avete capito chi sono?” E ripete il proprio nome e
grado. Bovio, senza alzare la testa: "Ah!... Allora pigliatevi ddoi
segge!". Grazie a compagnie di prosa farà del resto conoscere a
tutta l’Italia la sua personale inesauribile vena poetica così come
quella dell'intera città. Poi, costretto da una malattia a
rinchiudersi in casa, come definitivo poetico atto d'amore dedica
alla sua compagna il suo ultimo canto: Addio Maria. A
raccogliere l'eredità artistica è il figlio Aldo, giornalista de
Il Mattino ed autore oltre che di canzoni e sceneggiature di
colonne sonore. Organizzatore e regista da molti anni rappresenta il
polo di numerose manifestazioni artistiche della città. Altre sue
composizioni sono: Carulì Carulì; ’A canzone ’e Napule; Nun volio
fa niente; Sona chitarra; Tarantella luciana; Carufanella; Guapparia;
Nonna nonna; Tu ca nun chiagne; Fron’ ’e cerase; Regginella; Ncoppa
’a ll’onna; Brinneso; Silenzio cantatore; Chiove; Lacreme napulitane;
’O paese d’ 'o sole; Tarantella scugnizza; Zappatore; Guappo song’io;
Passione.
Così dice
di lui Ettore De Mura: «Di grande ingegno e di solida cultura, di
squisita sensibilità, scrisse poesie e canzoni originalissime
ch’ebbero vasta risonanza. Fu il pioniere della “canzone
drammatica”, con la quale ottenne successi indimenticabili. […]. Poeta
vigoroso in ogni suo comportamento seppe inquadrare con sintetici ma
profondi tocchi, un dramma, uno squarcio di vita, tormentata ed
amara, rievocativa e nostalgica. Vita trasfusa in lirica, l’arte
sua. Questo il segreto dei suoi successi innumerevoli».
Libero
Bovio morì nella sua casa di via Duomo a Napoli il 26 maggio 1942.
Poesie scelte
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Lacreme napulitane
Mia cara
madre,
sta pe’
trasí Natale,
e a stá
luntano cchiù mme sape amaro....
Comme
vurría allummá duje o tre biangale...
comme vurría sentí nu zampugnaro!...
A ’e
ninne mieje facitele ’o presebbio
e a
tavula mettite ’o piatto mio...
facite,
quann’è ’a sera d’’a Vigilia,
comme si
’mmiez ’a vuje stesse pur’io...
E ’nce ne costa lacreme st’America
a nuje
Napulitane!...
Pe’ nuje
ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule,
comm'è
amaro stu ppane!
Mia cara
madre,
che so’,
che so’ ’e denare?
Pe’ chi
se chiagne ’a Patria, nun so’ niente!
Mo tengo
quacche dollaro, e mme pare
ca nun
so’ stato maje tanto pezzente!
Mme sonno
tutt’ ’e nnotte ’a casa mia
e d’ ’e
ccriature meje ne sento ’a voce...
ma a vuje
ve sonno comm’a na "Maria"...
cu ’e
spade ’mpietto, ’nnanz’ ’o figlio ’ncroce!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie
napulitane…
Pe’ nuie
ca nce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule
Comm’ è
amaro stu ppane!
Mm’avite scritto
ch’Assuntulella chiamma
chi ll’ha
lassata e sta luntana ancora...
Che
v’aggia dí? Si ’e figlie vònno ’a mamma,
facítela
turná chella “signora”.
Io no, nun torno...mme ne resto fore
e resto a
faticá pe’ tuttuquante.
I’,
ch’aggio perzo patria, casa e onore,
i’ so’
carne ’e maciello: So’ emigrante!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie
napulitane…
Pe’ nuie
ca nce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule
Comm’è
amaro stu ppane!
|
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Questi
versi struggenti, tratti dalla raccolta Poesie e canzoni e
musicati in una famosissima canzone, ci riportano ai primi decenni
del Novecento quando numerose erano le navi che partivano piene di
napoletani che emigravano per l’America.
Vi è
descritto il quadro di una famiglia divisa sia dalla necessità di
emigrare del capofamiglia sia da incomprensioni che hanno portato
alle separazione dei coniugi. Ma umano il risvolto sentimentale
nelle parole «Facítela turná chella "signora"». Nonostante abbia
sbagliato, la moglie è ammessa a tornare in famiglia perchè la
figlioletta la cerca e la vuol vedere.
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Senza sole
Dint’a nu
vecariello senza sole
J’
sentivo ’e cantà matina e ssera;
erano
belle musica e parole;
e ’a voce
era cchiù fresca ’e Primavera.
Penzaie:
“Forse è ’a cchiù bella ’e sti figliole
Chella
che canta spensierata e allera,
e tene
ll’uocchie ca so’ doie viole
ca danno
luce a ’na faccela e cèra.”
E le
mannaie ’na lettera d’ammore
- ’na
lettera ’a cchiù ardente e ’a cchiù
sincera
a ’stu
bello canario cantatore.
Ma avette
pe’ risposta sta mmasciata;
“Chella
che canta d’ ’a matina a’ sera
e tene
‘a voce d’oro, è ’na cecata.”
|
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Questi
versi, tratti dalla raccolta Poesie e canzoni del 1993
toccano il tema delle solidarietà sociale in cui un giovane si
innamora di una bellissima voce e pensa che altrettanto bella è la
ragazza che canta e allora decide di scriverle una lettera d’amore .
Riceve, però, una risposta che lo gela: “Quella che canta dalla
mattina alla sera è una cieca”.
Incisiva
la chiusa che, come una lama affilata, trafigge il cuore del giovane
innamorato.
Bibliografia
-
Ettore de Mura, Enciclopedia della Canzone Napoletana
-
Ettore De Mura, Poeti napoletani dal seicento ad oggi,
1989
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Libero Bovio, Poesie e canzoni, Napoli 1993
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L’autore
«Raffaele
Viviani nacque a Castellammare di Stabia il 10 gennaio del 1888
da famiglia povera, il padre cappellaio e poi vestiarista teatrale e
la madre casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il suo esordio in
un teatrino di marionette sito in via Foria, di proprietà di Aniello
Scarpati. A soli dodici anni Raffaele rimasto orfano del padre
rimase in un profondo stato d'indigenza e col gravoso compito di
badare alla madre ed alla sorella Luisella. Gli anni della sua
gioventù, semmai ne ebbe una, li spese a girare in lungo ed in largo
l'Italia intera allo scopo di ricevere una scrittura, affermarsi e
quindi provvedere alla sua famiglia. A 20 anni compiuti, grazie alla
sua forza di volontà, alle sue doti artistiche, ed al suo spirito di
sacrificio, il nostro Papiluccio era già conosciuto ed apprezzato
nei teatri di tutta la penisola, la sua bravura e la sua fama lo
portarono ben presto fuori dai patri lidi. Nel 1911 lo troviamo a
Budapest, nel 1915 a Parigi, nel 1925 a Tripoli e poi ancora in
Brasile, Uruguay e Argentina. Papiluccio portò alla ribalta di tutti
i teatri quei tipi da lui resi celebri, come: ’O scugnizzo, ’O
scupatore, ’O cucchiere, ’O sunatore ’e pianino, ’O tramviere, ’O
mariunciello, Il mendicante e moltissimi altri ancora. Raffaele
Viviani é stato l'attore più importante della prima metà del 1900,
nelle sue bellissime opere ha raccontato una Napoli viva, quella
Napoli dei vicoli, dei mille mestieri, con i suoi tanti nei:
prostitute, guappi, lenoni, ladri, ma anche commercianti,
lavoratori, operai, contadini. Viviani con i suoi toni, le sue
armonie ed i suoi colori, ha costituito per lungo tempo l'unica nuje
stà». (Pausa) A miseria nun te fa capì niente cchiù ! S'addiventa
n'incosciente.
