Note e Versi Meridiani

 

Indice

Salvatore Di Giacomo


Libero Bovio


Raffaele Viviani


E.A. Mario


Luciano Somma

Napoli: due passi tra i versi

a cura di Maria Rosaria Capasso

attiva sottofondo musicale

Napoli, l'Arco di Sant'Eligio tratto da una cartolina d'epoca (Immagine di Enzo Falcone, Associazione Storico Borgo Sant'Eligio)

 

Gli anni che vanno dall’ultimo scorcio del secolo diciannovesimo fino ai nostri giorni sono stati anni di profondi cambiamenti evidenti nell’espressione artistica e letteraria alla stregua di quanto è avvenuto nell’evoluzione delle tecnologie e delle comunicazioni. L’obiettivo che ci si prefigge in questa sede non è tanto quello di effettuare un saggio sulla poesia napoletana di questi anni, quanto quello di una breve conversazione sull’argomento; il nostro contributo non è tanto di dissertare sulla poesia a Napoli quanto di offrire lo spunto al dialogo ad ampio raggio. A tale proposito riguardo alla quantità e alla tipologia della poesia a Napoli riportiamo le parole del Tilgher in La poesia dialettale napoletana: «Il mondo di affetti e passioni, concetti e preconcetti, giudizi e pregiudizi, ideali e convenzioni di cui la poesia dialettale napoletana si alimentava è in piena avanzatissima dissoluzione.[…] Profondissima, soprattutto, la trasformazione che sta subendo il sentimento di cui pressoché esclusivamente la poesia dialettale napoletana si alimentò per quasi mezzo secolo». La trasformazione della società incide quindi sul modo di esprimere i sentimenti, dall’amore tra uomo e donna, che da sempre è il sentimento per eccellenza della poesia napoletana al sentimento dell’amore per i figli, l’amicizia, il lavoro, per Napoli.

La poesia dialettale napoletana rispecchia una società di stampo maschilista con ruoli ben definiti e distinti tra uomo e donna; il maschio che fa da padrone e la donna a casa che aspetta il marito, immersa nelle faccende domestiche. In seguito, con l’evoluzione dei costumi, anche i contenuti della poesia partenopea cambiano.

Sarebbe paradossale oggi sovrapporre ai vecchi ruoli le nuove immagini di ragazze in jeans a vita bassa, viso bucato da piercing, ipod con auricolare. Ve l’immaginate così attillata, affacciata alla finestra, che attende la serenata dal suo spasimante?

«Un fenomeno d’arte così fervido - commenta De Mura - come quello della poesia napoletana avrebbe meritato, in altri paesi, un rigoglio di saggi e di investigazioni, un amoroso fervore critico ed illustrativo. Invece la nostra poesia è ancora da fare, di molti poeti si conosce pochissimo, scarseggiano i testi a stampa, mancano le edizioni critiche. Per taluno difettano anche le più elementari indagini, diciamo, di cronaca: si è insicuri sulle date della vita, ancor più su quelle delle opere, anche se, a quel che pare, tutto quanto riguardi Napoli è, in questi termini oggetto di attenzione».

Cambiano i costumi, cambia la poesia

Nel rivolgere questo nostro breve sguardo sulla poesia a Napoli negli anni che vanno da Matilde Serao all’attualissimo Roberto Saviano si è pensato di individuare delle tematiche come fili conduttori della poesia a Napoli nel periodo che va dal diciannovesimo al ventunesimo secolo. Le poesie che ci sono parse più interessanti e che proponiamo all’attenzione sono quelle legate ai temi del lavoro, tra cui si segnala Fravecature di Raffaele Viviani in cui si affronta il tema della morte bianca e quello della solidarietà sociale. Per quest’ultimo si affronta il problema della dispersione scolastica con Guaglione di Raffaele Viviani, il problema delle diverse abilità con ’E cecate e Caravaggio, di Salvatore Di Giacomo e ’O surdo e ’a cecata di Luciano Somma. Attualissima è la tematica dell’integrazione riguardante sia gli immigrati con Faccella nera, sia coloro che vivono ai margini della società con Barboni entrambe del contemporaneo Luciano Somma. Merita un cenno anche il tema della malavita con So’ bammenella ’e copp’ e quartiere di Viviani che descrive in modo alquanto realistico la vita di una donna di strada napoletana pronta a tutto pur di difendere il suo uomo che oltre a sfruttarla ogni sera “l’accide ’e mazzate”. Questo tema è presente anche con in altre poesie di Salvatore Di Giacomo, E. A. Mario, Libero Bovio e Luciano Somma. A Napoli, le poesie dei grandi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento sono talvolta diventate anche canzoni. Per questo motivo è stato quasi necessario occuparci, in questa sede, anche della canzone napoletana.

Negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo la canzone napoletana vive la sua epoca d’oro. In tutti i luoghi della città, dalle osterie popolari ai ritrovi più mondani, dai bassi alle nobili dimore, si cantano le stesse canzoni, che diventano così patrimonio di tutte le classi sociali. Spesso i versi vengono musicati. Fino a questo momento la canzone napoletana non era assurta a dignità artistica, finora si trattava solo di canti nei quartieri popolari e villanelle colte nelle case aristocratiche, ora nasce la canzone napoletana nazionale e internazionale apprezzata anche all’estero.

Nel presentare i poeti inseriti in questo nostro lavoro oltre a dare un cenno biografico, si è scelto di riportare i giudizi che gli autori hanno espresso su loro stessi, al fine di essere il più possibile fedeli al messaggio di questi grandi della poesia napoletana.

Bibliografia

  • E. De Mura , Poeti napoletani dal seicento ad oggi, Marotta, 1989

  • La poesia a Napoli 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio ,1992

  • A. Tilgher, La poesia dialettale napoletana 1880-1930, Roma, 1930

  • http://www.interviu.it/canzone/canzone2.htm


Salvatore Di Giacomo

L’autore

«Fin dal primo anno di vita di Salvatore di Giacomo la città di Napoli stava vivendo una nuova fioritura, ricca com’era di giardini, fiori, e gli incantevoli panorami che tutti conosciamo. La città di Napoli era popolosa più di ogni altra del regno. Il contesto è indispensabile per presentare la vita di Salvatore Di Giacomo che fu il poeta napoletano per eccellenza e le cui poesie, come tutti sanno sono state anche canzoni.

Nasce a Napoli il 13 marzo 1860 da Francesco Saverio, medico pediatra e da Patrizia Buongiorno, figlia di un insegnante di musica del Conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella. Studia al liceo Vittorio Emanuele. Dopo gli studi classici si iscrive alla facoltà di Medicina dell’università di Napoli , ma un episodio raccapricciante lo indusse, dopo tre anni, ad abbandonare l'università: una mattina, un bidello soprannominato "Setaccio", cadendo dalle scale gli versò, quasi addosso, una bacinella ricolma di resti umani che erano serviti agli studenti per esercitarsi... Salvatore sgomento si rese conto all'istante che quella intrapresa non era la sua strada ed abbandonò gli studi.

Già nel 1879 a soli 19 anni pubblica sul Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero, alcune novelle di tono autobiografico e collabora alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. Negli anni successivi 1881 e 1882 frequenta gli ambienti artistici e letterari e collabora con numerose riviste come Il fantasio, Pro patria, La Gazzetta, Il Pungolo.

Pubblica nel 1883 le novelle Minuetto settecenesco che viene notato dalla Serao.

A questo punto la sua produzione letteraria diviene serrata e non c’è anno che non pubblichi novelle, bozzetti, sonetti, commedie drammi poesie e quant’altro. In seguito passò al giornalismo militante ed al Corriere di Napoli di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao e cominciò il suo tirocinio di cronista. Dopo un breve periodo però, accettò di dirigere la Biblioteca Lucchesi Palli sezione della Biblioteca Nazionale dove tuttora si possono ritrovare le annotazioni fatte con la sua scrittura minuta ma chiarissima. Nel frattempo la sua fama era diventata grande dopo lo strepitoso successo di Assunta Spina nel 1908. Conobbe in biblioteca Elisa Avigliano, una ragazza appena laureata, della quale si innamorò. Il poeta pur avendo raggiunto il 46° anno di età decise di sposarla. Nel 1924 Mussolini nominò Di Giacomo senatore insieme con Ugo Ojetti. Il Senato però bocciò la nomina, che era stata molto caldeggiata da Benedetto Croce, perché si disse: "Piedigrotta non può entrare in Senato" ed Ugo Ojetti ebbe a scrivere dopo aver rifiutato: "arrossirei al pensiero di entrare per censo al Senato dove, solo perché povero, non ha potuto entrare un grande poeta". Ebbe una piccola rivincita don Salvatore quando, nel 1929, fu nominato Accademico d'Italia, ma non poté mai partecipare alle sedute anche perché non possedeva la divisa. Aveva soltanto un vecchio cappotto che cominciava a diventare impresentabile: "Era di un così bel colore marrone, ma ora sta diventando Rousseau; bisogna che lo faccia Voltaire"...scherzava Di Giacomo.