Alternativa al teatro pirandelliano, creando egli stesso una nuova
forma di fare teatro, una nuova forma che purtroppo (e lo diciamo a
malincuore) é rimasta lì, ferma, senza che nessuno, che ne fosse
degno, abbia ripreso il suo discorso. La sua arte era immensa, la
sua maschera era stupenda, Viviani fu anche poeta ed autore di
bellissime canzoni. Egli divenne uno dei maggiori esponenti della
drammaturgia napoletana, e ci fa piacere ricordare, tra le sue più
belle opere: ’O vico, Tuledo ’e notte, Lo sposalizio, Circo
equestre Squeglia, I pescatori e Morte di Carnevale. Si spense
il 22 marzo del 1950 e, prima di morire, dopo esser stato zitto per
più di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo e
con un tenue filo di voce: “Arapite, faciteme vedé Papule”». [http://poetinapoletani.fasturl.it/]
Ed ora la
parola a Raffaele Viviani:
«1888...
Nacqui a Castellammare di Stabia, la notte del 10 all'una e venti,
figlio di un cuor d'oro di donna e di un padre cappellaio, più tardi
vestiarista teatrale.
Mio
padre, Raffaele, anche lui, era l’impresario teatrale dell’Arena
Margherita, dove recitavano i poveri “Pulcinelli” del tempo,
specialmente in estate... le cose andarono a male e proprio
all’indomani della mia nascita, in pieno battesimo, un sequestro
tributario costrinse mio padre a venirsene a Napoli... sua città
natale... S’era creato un vasto corredo di attrezzi teatrali e di
costumi e cominciò a fornire i teatrini dei quartieri popolari... Lo
accompagnavo... e stavo là a godermi lo spettacolo. M’interessava la
recita dell’Opera dei Pupi del teatrino della Porta di San
Gennaro... Cantava tra i “numeri” che completavano lo spettacolo
marionettistico un certo Gennaro Trengi, tenore e comico... Una sera
si ammalò...Fui vestito con l’abito di un pupo che mia madre
raffazzonò alla meglio... Avevo quattro anni e mezzo e cantai... con
voce tremula, esitante...Dopo qualche mese... ebbi anch’io la mia
paga... ed anche tanti bei vestitini a colori, come li usava il
Trengi... Ebbi ben presto anche una duettista, Vincenzina Di Capua,
una bellissima adolescente... ed io la corteggiavo, sia nelle vesti
di monaco, nel duetto “Fra Bisaccia” che in quello di un ufficiale
del 700 - il duetto Un bacio rendimi... dall’opera comica
Le educande di Sorrento dell’Usiglio - e, a stento, le arrivavo
alla vita! Vincenzina, per darmi un bacio, in iscena, doveva piegare
il busto in avanti...Mio padre voleva che non sbagliassi mai, che
non mutassi una virgola di quanto mi aveva pazientemente insegnato.
Una mossa non fatta a tempo, appena rientravo in quinta... giù una
frustata ed io piangevo; e lui mi vestiva e mi asciugava gli occhi
buttandomi fuori per l’altra canzone». [Raffaele
Viviani, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988]
Poesie scelte
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Fravacature
– 1930
All’acqua e a ’o sole fràveca
cu na
cucchiara ’mmano,
pe’ ll’
aria ’ncopp’ a n’anneto
fore a nu
quinto piano
Nu pede
miso fauzo,
nu
movimento stuorto,
e fa nu
volo ’e l’angelo:
primma
c’arriva, è muorto
Nu
strillo; e po’ n’accorrere
gente e
fravecature.
-
Risciata ancora… È Ruoppolo!
Tene
ddoie criature!
L’ aizano
e s’ ’o portano
Cu na
carretta a mano.
Se move
ancora ll’ anneto
Fore d’
’o quinto piano.
E passa
stu sparpetuo
cchiù
d’uno corre appriesso;
e n’ato,
’ncopp’a n’anneto,
canta e
fatica ’o stesso.
‘Nterra,
na pala ’e cavece
cummoglia
a macchia ’e sango,
’e
sghizze se scereano
cu ’e
scarpe sporche ’e fango.
Quanno ’o
spitale arrivano,
’a folla
è trattenuta,
e chi
sape ’a disgrazia
racconta
comm’è gghiuta.
E
attuorno, tutt’ ’o popolo:
-Madonna!-Avite visto?
-D’ ’o
quinto piano -’E Virgine!
-E comme,
Giesucristo…?!
E po’
accumpare pallido
chillo c’
ha accumpagnato:
e, primma
ca ce ’o spiano,
fa segno
ca è spirato.
Cu ’o
friddo dint’a ll’anema ’a folla s’alluntana
’e lume
gia s’appicciano
’a via se
fa stramano.
E ’a
casa, po’, ’e mannibbele,
muorte,
poveri figlie,
mentre
magnano, a tavola,
ce ’o
diceno a ’e famiglie.
’E mamme
’e figlie abbracciano,
nu sposo
abbraccia ’a sposa …
E na
mugliera trepida,
aspetta,
e nn’ arreposa.
S’appenne ’a copp’ ’a ll’asteco
sente ’o
rilorgio : ’e nnove!
Se dice
nu rusario…
e aspetta
nun se move.
L’acqua
p’ ’o troppo vòllere
s’è
strutta int’ ’a tiena,
’o ffuoco
è fatto cènnere
Se sente
na campana.
E ’e
ppiccerelle chiagnano
pecchè
vonno magnà’ :
-Mamma,
mettiamo ’a tavula!
-Si nun
vene papà?
‘A porta!
Tuzzuleano:
-Foss’isso? - E va ’arapi’.
-Chi
site? - ’O capo d’opera.
Ruoppolo
abita qui?
- Gnorsì,
quacche disgrazia?
Io veco
tanta gente…
-
Calmateve, vestiteve…
-
Madonna! - È’ cosa ’e niente.
È
sciuliato ’a l’anneto
d’’o
primmo piano. - Uh, Dio!
e sta ’o
spitale? - È logico.
- Uh,
Pascalino mio!
’E ddoie
criature sbarrano
ll’uocchie senza capì;
’a mamma,
disperannose,
nu lamp a
se visti’;
’e
cchiude ’a dinto; e scenneno
pe’ grade
cu ’e cerine.
- Donna
Rache’! – Maritemo
che ssà,
sta ’e Pellerine.
È
sciuliato ’a ll’anneto.
- Si, d’
’o sicondo piano
E via
facendo st’anneto,
ca saglie
chiano chiano.
-
Diciteme, spiegateme.
-
Curaggio. - È muorto?! - È muorto!
D’ ’o
quinto piano. ’All’anneto.
Nu pede
miso stuorto.
P’ ’o
schianto, senza chiagnere,
s’abbatte
e perde ’e senze.
È Dio ca
vo ’na pausa
a tutte
’e sofferenze.
E quanno
a’ casa ’a portano,
trovano
’e ppìccerelle
’nterra,
addurmute. E luceno
’nfaccia
ddoie lagremelle.
[http://web.tiscalinet.it/avrannosuccesso/Fravecature%20Viviani.htmed] |
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Commento
nello stesso link: «Meravigliosa poesia di Raffaele Viviani la mia
preferita sfido chiunque leggendo questo capolavoro di poesia a non
piangere».
Viviani
artista versatile, scrisse numerose poesie dialettali, ispirate a
soggetti reali della vita di quartiere. Grazie alla straordinaria
bellezza del dialetto napoletano, il “genio stabiese”, seppe
enfatizzare con singolare abilità, alcuni aspetti tipici della vita
sociale d'epoca.
Attualissima purtroppo ancora oggi la poesia del 1930 che affronta
il tema delle morti bianche, sempre troppe nel nostro Paese.
La
descrizione dell’incidente occorso a questo muratore, tale
Pasqualino Ruoppolo, assume un tono, man mano che la narrazione va
avanti, sempre più incalzante e serrato. Questo crescendo è presente
anche nella descrizione della moglie che lo aspetta a casa con i
figli, a cui viene in seguito detto che il marito si trovava al
primo piano, poi al secondo e infine al quinto. Struggente
l’immagine dei colleghi di lavoro che raccontano l’episodio alle
mogli che abbracciano i loro sposi. Ancora più commovente quella
dell’andito che ancora si muove dopo la caduta come ad indicare
l’inesorabilità sia del tempo che dell’accaduto.
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’A
canzone d’’a fatica
- 1928
Staje
’mbracato ’ncopp ’a ll'anneto.
- Scenne
’o vi'! na caurara.
- Pronta
’a càvece! Piglia ’a cucchiara! Jammo, ’e pprete!
- E s'accummencia
’a fatica'.
- Saglie
’o vi'! Guagliù, sbrigàmmoce
ca ’a
jurnata se ne va.
Tira
’ncoppa! Guè, spicciàmmoce:
stu
balcone, pe' stasera, se ha da fa'.
’A scala!
’O cato ’e ll'acqua!
Chi va
svelto, nun se stracqua!
Dduie
cuòfene ’e mattune
’ncopp'
’e spalle ’e sti guagliune!
’A
càvece! doie prete!
Votta ’e
mmane! ha perzo ’e ddete!
Cummuoglie sti parete
e ’o
balcone è fatto già.
Fravecammo ’a casa ’o prossimo,
sulo ’a
nosta sta ’mprugetto:
’o
’ngigniere contr'a ll'architetto
pecchè
’appardo nun se sape a chi ’hann' ’a da'.
Leva
mano! Chi se côpera?
’E
mattune? hann' arriva'.
Maie pe'
nuje sta mano d'opera
s'è
pututa, pe' na vota, autilizza'!
E arronza
sti cucchiare,
sti
sciamarre e’'e ccaurare;
si no
perdimmo ’o trammo:
n'ora e
mmeza ’ncopp' ’e ggamme.
E cu ’o
cappiello ’a sgherra
cu ’a
salute nun m'attierre.
Vicino ô
palo ’e fierro
ce ’a
sapimmo dichiara'.
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Ancora
una poesia sul lavoro, ancora muratori, ma un’atmosfera meno grave
della precedente. È il momento corale del lavoro, il momento in cui
si trasmette tutto l’entusiasmo oltre che l’allegria per il lavoro
che dura tutta la giornata fino al rientro a casa: prendiamo questo,
prendiamo quello ecc…Amara la nota che trafigge come una lama:
“Ricostruiscono le case degli altri ma la nostra è solo un progetto
inteso come pensiero ed esiste solo nella nostra mente.”
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’O scupatore
- 1910
“Mannaggia ’a mazza ’e scopa e quanno maie
patemo me
menaje dint’ ’a scupata!
Jette a du na perzona altolocata;
e chillo: “ Vo’ nu posto? Ha da scupa’!”
Mo ca te lagne, parle d’aumento:
te faie nemice, pierde ‘e dignità;
e siente ’e di’: “ Ccà n’ati cincuciento
già stanno pronte pe’ ve rimpiazzà!”
Tutte sti muorte ’e famma
cresceno comm’ ’e microbe:
so’’a summa d’’a miseria
’e tutt’
’a società!
Ngutte? T’abbutte ’e collera.
Sfuoghe? Cu cchi? Cu ll’aria!
’A vocca ’a tiene? E ’nzerrala,
pecchè nun puo’ parla’.
E scerùppate tutt’ ’e pponte ’e pietto,
tutte sti strate, sempe malamente!
E quanno è doppo vene nu sergente
e dice ca si’ muscio a fatica’.
E’ nu brutto mestiere, ’o scupatore!
E i’ v’’o dico cu tutta l’esattezza,
pecchè ce songo nato ’int’’a munnezza;
e tengo competenza e serietà.
Sulo na cosa sta ’int’ ’a classa nosta:
ca nun te truove nu privilegiato.
Nuje simmo tutte uguale, uno cu n’ato,
cu ’a stessa scopa ’mmano pe’ scupa’.
Comme a tutte nuje aute,
forze, ched’è, nun scopano
pure ’ncoppa “San Giacomo”
chille ca stanno llà?
Nuje pulezzammo ’e scale,
’e strate, ’e piazze ’e Napule,
lloro, cu ’a penna, scopano
’e sorde d’’a città.
Siente dint’ ’e discurse : “Scioperate!”
E va buono, d’accordo, sissignore.
Ma che vuo’ sciopera’ si l’assessore
nun ce fa caso si scupammo o no?
Nun è comme a muglierema che, a’ casa,
quann’io ce vaco cu sti bbracce rotte,
è capace ’e me di’ quase ogne notte:
- Ma comme, sulo ccà nun vuo’ scupa’?-
E io po’ che aggi’ a rispondere?
Me ’nquarto, me murtifico,
ma è sempe tutto inutile:
’a vita accussì va.
’E fforze nun me rejeno
’e fa chisti servizie.
Si a’ casa me sacrifico,
servo a ll’umanità.” |
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La
poesia, dolcissima, parla del lavoro dell’operatore ecologico che
tiene pulite le vie di Napoli con la sua scopa. Ha trovato lavoro
grazie all’interessamento di una persona altolocata. Poi non può
lamentarsi o chiedere aumenti perché per uno che lascerebbe molti
altri sarebbero pronti a rimpiazzarlo: purtroppo la disoccupazione è
tanta. Quindi è costretto a sottostare anche a coloro che dicono che
non lavora abbastanza. Non riceve comprensione neanche in famiglia
perché arriva sempre a casa stanco e non riesce ad assecondare i
desideri di sua moglie. Ma una soddisfazione c’è. “Si a casa me
sacrifico servo a ll’umanità” e , proprio oggi, alla luce dei
problemi sorti con l’emergenza rifiuti non si può negare quanto sia
importante e utile alla società il lavoro di chi rende pulito
l’ambiente. Dignitosi e incisivi gli ultimi versi: “servo
all’umanità”. [http://semialvento.-forumfree.net/?t=4781336]
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Guaglione -
1931
Quanno
pazziavo ô strummolo,
ô liscio,
’e ffiurelle,
a
ciaccia, a mazza e pìvezo,
ô juoco
d''e ffurmelle,
stevo
’int''a capa retena
’e figlie
’e bona mamma,
e me
scurdavo ’o ssolito,
ca me
murevo ’e famma.
E comme
ce sfrenàvemo:
sempe
chine ’e sudore!
'E mamme
ce lavaveno
minute e
quarte d'ore!
Giunchee
fatte cu ’a canapa
'ntrezzata, pe’ fa’ a pprete;
sagliute
’ncopp'a ll'asteche,
p’annaria’ cumete;
po’ a
mare ce menàvemo
spisso cu
tutte ’e panne;
e
’ncuollo ce ’asciuttàvemo,
senza
piglià malanne.
’E
gguardie? sempe a sfotterle,
pe’ fa'
secutatune;
ma ’e
vvote ce afferravano
cu
schiaffe e scuzzettune
e à casa
ce purtavano:
Tu, pate,
ll'hè ’a ’mparà!
E manco
’e figlie lloro
sapevano
educà.
A dudece
anne, a tridece,
tanta
piezz’ ’e stucchiune:
ca niente
maie capévamo
pecché
sempe guagliune!
’A scola
ce ’a salavamo
p’
’arteteca e p’ ’a foia:
’o cchiù
'struvito, ’o massimo,
faceva ’a
firma soia.
Po’
gruosse, senza studie,
senz'arte
e senza parte,
fernevano
pe' perderse:
femmene,
vino, carte,
dichiaramente, appicceche;
e sciure
’e giuventù
scurdate
’int'a nu carcere,
senza
puté ascì cchiù.
Pur’io
pazziavo ô strummolo,
ô liscio,
ê ffiurelle,
a
ciaccia, a mazza e pìvezo,
ô juoco
d’’e ffurmelle:
ma, a
dudece anne, a tridece,
cu ’a
famma e cu ’o ccapì,
dicette:
- Nun pò essere:
sta vita
ha da fernì.