Di Giacomo ha scritto di tutto e moltissime sono le poesie assurte a dignità artistica divenute canzoni tra le migliori della tradizione napoletana e immortali tanto che ancora riescono ad emozionarci, nonostante l’evoluzione, a volte troppo rapida, della nostra società. Morì la notte del 4 aprile 1934».

Poesie scelte

Molteplici i temi da lui affrontati nella sua produzione poetica, non va trascurata anche la sua nota sensibile ma tra gli altri abbiamo scelto per questa nostra breve disamina quelli della solidarietà sociale e della malavita.

 
’E cecate ’e caravaggio

Dimme na cosa. T’allicuorde tu

’e quacche faccia ca p’ ’o munno e’ vista,

mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?

- Si, m’allicordo; e tu? - No frato mio;

io so’ nato cecato. Accussì cielo

pe mme murtificà, vulette Dio…

- Lassa sta’ Dio!...Quant’io ll’aggio priato,

frato, nun t’ ’o può manco mmaggenà,

e Dio m’ha fatto addeventà cecato.

- È overo ca fa luce pe la via

’o sole?…E comm’è ’o sole? - ’O sole è d’oro,

comme ’e capille ’e Sarrafina mia…

- Sarrafina? …E chi è? Nun vene maie?

Nun te vene a truvà? – Sì…quacche vota…

- E comm’è? Bella assaie? – Sì…bella assaie…

Chillo ch’era cecato ’a che nascette

suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,

e ’a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.

Dicette ’o primmo, doppo a nu mumente:

- Nun te lagnà, ca ’e mammema carnale

io saccio ’a voce… ’a voce solamente…

E se stettero zitte. E attorno a ’lloro

addurava ’o ciardino, e ncielo ’o sole

luceva, ’o sole bello, ’o sole d’oro…

 

Si ripropone il tema della solidarietà sociale verso coloro che sono stati privati dell’uso della vista

La poesia, inserita nella raccolta Poesie del 1907, narra l’incontro e il dialogo tra due non vedenti di cui uno nato cieco e l’altro divenutovi. Quello nato cieco consola in qualche modo l’altro che dice: di mia madre conosco solo la voce, l’altro cerca di spiegargli il mondo com’è fatto con il ricordo del colore del sole e dei capelli dell’amata spiegando all’altro il sole con l’oro della chioma.

E intanto tutto continua a scorrere come prima, il sole d’oro brilla, il giardino è profumato…

La poesia, dedicata a chi non ha più la “luce” e a chi non l’ha mai avuta, propone il tema della solidarietà nei confronti delle persone con diversa abilità. Tenerissimo il confrontarsi di entrambi i ciechi che, pur nella sfortuna, si consolano a vicenda. [http://www.roman-zieri.com/archives/001459.php]

 

’O ’nteresse

Quante so’? . So’ se’ solde… Embè?… Scusate:

ll’ati quatto v’’e ddongo viernarì…

Sette, allora. – Comm’è? M’aumentate

tre solde pe tre ghiuorne, se’ Marì?!

- Te cummiene? – Ma comme? Ve pigliate

chisto nteresse ? – Oi ne’, tu ’e buo’ accussì?

M’è ditto niente quanno t’aggio date?…

È troppo giusto… che ve pozzo dì?…

Penzate ca maritemo sta a spasso,

ca nun me porta niente pe magnà,

ca sta facendo ll’arte ’e Micalasso!…

- Bella mia tu che buò ? Che t’aggia fa’?

È giusto, è giusto…nun ve mporta niente…

Vevitevillo ’o sango de la gente! …

 

La poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose, ripubblicata nel 1990, affronta il tema del prestito ad usura. La poesia sciorina un dialogo tra la debitrice e l’usuraia, dove la debitrice cerca, invano, di diminuire il debito adducendo il motivo che il marito è disoccupato e quindi non può restituire il denaro con un interesse tanto forte. Ovviamente l’usuraia, indurita dall’avidità di danaro, non cede alle richieste della povera donna in difficoltà.

Efficacissima l’ironia “E’ giusto, è giusto non ve ’mporta niente” e sferzante la chiusa “Bevetelo il sangue della gente!”.

 

Furtunata

E ce steva ’na guagliona

cu ’na faccia ’e ’na Madonna,

cu ’na capa ionna ionna ,

c’’a salute assai suttile,

e cu n’anema gentile.

Puverella! A dudece anne

Primma ’a mamma lle murette

Sola sola rummanette

Cu nu pate scimunito

p’’a miseria e ll’appetito.