Pigliaie
nu sillabario:
Rafele
mio, fa’ tu!
E me
mettette a correre
cu A, E,
I, O, U.
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La poesia
è del 1931. La lunga poesia di Raffaele Viviani sugli scugnizzi di
strada mostra a quanti hanno ormai dimenticato i vecchi giochi che i
ragazzi di strada facevano nelle vie di Napoli, quant’era allegra la
vita nei vicoli. Tuttavia all’età della scuola media il nostro
comincia a capire l’importanza dell’istruzione e che la retta via è
quella dell’abbecedario e di imparare a scrivere e a leggere. [http://www.itgvanvitelli.it/testi/02_guaglione.htm]
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Amicizia
- 1931
Amicizia
è n'acqua chiara,
cristallina, trasparente,
ca
s'appanna dint'a niente
e pirciò
ch'è cosa rara.
Cchiù
'amicizia è bella e cara,
cchiù se
sporca facilmente:
'mmisturata 'a tanta gente
ca te
lassa 'a vocca amara.
Chi 'a
vo' limpida 'e durata,
nn' 'a
sfruttasse pe' prufitto,
s' 'a
tenesse, comm'è nata,
dint' 'o
core. E llà, 'amicizia,
quanno 'o
calculo sta zitto,
nun se
sporca e nun s'avvizi
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La poesia
è un inno all’amicizia paragonata ad un’acqua chiara e cristallina
da non utilizzare con spreco, senza calcolo alcuno. Il poeta la
descrive con una freschezza in un sonetto dove il confronto tra
l’amicizia e l’acqua è efficace e lascia senza fiato tanto è
pertinente. Tenero il pensiero: se la vuoi duratura non la sfruttare
per uno scopo personale, ma tienila così com’è nata nel cuore, solo
così puoi coltivarla come una tenera piantina.
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So’
Bammenella ΄copp’e Quartiere
- 1915
So’
Bammenella ’e copp’e Quartiere
Pe tutta
Napule faccio parlà
Quanno
annascuse p’e vicule ’a sera
’ncopp’
’o pianino me metto a ballà.
Veco a’
’mbulanza, int’a niente m’ ’a squaglio!
E si
m’afferra me torna a lassa’!
‘Ncopp’a’
quistura , si ’e vvote ce saglio,
è pe’
formalità.
Cu ’a
bona maniera
Faccio
cade’ ’o brigadiere,
piglio e
lle vengo ’o mestiere:
dico ca
’o tengo ccà.
‘O zallo
s’ ’o mmocca,
l’avota
’a capa e s’abbocca,
ma nun me
tocca,
me n’ha
da mannà.
Me fanno
ridere certi perzone
Quanno me
diceno: Penza pe tte!
Io faccio
’ammore cu ’o capo guaglione
E spengo
’e llire p’ ’o fa’ cumpare’.
Sto sotto
’o debbeto, chisto è ’o destino :
ma c’è
chi pava pirciò lassa fa’.
Tengo a
nu bello guaglione vicino
Ca me fa
rispettà!
Chi sta
int’ ’o peccato
Ha da
tene’ ’o nnamurato
Ch’appena
dopo assucciato ,
s’ha da
sapè appiccecà’.
E tutte
’e serate,
chillo
m’accide’e mazzate!
Me vo’ nu
bene sfrenato,
ma nun’o
dà a parè!
Mo so’
tre mise ca’o tengo malato,
sacc’io
che spenno pe farlo sanà!
Però ‘o
dottore cu me s’è allummato,
pe senza
niente m’ ’o faccio curà’.
E tene
pure ’o mandato ’e cattura.
Presto
’a’mbulanza s’ ’o vene a piglià.
Io
ll’aggio ditto: sta’ senza paura,
pe’ tte
ce stongo io ccà!
Cu’a
buona maniera
Faccio
cadè ’ ’o brigadiere.
Isso have
’o canzo’ e scappà.
Pe’
mme’o’ssenziale
È quanno
me vasa carnale.
Me fa
scurda’ tutt’ ’o mmale ca me facette fa’!
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La poesia
è stata l’emblema della bellissima canzone che affronta il tema
della prostituzione. La poesia scritta nel 1915 e composta
originariamente sul motivo del valzer brune fu musicata in
seguito dal poeta e inserita nella commedia Tuledo ’e notte.
Descrive
la realtà di una donna costretta a vendere il proprio corpo perché
innamorata dell’uomo che la sfrutta. Tutta la turpitudine del lavoro
che è costretta a fare viene in un lampo dimenticato quando riceve i
suoi baci appassionati. La chiusa, dolcissima, di una donna capace
di amare, ma purtroppo schiava del sentimento più bello.
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‘O
malamente
- 1914
E
sissignore:
m’ha
fatto piacere
ca t’he
truvato a n’atu ’nnammurato!
Ma, pe’
favore,
almeno
‘int’ ’o quartiere,
nun fa’
accapi’ ca m’he licenziato,
si no
t’aggi’ a sfriggia’
pe’
dignità
Pe’ me ‘a
prigione
comme
fosse nu casino
ca ce
vaco a villeggia’.
Senza
raggione,
na
carriera ’e malandrino
nun m’ ’a
pozzo ritarda’
pe’ fa’
’ammore cu tte!
I dint’ a
niente,
me
sceglio a n’ata amante:
tengo ’a
cinquanta femmene ’e riserva.
C’è
l’avvenente,
ce sta
l’affascinante;
e ognuna
’e cheste me facesse ’a serva,
p’ ’o
sfizio ’e se vede’
vicino a
me.
Sciurillo
giallo,
che aggi’
a fa’, s’io songo bello?
Te ne vaje?
Peggio
pe’ tte!
Vutanno
’e spalle,
doppo
n’uocchio a zennariello,
vide ’e
femmene ’e cadè,
comm’ ’e
carte ’a juca’
E pe’
favore
mi devi
ritornare
’o
fazzoletto ’e seta (sta tre llire!).
Certo un
signore
Non se lo
fa ridere.
Ma io me
lo piglio poi per non sentire:
“
Ll’oggette, comme va,
nun s’ ‘e
ffa da’?”
Rutto pe’
rutto:
damme
pure ’e brillante’.
Certo fa
brutto:
ma’ ’e
riale ca te dette
nun t’ ’e
pozzo rummane’.
L’aggi’ a
ancora pava’.
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Sulla
stessa falsariga della precedente anche questa poesia scritta nel
1914 ci parla del “cattivo”. Il personaggio è uno sfruttatore da
strapazzo Inserito in “Toledo di notte”. E’ indicativa di un
tipo di mentalità fortunatamente desueta; secondo quest’ultima il
guappo non poteva essere lasciato da una certa donna perché ci
faceva una brutta figura. Da notare che “’Nnamurato” sta per
protettore e non per innamorato. Si evince dal fatto che ha
cinquanta femmine di riserva, tutte belle e gradevoli di aspetto.
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'O
muorto 'e famma - 1910
Si
appiccio nu cerino ’nnanze ’a panza
se vede
’o ttrasparente ’areto ’e rine.
’A
verità, parlanno cu crianza,
ce tengo
sulo ll'acqua ’int’ ’e stentine.
Ah! Sto
debbole abbastanza.
Me saglie
tutto ’o sanghe ’a parte ’a capa.
Mme veco
’e palummelle ’nnanze a ll'uocchie.
Pare ca
’a terra, ’a sotto, me s’ arape
e già sto
scunucchianno ’int’ ’e ddenocchie.
Comm’è
ppesante ’a vita!
Uh, mamma
mia! aiutateme!
Mo moro!
Gente! Gente!
No, m'è
passato: è niente:
m’ ’o ffa
primm’ ’e magna’.
Diceno:
«Va te sfame ’int’ ’a taverna».
«E ’e
sorde?»
«Faie nu pigno».
«E che me
’mpigno?»
Io, si ’a
miseria fosse na lucerna,
rappresentasse ’a parte d’ ’o lucigno.
Pe’ me
nun c'è risorsa!
Me vengo
quacche oggetto? E che me danno?
Avarri’
’a truva’ quacche amatore.
Ce sta
sta sciassa, già se sta sfrangianno,
ma è
sempe nu capetto d'autore.
Papà
spusaie cu chesta!
E i’
scapestrato, ’a sciupo,
ma è pe’
necessità:
pecchè
n’ata sciammeria
mo nun m’
’a pozzo fa'.
Ce sta
n’amica mia ca mme vo’ bene:
e io mo
m’ ’a sposo e ’a levo ’a miez’ ’a via.
’A voglio
fa’ fà ’a vita d’ ’a signora:
nun
’mporta ca nun mangia a’ tratturia,
nè a’
casa, nè all'otèl.
Ma, si
nun magna, ’a faccio vesti’ bbona:
comme
vest’io. E pare ca, addò jammo,
’a ggente
sott’ ’o colpo se n'addona
ca simmo
’a marca ’e fabbrica d’ ’a famma:
’o
stemma d’ ’a miseria.
Embè, tra
ll’ati guaie,
’a notte
è n’arruvina:
me sonno
a Cuncettina
pe’ mme
ferni’ ’e ’nguaia’.
|
|
La
poesia, inserita in Santa Lucia Nova, descrive simpaticamente
e con ironia la sensazione della fame e quindi della povertà.
Tenerissimo il pensiero, in un frangente così particolare, di
pensare a sposarsi con un’amica che gli vuol bene per farle fare
“una vita da signora”! E complimenti per l’ottimismo!
|
La crisi
-
1931
Dice ‘o
pate: - Ma addò jammo?
Figlie
mieie , ccà appena uscimmo,
limitate, addò accustammo
so’
denare ca spennimmo.
Quatte
passe, a riva’e mare,
si
vulite, v’accuntento;
ma però a
caccia’ denare,
nun c’è
cchiù divertimento.
E si
piglio ‘o tramme e ghiammo,
nun ve
dico: e ghi’ e veni’:
simmo
nove, addò arrivammo?
E pecchè
nun voglio ascì?
Si
trasimmo ‘a nu dulciere,
pe’ na
pasta e nu cafè,
quanno e
doppo , ‘o cammariere,
me
svacanta nu gilè.
Pure ‘e
cineme so’ care:
siimo
nove, ‘e terze poste,
cinche e
trenta e so’ denare:
ve
mangiate ‘e ddote voste.
Nun ce
sta ch’a ghi’ ô triato,
comme
fanno tutta ‘a gente.
Ce
spassammo ed è assodato:
nun
pavammo ‘o riesto ‘e niente!
Songo
amico ‘e nu cugnato
D’’o
‘mpresario d’’o “Russini”,
e conosco
pure ‘o frate
d’’o
custode d’’o “Bellini”.
Addò
jammo, ce razziammo,
E addù
chisto e addù chill’ato:
sempe a
scoppole passammo .
Quacche
vota aggio pavato?
O triato
nun se paga
s’have
gratis ‘o biglietto.
E ‘na
piaga che dilaga:
Potrei
avere ‘nu palchetto?
E cu’o
capo d’’a famiglia
Uno passa
‘a voce a n’ato,
e
ogneduno cerca e piglia
‘n’amicizia a nu triato.
E na
sfera sbafa ô “Nuovo”,
n’ata
sera ô “Mercadante”.
Ce
vulesse ‘nu rirtrovo
Comme ‘o
llargo a piazza Dante.
Vide ‘a
ggente, ma ‘a cascetta
Te fa
pena d’’a guardà.
C’è una
crisi maledetta.
Ccà
nisciuno vo’ pava’.
|
|
La poesia
attualissima ancora oggi , così come può essere attuale in ogni
periodo di crisi, affronta il problema dei pochi soldi e dei molti
bisogni. Praticamente pare che non si possa fare nessuna cosa per
distrarsi tranne passeggiare in riva al mare senza entrare in nessun
bar. Simpatica la trovata di andare a teatro senza pagare il
biglietto ingraziandosi l’impresario o il custode. La poesia induce
a spunti di riflessione sui tempi che corrono e le difficoltà
materiali della vita.
Bibliografia
-
Raffaele Viviani, Poesie, Napoli, Guida editori, 1974
|
L’autore
«E.A.
Mario, il cui vero nome era Giovanni Gaeta, nacque a Napoli il 5
maggio del 1884, al vico Tuttisanti nel popoloso quartiere Vicaria.
Le condizioni precarie della famiglia, il padre era barbiere,
sembravano precludergli gli studi. Nonostante, però, egli lavorasse
come garzone nella bottega del padre, riuscì a conseguire la licenza
elementare, ma, in seguito, per le ristrettezze economiche della
famiglia, abbandonò la frequenza dell’Istituto Nautico. All'età di
quindici anni, Giovannino lasciò la bottega paterna e s'impiegò come
postino in un ufficio postale di piazza Garibaldi. Segretamente,
però, cominciava a strimpellare ed a scrivere versi, nonché a
scrivere articoletti sui giornali, finché un giorno non ebbe un
incontro che gli cambiò letteralmente la vita. Era il 1904, Giovanni
aveva solo vent’anni, nel suo ufficio postale capitò l’illustre
maestro Segré al quale tentò di consegnare una lirica. Il tentativo
andò a vuoto. Ma il giorno dopo gli consegnò i versi di Cara
Mammà; Segré, entusiasta, li pubblicò. Giovanni Gaeta, però, non
volle firmarla col suo nome e scelse lo pseudonimo di E. (iniziale
di Ermes come si firmava al giornale), A. (iniziale di Alessandro,
redattore capo del suo giornale) e Mario (nome di una scrittrice
polacca che dirigeva il giornale Il Ventesimo). Dopo alcune
canzoni musicate da altri, E.A. Mario decise di musicarle in proprio
e nacquero così: Maggio, si' tu, Funtana all'ombra e
Io’na chitarra e ’a luna. Al grande pubblico nazionale, E.A.
Mario, regalò La leggenda del Piave. Giovanni divenne anche
editore di se stesso e ogni anno pubblicava un fascicolo di articoli
intrisi di polemiche, contro tutto e tutti. La morte lo colse il 24
giugno 1961. Nel 1984, primo centenario della sua morte, Mario Gili
ha pubblicato, in una serie limitata di mille esemplari, la raccolta
Funtane e funtanelle, poesie inedite che E.A. Mario affidò a
Ottavio Nicolardi, figlio di Edoardo e suo genero, poco prima di
morire.
Così lo
ricorda l’amico Roberto Esposito:
«E.A.
Mario assunse tale pseudonimo in onore e ricordo del patriota e
scrittore Alberto Mario, uno dei Mille. Dà una lettura differente
Max Vajro che a tal proposito dice che la "A" fu presa dal nome di
Alessandro Sacheri, direttore del giornale II lavoro che era
un suo protettore e che gli permise di collaborare nel giornale.
Mario invece gli venne dallo pseudonimo col quale la poetessa slava
Maria Clarvy firmava le sue apparizioni nello stesso giornale II
lavoro. Era talmente affezionato al suo pseudonimo che la sua
dolce moglie lo chiamò sempre "Mario" a guisa di nome. L'arte di
scrivere versi e la collaborazione col giornale non gli consentivano
un reddito adeguato e pertanto s'impiegò alle Poste, il cui
stipendio lo metteva al sicuro per il quotidiano. Tramite il suo
"ufficio" conobbe il Maestro Segrè: ne nacque una collaborazione che
sfociò nella sua prima canzone Cara Mammà. Tutte le sue
poesie erano frutto di una sorprendente vena melodica e siccome non
aveva mai frequentato un conservatorio, riusciva con l'aiuto del suo
fidatissimo mandolino a creare tante canzoni che sono ancora oggi
fra le più belle e più colte, di cui, a volte ne era anche
l'appassionato esecutore canoro. Mentre lavorava come impiegato
postale, pubblicò numerose raccolte di versi e novelle. Raggiunse la
fama grazie a canzoni come Io, ’na chitarra e ’a luna,
Ladra, Vipera, Santa Lucia Luntana, Le rose
rosse, Balocchi e profumi, Tammunata nera, Duie
paravise, Funtana all'ombra, Canzona appassiunata,
Presentimento, Maggio si’ tu e tante altre ancora.