- Moro – dicette ’a mamma - e nun me lagno:

ma chello ca mme coce è ca rummane

figliema abbandonata!…

(Ah povera povera Furtunata!)

E teneva sidece anne

Quanno ’o pate lle murette:

i’ chessà che lle venette

ca passaie dopp’’o spitale,

a ngrassà Puggeriale.

Se vendette n’anelluccio

Pe doie cere e na curona,

chella povera guagliona…

Lle spiaino: - E mo’ addò ’e ppuorte? –

Rispunnette : - Ogge so’ ’e muorte…

E ’a llà ncoppa turnaie cu ll’uocchie russe…

E nu giuvanuttiello ’e mala vita

piglie e ncuntraie p’’a strata…

(Ah povera Furtunata!)

E ched’è sta vita nosta!

Quant’è amara e quant’è triste!

Furtunata !… ah che faciste!…

Sta creatura ca t’è nata

Mo’ addò a lasse? A Nunziata…

(Penzatece a stu nomme ca teneva,

e a sta barbara sciorta. A sidece anne

è morta e s’è atterrata…)

(Ah povera Furtunata!)

 

Anche questa poesia è inserita nella raccolta Poesie e Prose e affronta il tema della povertà che nella tradizione napoletana è portatrice anche di altri mali come la delinquenza. La mamma muore quando lei, Fortunata, ha solo dodici anni; il padre viene a mancare alcuni anni dopo ed è costretta a vivere in povertà e a vendersi qualche oggettino d’oro per portare dei fiori al cimitero nel giorno in cui si commemorano i defunti.

Priva di una guida, incontra un giovane di malavita col quale concepisce una bimba. La povera creatura viene portata all’Annunziata non potendo mantenerla. Giovanissima, a soli 16 anni, muore.

Triste il destino della povera Furtunata e meno male che il suo nome è Fortunata!

 
Sfregio

Ha tagliata la faccia a Peppenella

Gennareniello de la Sanità:

che rasulata! Mo’ la puverella,

mo’ proprio è stata a farse mmedecà.

Po’ ll’hanno misa int’a ’na carruzzella,

è ghiuta a ll’ispezzione a dichiarà;

e ’o delicato don Ciccio Pacella,

ll’ha ditto: - Iammo! Dì la verità.

Ch’è stato, nu rasulo, nu curtiello?

Giura primma , llà sta nu crocefisso

(e s’ha tuccato mpont’a lu cappiello).

Dì, nun t’ammenacciava spisso spisso?

- Chi? – ha rispuost’essa. – chi? Gennareniello!

- No! … Ve giuro signò! Nun è stat’isso!…

 

La poesia, inserita nella raccolta Poesie, descrive un episodio di violenza su una donna. Infatti Gennareniello della Sanità ha inferto un colpo di rasoio sul viso di Peppenella che essendo andata a medicarsi in ospedale viene interrogata dall’ispettore. Costui, dopo averla fatta giurare, le chiede con insistenza: “Chi è stato?” E lei risponde: “Ve lo giuro non è stato lui.” Il meccanismo dell’ottenere il silenzio attraverso la violenza è una delle peculiarità della malavita napoletana. Ma è altrettanto vero che esiste un altro meccanismo per cui la violenza per alcune donne è un modo in cui sentono di avere “l’attenzione”, come se la donna dicesse: “mi picchia quindi mi cerca, mi desidera, ecc…” Ovviamente si sottolinea che si tratta di manifestazioni quanto meno condannabili ed esecrabili.

 
Ll’acciso

Si ve conviene nu dichiaramento,

tant’onore pe mme. – L’onore è moi…

Ccà stesso ?? – Pe’ dimane. Appuntamento

A mezzanotte. – resta fatto. – Addio –

Quatto parole. E doppo mezzanotte,

’a sera appresso, Carmine De Riso,

pe’ mmano ’e Ciro Assante e cu tre botte,

nterra, ’int’’o vico, rummanette acciso.

Pe’ mbriaco ’o pigliano albante iuorno:

lle s’accustaie ’na femmina vicino,

e se mettette a ffa’: - Te miette scuorno?!…

Porco! A primma matina vive vino!…

Vino? Era sanco. Lle parette vino,

nterra, ’na macchia e sancofriddo e mollo…

-Sciù nnanz’’a chiesia ’e santo severino!…

E lle menaie nu cato d’acqua ncuollo…

 

La poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose affronta il tema della sfida a duello all’ultimo sangue tra due persone. Il morto viene trovato di primo mattino da una donna alla quale sembra vino la macchia di sangue che scorre sulla strada e pensa si tratti di un ubriaco. La tematica della malavita è una piaga purtroppo sempre attuale nella nostra società. Incisiva la chiusa: “E gli buttò un secchio d’acqua addosso”, come se volesse lavare il delitto con un po’ d’acqua.