Legò il suo nome alla canzone patriottica La leggenda del Piave
della quale fu anche primo interprete, immortalando quei tragici
momenti della guerra 1915-1918.
Ho
conosciuto personalmente il Comm. Mario, perché frequentava il
salotto Phonotype dove incontrava i maestri Tagliaferri e
Giannini, i quali si prestavano a trascrivergli le canzoni da lui
fischiate o suonate sul mandolino. In particolare ricordo la nascita
delle canzoni ’O vascio e Tammuriata nera. E.A. Mario
fin dall’infanzia fu grande amico di mio padre Americo Esposito,
fondatore della Phonotype Record, ma fra loro non riuscì mai
a concretizzarsi un rapporto confidenziale e per tutta la vita lui e
mio padre si dettero sempre del "Voi", in segno di stima e rispetto.
Ricordo con tanto affetto quando, in occasione dei funerali per la
morte di mio padre; prese la parola con la mano tenuta sulla bara e
le sue prime parole furono: "Consentimi Amerì in questo triste
momento di darti del tu per dichiararti tutto l'affetto, la stima ed
il rispetto che ci ha uniti fino ad ieri quando moristi lasciando
affranta tua moglie e nove figli…
Aniello
Costagliola, giornalista e poeta d’una rara acutezza, cosi definì
Giovanni Gaeta: "II signor tutto della canzone napoletana, poeta,
musicista, editore e spesso esecutore deliziosissimo delle cose
sue".[…]».
Il poeta
nel ricordo della figlia Bruna Catalano Gaeta:
«Mio
padre E.A. Mario (al secolo Giovanni Gaeta) figlio di genitori
salernitani, fu un personaggio di rilievo, dotato di una
straordinaria intelligenza che si evidenzia per la poliedricità
della sua vasta e profonda cultura letteraria, poetica, storica e
musicale. La sua creatività era immediata, impulsiva, spontanea ed
estremamente sincera, una sincerità senza limiti ed una generosità
senza barriere. Autodidatta (per necessità economiche) fece leva
sulla sua voglia di conoscere, di ricercare, di capire, di indagare,
di appropriarsi insomma di tutto ciò che lo incuriosiva, lo
allettava, lo affascinava. Facendo leva sui ricordi della mia
lontanissima adolescenza, mi accorgevo che quando papà,
caratterialmente allegro, era irretito da uno stimolo creativo,
trasformava l’espressione del suo volto, che acquisiva un aspetto
quasi ascetico, i suoi begli occhi color d’oro, assumevano uno
sguardo più intenso, mentre il suo recondito pensiero poetico o
musicale, o tutt’insieme lo estraniava dagli altri e poi, con
immediatezza d’artista, trasferiva sulla carta le sue emozioni,
realizzandole in poesie, canzoni e quant’altro il suo estro gli
suggeriva. Per conversa, e con la stessa nobiltà d’animo, era innata
in lui una grande umiltà, forse perché tutte quelle potenzialità di
cui era dotato le considerava assolutamente normali, ma da
custodirle con amore, senza inorgoglirsi
come la sua dignità gli suggeriva. Di carattere gioviale e
scherzoso, attirava intorno a sé ammirazione e simpatia, ed era
tipico quel suo sorriso che gl’illuminava il volto. Rotondo ed anche
la sua risata spontanea e coinvolgente. Purtroppo non gli fu
risparmiata l’ingratitudine e peggio ancora, l’invidia, che dilagò
apertamente tra coloro che “navigavano nelle stesse acque”, cioè i
canzonieri, poeti anch’essi affermati o musicisti anch’essi
acclamati, di cui gli uni avevano bisogno degli altri per far
canzoni, mentre papà realizzava tutto da solo, musica e poesia. E
per queste ragioni papà fu costretto a difendersi, affidando alla
sua penna, così scorrevole nell’arte poetica e letteraria, a
diventare una lancia in testa per difendersi da malcelate malelingue
perché era un uomo d’onore e non ammetteva l’insulto. Per questo fu
tacciato “uomo polemico” con un cattivo carattere, espressioni
parecchio azzardate se si pensa che egli non fu mai un opportunista,
non ebbe mai un influente protettore e non fu nemmeno “un figlio di
papà” per poter sfruttare una nascita privilegiata.[…] Umorista
sottile, mordace, umano, ironico, cogliendo, per le sue
contraddizioni che la vita stessa ci pone innanzi, elementi di
comicità e…sottofondi drammatici.». [http://www.librerianeapolis.it/pages/AudioVideo/-EA_Mario.html
-
http://www.prato.linux.it/~lmasetti/antiwarsongs/do_search.php?lang=-it&idartista=584&stesso=1
- Ettore De
Mura, Poeti napoletani dal Seicento ad oggi,1989]
Poesie
scelte
|
Santa
Lucia luntana
Partono
’e bastimente
pe’ terre
assaje luntane...
Cántano a
buordo:
so’
Napulitane!
Cantano
pe’ tramente
’o golfo giá scumpare,
e ’a luna, ’a miez’ ’o mare,
nu poco ’e Napule
lle fa vedé...
Santa Lucia!
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
E sònano...Ma ’e mmane
trèmmano ’ncopp’ ’e ccorde...
Quanta ricorde, ahimmé,
quanta ricorde...
E ’o core nun ’o sane
nemmeno cu ’e ccanzone:
Sentenno voce e suone,
se mette a chiagnere
ca vo’ turná...
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
Santa Lucia, tu tiene
sulo nu poco ’e mare...
ma, cchiù luntana staje,
cchiù bella pare...
È ’o canto d’ ’e Ssirene
ca tesse ancora ’e rrezze!
Core nun vo’ ricchezze:
si è nato ’a Napule,
ce vo’ murí!
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
|
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Questi
versi, scritti nel 1919, diventati poi una delle più famose canzoni
napoletane, trattano il tema dell’emigrazione, di chi è andato via
da Napoli per cercare lavoro, argomento sempre attuale. Nella lirica
intrisa di malinconia due sono le tematiche: l’incertezza del domani
e la nostalgia per Napoli che si fondono e danno vita a momenti di
elevato vigore poetico. [http://www.sorrentoradio.com/prova/testinapoli/DOC422.HTM]
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Nisida
Nìsida è
’n’isola, nu scoglio
Ca tene
ll’acqua tuorno tuorno,
scoglio
ca tene albere e case:
cose addò
stanno ll’abitante:
e ce so’
stato ’e galiote
ca ’e
ccundannaino a sta’ ‘a spartata,
comme si
nuje fòssemo ‘e buone
e lloro,
invece, ‘e malamente…
Ma, si
nun sbaglio, ‘a terra intera
Sta
mmiezo a ll’acqua : e quann’è chesto,
nuje
simmo tutte galiote?
Va trova
‘a chi, ma condannate
Nuje
simmo tuttequante, e ‘a terra
Chest’è:
na Nitida cchiù grossa!
|
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Nisida è
un bel sonetto di E A Mario che fa vedere in una luce diversa i
carcerati di Nisida. Nisida è uno scoglio circondato dal mare come
la terra. A Nisida ci sono detenuti in isolamento ma, tutta la terra
è un’isola come Nisida e allora il poeta chiede: noi siamo tutti
detenuti? Si, siamo tutti detenuti e la terra non è altro che una
Nisida più grande!
Efficace
e prorompente la chiusa rende tutto il sonetto estremamente
gradevole e affronta il tema della solidarietà sociale verso i
carcerati. [E. A.
Mario, Pampuglie, Napoli 1951]
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Tammurriata nera
Je nun
capisco ’e vote che succede
e chello ca se vede nun se crere nun se crere
È nato nu criaturo è nato niro
e a mamma ’o chiamma ggiro sissignore ’o chiamma ggiro
Se vota e
gira se
se gira e vota se
ca tu ’o chiamme ciccio ’o ’ntuono
ca tu ’o chiamme peppe ’o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè
’O
contano e cummare chist’ affare
sti case nun so rare se ne vereno a migliare
E vote basta sulo na uardata
e ’a femmena è remmasta sott’ ’a bbotta ’mpressiunata.
Se na
uardata se
se na ’mpressione se
va truvanne mo’ chi è stato
c’ha cugliuto bbuono ’o tiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’ ’a chè.
E ddice
’o parulano embè parlamme
Pecchè si arraggiunamme chisti fatte ’nce spiegamme
Addò pastena ’o grano ’o grano cresce
riesce o nun riesce sempe è grano chello ch’esce.
Sè dillo
a mamma sè
sè dillo pure a me
conta ’o fatto comm’ è gghiuto
si fuje ciccio ’ntuono o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè.
E
ssignurine ’e Caporichino
fann’ammore cu ’e marrucchine
’e marrucchine se vottano ’e lanze
’e ssignurine cu ’e panze ’nnanze.
Amerivan
express
damme ’o dollaro ca vaco ’e pressa
ca sinnò vene ’a pulis
mett’ ’e mmane arò vò isso.
Ajere
ssera a piazza dante
’a panza mia era vacante
si nunn’era po’ contrabbando
je mo’ ggià stevo ’o campusanto.
E llevate
’a pistuddà
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (2 volte)
Sigarette
babà
caramelle mammà
fischiette bambino
e dduje dollare ’e ssignurine.
A
cuncetta e nanninella
lle piacevano ’e caramelle
mo’ s’appresentano pe’ zetelle
vanno a fernì ‘ncopp’ ’e burdelle.
E
ssignurine napulitane
fanno ’e figlie’ ’e ’mericane
’nce verimme ogge e dimane
’nmiezo porta capuana.
E
cercillo ’o viecchio pazzo
s’è vennuto ’e matarazze
e l’america pè dispietto
’nc’ha scippato ’e pile ’a pietto.
Ajere
ssera magniaje pellecchie
’e capille ’ncopp’e ’rrecchie
’e
capille ’e capille
e ’o ricotto ’e cammumilla
’o ricotto ’o ricotto
e ’a fresella cu ’a carnacotta
’a presella ’a fresella
e zì monaco tene ’a zella
tene ’a zella ’nnanze e arreto
uffa uffa e comme fete
elle fete ’e cane muorto
uè pe’ ll’anema ’e chillemmuorto.
E llevate
’a pistuddà
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (a finire)
|
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La poesia
canzone scritta nel 1946 da Nicolardi su musica di E.A. Mario,
Tammurriata nera è un canto popolare che racconta lo stupore
della gente per un evento insolito per i tempi ispirato a un fatto
di cronaca, la nascita di un bambino nero da una donna napoletana.
L'episodio, commentato in modo esplicito con l'opinione del popolo,
è la saggia constatazione di un ortolano che quando si semina il
grano sempre grano cresce e testimonia ciò che accadeva sotto
l'occupazione militare degli alleati americani.
Pur non
venendo nominato, il tema di fondo è la guerra: senza di essa non si
sarebbero verificati episodi di nascita di bimbi di colore, cosa che
a quell’epoca sorprendeva non poco. A questo si aggiunge il tema non
meno incisivo dell’evoluzione dei costumi e quindi della società.
Oggi con l’immigrazione è più possibile che le razze si mescolino e
che la nascita di un bimbo di colore non faccia più notizia. Roberto
Murolo incluse Tammurriata nera nella sua antologia della
canzone napoletana e la canzone apparve nella colonna sonora di
Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Riproposta nel 1974
dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, il brano raggiunse una
buona posizione nelle classifiche di quell'anno.
Si
segnala che questa canzone è l’unica da noi riportata di cui E.A.
Mario ha composto la musica e non i versi. [http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=musica&scheda=can-zone_murolo_tammurriata]
L’autore
«Luciano
Somma è nato a Napoli il 18 marzo 1940. Centinaia i premi
ottenuti, numerosissimi primi premi assoluti, due volte medaglia
d'argento del Presidente della Repubblica. Inserito in moltissime
antologie, anche scolastiche, e nella prestigiosa Nati per la
vita stampata in Russia dall'edizione Raduca di Mosca dove
figurano firme come Quasimodo, Pasolini, Saba, Bevilacqua, De
Filippo. Iscritto all'albo dei giornalisti nell'elenco speciale, ha
pubblicato e pubblica sui periodici e sui quotidiani più importanti
d'Italia (oltre 150 testate). Paroliere iscritto alla S.I.A.E., dal
1967 ha all'attivo oltre 500 canzoni edite o incise. Dal 1976 al
1990 ha condotto rubriche di poesie e canzoni in diverse emittenti
private e televisive. Per un paio di anni ha collaborato, con
rubriche varie, con Tele5 Napoli. Nonostante studi irregolari, nel
1987 gli è stata conferita la Laurea Honoris Causa in Lettere
e Filosofia per chiari meriti letterari. È presente in un numero
imprecisato di siti web, diversi giornali e periodici lo indicano
come il poeta più presente on line. Il suo nome figura, tra l'altro,
in antologie come: Dizionario storico dei poeti italiani,
Poetica napoletana del Novecento, La poesia a Napoli,
Natale napulitano. È presente dal primo anno nell'Agenda dei
Poeti (Edizioni OTMA di Milano). Ha partecipato, e partecipa, in
veste di giurato, a moltissimi concorsi di poesia e narrativa.
Nell'ottobre del 2005 è stato ospite in RAI2, nella rubrica Non è
mai troppo tardi.
Ha
pubblicato: Ddoje voce ’e Napule (Ed.La Commerciale, Napoli
1968), La mia ricchezza (Ed. L’Araldo del Sud, Napoli 1971 -
Ed. www.ricordati.com 2001, eBook), Dimane (Ed. degli
Artisti, Napoli 1977-1978,
I e II edizione), N’atu dimane (Ed. Del Delfino, Napoli
1982), ’E ggranate (Ed. Terre, Napoli 1990), Musica nuova
(Ed. Lo Stiletto, Napoli1993), Momenti di versi (Ed.
Montedit, Melegnano1997 - Ed. www.ricordati.com 2001, ediz.
telematica), Memorie d’alba (Ed. Otma, Milano1999),
Brividi di ricordi (Ed. Oceano, San Remo 2000, I ediz. - Ed. Di
Salvo, Napoli 2000, II ediz.), Cristo napulitano (Ed. Oceano,
San Remo 2000, I ediz. - Ed. I Miei colori, Pontassieve 2000, II
ediz. - Ed. Inediti, 2001 – eBook), Il pianeta dei silenzi (Ed.
Inediti, 2001 – eBook), Ll’appuntamento (Ed.
www.ricordati.com 2001, eBook), Immagini (Ed. Menna, Avellino
2001), L'alba di domani (Ed. I Miei Colori, Pontassieve 2003,
e-Book - Ed. Noialtri, Pellegrino 2005 conCD), Omaggio a Napoli
(CD con 11 poesie napoletane recitate da Antonio Mencarini».
Il poeta
si racconta:
«Mi sono avvicinato alla poesia all'età di 13 anni, per la verità i
primi lavori erano testi per canzoni (in seguito comunque sono
diventato autore di testi di oltre 2000 brani di ogni genere) ed ho
iniziato a collaborare con riviste e giornali qualche anno dopo.
Per me la poesia è una linfa vitale, uno degli scopi principali
della mia vita, scrivo sia in lingua che in napoletano, per
quest'ultimo sento un predilezione poichè rappresenta la mia lingua
madre.