 

’O guaio

- Arresta! Arresta!… ferma!… - Uh mamma mia!

Che sarrà?… Vuie sentite?… Che sarrà?…

Scetateve!… - Faranno …pe’…pazzià…

-Arresta! Arresta! - Vuie sentite, oi ma?

-Secutanno a quaccuno mmiez’ ’a via…

Iamm’a vedè… - No… che n’avimma fa?…

Bene mio! Sta saglienno ’a pulezzia!

Giesù chi è stato?! … Oi ma’…Ma’…Ascite cca’

- Ch’è stato? – Siete voi Giuseppa Aiello?

- Sissignore sign’… - ci avete un figlio?

- Nu figlio… sissignore… Peppiniello…

- Ha avuto quattro colpi di cortello…

Madonna!… - E ’a chi?… - Da un certo Ciro Giglio,

- Figlio mio!... - Frate mio!… - Figlio mio bello!

 

La poesia, tratta da Poesie e Prose, descrive un’aggressione a colpi di coltello nei confronti del figlio della signora Giuseppa Aiello. Efficace la disperazione della madre e la reazione immediata del popolo che pensa si tratti di uno scherzo. Si evidenzia il concetto della solidarietà delle persone con la madre in contrapposizione all’atteggiamento della malavita che, incurante di chi potrebbe vedere, agisce in pieno giorno in strada e priva, senza troppo pensare, una donna di suo figlio.

Bibliografia


Libero Bovio

L’autore

«Figlio di un filosofo con ideologie repubblicane (da qui il suo nome) e di una brava pianista, Libero Bovio nacque l'8 giugno 1883 a Napoli. Anche se frequentava i corsi universitari di Medicina non arrivò mai alla laurea perché appassionato di teatro in lingua. Infatti la sua prima realizzazione risale al 1902, appena diciannovenne. Morto il padre, fu esortato a trovarsi un impiego che gli consentisse il sostentamento. Trovò lavoro prima in un quotidiano locale Don marzio poi al Museo Nazionale di Napoli fino a diventare direttore dell'Ufficio Esportazioni: attività che gli daranno l’opportunità di scrivere molto. Gode di una popolarità strepitosa e gli aneddoti raccontano delle scene di vero e proprio entusiasmo al suo passaggio per le strade della città. Con la sigaretta sempre tra le labbra diventa ben presto uno dei più grandi personaggi della Napoli dell’inizio del secolo scorso. Amore, gioia e dolore si alternano continuamente nella sua produzione e nella sua vita. Sempre pronto alle battute, in possesso di una grande comunicabilità, rappresenta a lungo uno stimolante interlocutore nei salotti di una Napoli alla ricerca della sua identità. Grandissima la varietà dei temi, trattati sempre con immediatezza popolaresca, anche nelle poesie non destinate alla musica. Perché, se è vero che viene ricordato come autore di versi intramontabili in vernacolo, è anche vero che evidenziò condizioni e temi comuni ai grandi poeti del decadentismo italiano ed europeo. La sua poesia Vespero, ad esempio, tratta il tema della solitudine, tema che si ritrova, com’è noto, nei grandi poeti del nostro Novecento: si notano la stessa contemplazione stupita del paesaggio, la fugacità della vita e alla ricerca fanciullesca del linguaggio della natura. Fu giornalista, autore di teatro e novelliere. Della sua produzione ricordiamo titoli famosissimi: Passione, Silenzio cantatore, Chiove, Guapparia, Signorinella. I musicisti furono i maestri Gaetano Lama, Nicola Valente, E. Nardella, E. de Curtis, Rodolfo Falvo, ed altri. Nella canzone napoletana Bovio inventò anche il genere drammatico.