Ritengo inutile elencare i numerosi premi vinti poichè il lettore
attraverso i miei scritti potrà rilevare la moltitudine di tematiche
scritte in oltre 50 anni di attività, e da essi potrà stabilire se
la mia presenza poetica è giustificata, o meno, dalla validità di
ciò che ho prodotto.
Qualcuno può pensare, nel leggere i miei versi, che alcuni siano
autobiografici ma debbo puntualizzare che invece la maggior parte
sono stati ispirati da situazioni ambientali e/o familiari (non mie)
che mi hanno colpito e che ho messo su carta tanti anni fa a penna,
poi con la macchina da scrivere ed oggi col PC.
Ritengo internet uno dei maggiori traguardi che ha raggiunto oggi la
tecnologia e che riesce a far conoscere al mondo cose che fino ad un
decennio fa sarebbero state impensabli.
Concludo con uno dei miei aforisma (scrivo anche quelli) nel quale
maggiormente identifico la mia attività letteraria ed artistica.
"Per giustificare la propria incapacità l'alibi del fallito è la
sfortuna"»
|
’O surdo e ’a cecata
E
cammenammo p’ ’e strade d’ ’o munno
mane
’int’ ’e mmane, comme ’int’a nu suonno,
nuie
simme nate: io surdo e tu cecata
però cu
nuie ’a sciorta nun è ’ngrata.
Veco sulo pe’ tte, tu pe’ mme siente
e ce
vulimmo bbene overamente
pecch'è
sincero chistu sentimento
ch'ha
saputo da' tutto dint'a niente.
Pure si tu me siente e nun me vide,
e parle
mentre io veco e nun te sento,
io sento
mille voce ’int’ ’o silenzio
tu vide
’a luce ’int’ all'oscurità.
|
|
La poesia
tratta dalla raccolta Dimane pone l’accento sul tema della
disabilità sensoriale: s’incontrano un sordo e una cieca che,
pienamente consapevoli delle loro difficoltà, ritengono che la vita
non sia stata ingrata con loro: la loro difficoltà si compensa a
vicenda con il loro amore e li ripaga di ogni difficoltà.
La
tematica della solidarietà sociale si impone in questa poesia come
il desiderio di aiutarsi l’un l’altro. [http://www.novamedia.it/sienall/luciano/amorena.htm]
|
Faccella nera
’O
juorno, tutte ’e juorne,
vicino a nu semaforo staje là,
’mmiscanno ’a famma toja cu’ chesta famma,
dicenno, cchiù ’e na vota, vu’ cumprà?
Chisà ’a qua parte d’Africa tu viene,
pizzo d’ ’o munno povero e stramano,
cu’ n’atu Dio, cu’ n’ata tradizione,
cu’ l’uocchie fute e na faccella nera.
Staje là ch’aspiette
vide ’e passà migliare d’automobbile
pienze ca simme ricche ma nun saje
che dint’a sta rammera ce stà ggente
ch’adda fa ’e zumpe, ogn’ora e ogni mumento,
pe’ cercà ’a strada pe’ tirà a campà?
Nun stive meglio dint’ ’a terra toja?
Che sarrà avara, che sarrà matregna,
che sarrà triste quanno scenne ’a sera
ma quanno è l’alba ’o sole ’nfoca ancoraù
appiccianno ’a speranza ’e nu dimane.
No, rieste llà,
dint’a chesta città che stà chiagnenno
’a secule cu’ ’e llacreme ’e na mamma
che chiagne pecché nun po’ sfamà ’e figlie
ca comme a tte se ne so’ ghiute fore
ca comme a tte forze stenneno ’a mano
chisà ’int’a quà paese furastiere
cu’ ’a faccia janca ma cu’ ’a sciorta nera
cchiù nera d’’a faccella ca tu tiene
pecché ’a miseria nun tene culore
nun tene razza o patria, è senza core!
|
|
La poesia
è tratta dalla raccolta Cristo Napulitano e, nell’ambito
della solidarietà sociale verso i bisognosi, ripropone la tematica
dell’immigrazione. La faccia nera dell’immigrato che al semaforo
chiede l’elemosina in un luogo che è già avaro di lavoro con i
propri figli è la stessa faccia dei tanti napoletani che hanno
lasciato la loro città in cerca di miglior sorte e hanno conosciuto
la sofferenza e la miseria in terre lontane. [http://www.modulazioni.-it/Salotto/Poesia/luciano-somma_cristonapulitano.htm]
|
Cronaca
E tutt’
’e juorne ’a stessa tiritera
sulo disgrazie maje nutizie allere
uommene accise spisso a tradimento
senza pietà, senz’ombra ’e pentimento.
’A droga, ’o cuntrabbando, l’estorsione,
s’allargano pe’ tutt’ ’e vvie d’’o munno
pe’ tutt’ ’e rrazze e tutt’ ’e rreliggione,
l’umanità scenne sempe cchiù ’nfunno.
Qua’ Pasca, qua’ Natale cà è n’inferno
manche dint’ ’e cunviente ce stà ’a pace
chisà che sta facenno ’o Pataterno
vurria saperlo pe’ mme fa capace.
Ma forze nun ci’azzecca simme nuje
c’avimmo perzo ’o bbene d’ ’a cuscienza
’mpietto tenimmo ’o ffele ca ce struie
e ’a ’mmeritammo chesta sufferenza.
’A vita è dono ’e Dio diceva ’o nonno,
povero viecchio comme se sbagliava,
chesti criature d’ogge comme ponno
campà comme na vota se campava.
Ogge chesto àdda scrivere ’o pueta
senza truvà nè pace nè arricietto
si guarda annanze e si s’avota areto
nun po’ truvà nisciuno atu suggetto.
‘Ncopp’a nu foglio ’e carta ’nfuso ’e chianto
mette ’a cronaca d’ogge pecché è storia
’e chisti vierze nun se ne fa vanto
so’ sultanto parole senza gloria!
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La poesia
tratta dalla raccolta Cristo Napulitano ci parla di
assassini, estorsioni, orrori e brutture di ogni genere. Il poeta si
chiede come si possa oggi vivere come si faceva una volta, quando,
come diceva il vecchio nonno, la vita era considerata un dono di
Dio. Questo scrive il poeta, e la realtà è così cruda che dei versi
che la raccontano non ci si può vantare.
[http://www.modulazioni.it/Salotto/Poesia/luciano-somma_cristo-napulitano.htm]
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Barboni
Te li
ritrovi all'angolo
laceri e macilenti
ombre negli occhi stanchi
su facce senza età,
le mani tremolanti
tese verso i passanti
cercano carità,
fermati se lo vuoi
forse così potresti
leggere nel passato
vite vissute ai margini
di questa società.
Ancora li ritrovi alla stazione
tra i binari dei treni
o nelle sale d'attesa
seduti sotto la biglietteria
ad aspettar probabili monete
date da viaggiatori frettolosi
che osservano nervosi e preoccupati
tutti gli orari della ferrovia...
Loro non hanno fretta
e li ritrovi
a scartocciare pasti sempre asciutti
tra una bottiglia e l'altra
la cicca tra le labbra screpolate
nell'incomunicabile silenzio...
Se resti indifferente,
fingendo d'ignorarli,
guardati per un attimo allo specchio
e ti ritrovi.
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Nella
raccolta Momenti di versi l’immagine del barbone misero,
affamato e alla ricerca di cibo è un’immagine troppo presente a noi
tutti. Ogni tanto, dice il poeta, dovremo fermarci e ascoltare nel
nostro incomunicabile mondo il loro mondo e non restare
indifferenti: basta guardare dentro sé e ti ritrovi.
Il tema
dell’incomunicabilità e dell’emarginazione per cui si invoca la
solidarietà sociale è affrontato dal poeta con la consapevolezza
dell’uomo moderno che tende a fuggire troppo spesso anche da se
stesso. [http://www.domist.net/X353SOMMAbarboni.htm]
Si ringrazia la sig.ra Maria Rosaria
Capasso di aver messo a disposizione de Il Portale del
Sud il testo con cui è stata allestita la presente pagina. Ottobre
2008.
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