Si racconta che un giorno Libero Bovio, nella sede della casa musicale La canzonetta di Francesco Feola, seduto alla scrivania, leggeva a Mario Spera, direttore della rivista omonima, una sua nuova lirica. Entra un gerarchetto fascista, inviato dal federale per informare il poeta che era arrivato Edmondo Rossoni, un alto esponente del partito, il quale desiderava vederlo; avanza fino alla scrivania e pronunzia con molto sussiego il suo nome preceduto dal grado. Bovio, che vuole terminare la lettura della poesia, gli dice: “Pigliatevi una sedia”. Il gerarchetto, con tono offeso, risponde: “Non avete capito chi sono?” E ripete il proprio nome e grado. Bovio, senza alzare la testa: "Ah!... Allora pigliatevi ddoi segge!". Grazie a compagnie di prosa farà del resto conoscere a tutta l’Italia la sua personale inesauribile vena poetica così come quella dell'intera città. Poi, costretto da una malattia a rinchiudersi in casa, come definitivo poetico atto d'amore dedica alla sua compagna il suo ultimo canto: Addio Maria. A raccogliere l'eredità artistica è il figlio Aldo, giornalista de Il Mattino ed autore oltre che di canzoni e sceneggiature di colonne sonore. Organizzatore e regista da molti anni rappresenta il polo di numerose manifestazioni artistiche della città. Altre sue composizioni sono: Carulì Carulì; ’A canzone ’e Napule; Nun volio fa niente; Sona chitarra; Tarantella luciana; Carufanella; Guapparia; Nonna nonna; Tu ca nun chiagne; Fron’ ’e cerase; Regginella; Ncoppa ’a ll’onna; Brinneso; Silenzio cantatore; Chiove; Lacreme napulitane; ’O paese d’ 'o sole; Tarantella scugnizza; Zappatore; Guappo song’io; Passione.

Così dice di lui Ettore De Mura: «Di grande ingegno e di solida cultura, di squisita sensibilità, scrisse poesie e canzoni originalissime ch’ebbero vasta risonanza. Fu il pioniere della “canzone drammatica”, con la quale ottenne successi indimenticabili. […]. Poeta vigoroso in ogni suo comportamento seppe inquadrare con sintetici ma profondi tocchi, un dramma, uno squarcio di vita, tormentata ed amara, rievocativa e nostalgica. Vita trasfusa in lirica, l’arte sua. Questo il segreto dei suoi successi innumerevoli».

Libero Bovio morì nella sua casa di via Duomo a Napoli il 26 maggio 1942.

Poesie scelte

 

Lacreme napulitane

Mia cara madre,

sta pe’ trasí Natale,

e a stá luntano cchiù mme sape amaro....

Comme vurría allummá duje o tre biangale...

comme vurría sentí nu zampugnaro!...

A ’e ninne mieje facitele ’o presebbio

e a tavula mettite ’o piatto mio...

facite, quann’è ’a sera d’’a Vigilia,

comme si ’mmiez ’a vuje stesse pur’io...

E ’nce ne costa lacreme st’America

a nuje Napulitane!...

Pe’ nuje ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule,

comm'è amaro stu ppane!

Mia cara madre,

che so’, che so’ ’e denare?

Pe’ chi se chiagne ’a Patria, nun so’ niente!

Mo tengo quacche dollaro, e mme pare

ca nun so’ stato maje tanto pezzente!

Mme sonno tutt’ ’e nnotte ’a casa mia

e d’ ’e ccriature meje ne sento ’a voce...

ma a vuje ve sonno comm’a na "Maria"...

cu ’e spade ’mpietto, ’nnanz’ ’o figlio ’ncroce!

E nce ne costa lacreme st’America

e nuie napulitane…

Pe’ nuie ca nce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule

Comm’ è amaro stu ppane!

Mm’avite scritto

ch’Assuntulella chiamma

chi ll’ha lassata e sta luntana ancora...

Che v’aggia dí? Si ’e figlie vònno ’a mamma,

facítela turná chella “signora”.

Io no, nun torno...mme ne resto fore

e resto a faticá pe’ tuttuquante.

I’, ch’aggio perzo patria, casa e onore,

i’ so’ carne ’e maciello: So’ emigrante!

E nce ne costa lacreme st’America

e nuie napulitane…

Pe’ nuie ca nce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule

Comm’è amaro stu ppane!

Questi versi struggenti, tratti dalla raccolta Poesie e canzoni e musicati in una famosissima canzone, ci riportano ai primi decenni del Novecento quando numerose erano le navi che partivano piene di napoletani che emigravano per l’America.

Vi è descritto il quadro di una famiglia divisa sia dalla necessità di emigrare del capofamiglia sia da incomprensioni che hanno portato alle separazione dei coniugi. Ma umano il risvolto sentimentale nelle parole «Facítela turná chella "signora"». Nonostante abbia sbagliato, la moglie è ammessa a tornare in famiglia perchè la figlioletta la cerca e la vuol vedere.

 

Senza sole

Dint’a nu vecariello senza sole

J’ sentivo ’e cantà matina e ssera;

erano belle musica e parole;

e ’a voce era cchiù fresca ’e Primavera.

Penzaie: “Forse è ’a cchiù bella ’e sti figliole

Chella che canta spensierata e allera,

e tene ll’uocchie ca so’ doie viole

ca danno luce a ’na faccela e cèra.”

E le mannaie ’na lettera d’ammore

- ’na lettera ’a cchiù ardente e ’a cchiù

sincera

a ’stu bello canario cantatore.

Ma avette pe’ risposta sta mmasciata;

“Chella che canta d’ ’a matina a’ sera

 e tene ‘a voce d’oro, è ’na cecata.”

 

Questi versi, tratti dalla raccolta Poesie e canzoni del 1993 toccano il tema delle solidarietà sociale in cui un giovane si innamora di una bellissima voce e pensa che altrettanto bella è la ragazza che canta e allora decide di scriverle una lettera d’amore . Riceve, però, una risposta che lo gela: “Quella che canta dalla mattina alla sera è una cieca”.

Incisiva la chiusa che, come una lama affilata, trafigge il cuore del giovane innamorato.

Bibliografia

  • Ettore de Mura, Enciclopedia della Canzone Napoletana

  • Ettore De Mura, Poeti napoletani dal seicento ad oggi, 1989

  • Libero Bovio, Poesie e canzoni, Napoli 1993


Raffaele Viviani

L’autore

«Raffaele Viviani nacque a Castellammare di Stabia il 10 gennaio del 1888 da famiglia povera, il padre cappellaio e poi vestiarista teatrale e la madre casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il suo esordio in un teatrino di marionette sito in via Foria, di proprietà di Aniello Scarpati. A soli dodici anni Raffaele rimasto orfano del padre rimase in un profondo stato d'indigenza e col gravoso compito di badare alla madre ed alla sorella Luisella. Gli anni della sua gioventù, semmai ne ebbe una, li spese a girare in lungo ed in largo l'Italia intera allo scopo di ricevere una scrittura, affermarsi e quindi provvedere alla sua famiglia. A 20 anni compiuti, grazie alla sua forza di volontà, alle sue doti artistiche, ed al suo spirito di sacrificio, il nostro Papiluccio era già conosciuto ed apprezzato nei teatri di tutta la penisola, la sua bravura e la sua fama lo portarono ben presto fuori dai patri lidi. Nel 1911 lo troviamo a Budapest, nel 1915 a Parigi, nel 1925 a Tripoli e poi ancora in Brasile, Uruguay e Argentina. Papiluccio portò alla ribalta di tutti i teatri quei tipi da lui resi celebri, come: ’O scugnizzo, ’O scupatore, ’O cucchiere, ’O sunatore ’e pianino, ’O tramviere, ’O mariunciello, Il mendicante e moltissimi altri ancora. Raffaele Viviani é stato l'attore più importante della prima metà del 1900, nelle sue bellissime opere ha raccontato una Napoli viva, quella Napoli dei vicoli, dei mille mestieri, con i suoi tanti nei: prostitute, guappi, lenoni, ladri, ma anche commercianti, lavoratori, operai, contadini. Viviani con i suoi toni, le sue armonie ed i suoi colori, ha costituito per lungo tempo l'unica nuje stà». (Pausa) A miseria nun te fa capì niente cchiù ! S'addiventa n'incosciente. 

Alternativa al teatro pirandelliano, creando egli stesso una nuova forma di fare teatro, una nuova forma che purtroppo (e lo diciamo a malincuore) é rimasta lì, ferma, senza che nessuno, che ne fosse degno, abbia ripreso il suo discorso. La sua arte era immensa, la sua maschera era stupenda, Viviani fu anche poeta ed autore di bellissime canzoni. Egli divenne uno dei maggiori esponenti della drammaturgia napoletana, e ci fa piacere ricordare, tra le sue più belle opere: ’O vico, Tuledo ’e notte, Lo sposalizio, Circo equestre Squeglia, I pescatori e Morte di Carnevale. Si spense il 22 marzo del 1950 e, prima di morire, dopo esser stato zitto per più di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo e con un tenue filo di voce: “Arapite, faciteme vedé Papule”». [http://poetinapoletani.fasturl.it/]

Ed ora la parola a Raffaele Viviani:

«1888... Nacqui a Castellammare di Stabia, la notte del 10 all'una e venti, figlio di un cuor d'oro di donna e di un padre cappellaio, più tardi vestiarista teatrale.

Mio padre, Raffaele, anche lui, era l’impresario teatrale dell’Arena Margherita, dove recitavano i poveri “Pulcinelli” del tempo, specialmente in estate... le cose andarono a male e proprio all’indomani della mia nascita, in pieno battesimo, un sequestro tributario costrinse mio padre a venirsene a Napoli... sua città natale... S’era creato un vasto corredo di attrezzi teatrali e di costumi e cominciò a fornire i teatrini dei quartieri popolari... Lo accompagnavo... e stavo là a godermi lo spettacolo. M’interessava la recita dell’Opera dei Pupi del teatrino della Porta di San Gennaro... Cantava tra i “numeri” che completavano lo spettacolo marionettistico un certo Gennaro Trengi, tenore e comico... Una sera si ammalò...Fui vestito con l’abito di un pupo che mia madre raffazzonò alla meglio... Avevo quattro anni e mezzo e cantai... con voce tremula, esitante...Dopo qualche mese... ebbi anch’io la mia paga... ed anche tanti bei vestitini a colori, come li usava il Trengi... Ebbi ben presto anche una duettista, Vincenzina Di Capua, una bellissima adolescente... ed io la corteggiavo, sia nelle vesti di monaco, nel duetto “Fra Bisaccia” che in quello di un ufficiale del 700 - il duetto Un bacio rendimi... dall’opera comica Le educande di Sorrento dell’Usiglio - e, a stento, le arrivavo alla vita! Vincenzina, per darmi un bacio, in iscena, doveva piegare il busto in avanti...Mio padre voleva che non sbagliassi mai, che non mutassi una virgola di quanto mi aveva pazientemente insegnato. Una mossa non fatta a tempo, appena rientravo in quinta... giù una frustata ed io piangevo; e lui mi vestiva e mi asciugava gli occhi buttandomi fuori per l’altra canzone». [Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988]

Poesie scelte

 

Fravacature – 1930

All’acqua e a ’o sole fràveca

cu na cucchiara ’mmano,

pe’ ll’ aria ’ncopp’ a n’anneto

fore a nu quinto piano

Nu pede miso fauzo,

nu movimento stuorto,

e fa nu volo ’e l’angelo:

primma c’arriva, è muorto

Nu strillo; e po’ n’accorrere

gente e fravecature.

- Risciata ancora… È Ruoppolo!

Tene ddoie criature!

L’ aizano e s’ ’o portano

Cu na carretta a mano.

Se move ancora ll’ anneto

Fore d’ ’o quinto piano.

E passa stu sparpetuo

cchiù d’uno corre appriesso;

e n’ato, ’ncopp’a n’anneto,

canta e fatica ’o stesso.

‘Nterra, na pala ’e cavece

cummoglia a macchia ’e sango,

’e sghizze se scereano

cu ’e scarpe sporche ’e fango.

Quanno ’o spitale arrivano,

’a folla è trattenuta,

e chi sape ’a disgrazia

racconta comm’è gghiuta.

E attuorno, tutt’ ’o popolo:

-Madonna!-Avite visto?

-D’ ’o quinto piano -’E Virgine!

-E comme, Giesucristo…?!

E po’ accumpare pallido

chillo c’ ha accumpagnato:

e, primma ca ce ’o spiano,

fa segno ca è spirato.

Cu ’o friddo dint’a ll’anema ’a folla s’alluntana

’e lume gia s’appicciano

’a via se fa stramano.

E ’a casa, po’, ’e mannibbele,

muorte, poveri figlie,

mentre magnano, a tavola,

ce ’o diceno a ’e famiglie.

’E mamme ’e figlie abbracciano,

nu sposo abbraccia ’a sposa …

E na mugliera trepida,

aspetta, e nn’ arreposa.


S’appenne ’a copp’ ’a ll’asteco

sente ’o rilorgio : ’e nnove!

Se dice nu rusario…

e aspetta nun se move.

L’acqua p’ ’o troppo vòllere

s’è strutta int’ ’a tiena,

’o ffuoco è fatto cènnere

Se sente na campana.

E ’e ppiccerelle chiagnano

pecchè vonno magnà’ :

-Mamma, mettiamo ’a tavula!

-Si nun vene papà?

‘A porta! Tuzzuleano:

-Foss’isso? - E va ’arapi’.

-Chi site? - ’O capo d’opera.

Ruoppolo abita qui?

- Gnorsì, quacche disgrazia?

Io veco tanta gente…

- Calmateve, vestiteve…

- Madonna! - È’ cosa ’e niente.

È sciuliato ’a l’anneto

d’’o primmo piano. - Uh, Dio!

e sta ’o spitale? - È logico.

- Uh, Pascalino mio!

’E ddoie criature sbarrano

ll’uocchie senza capì;

’a mamma, disperannose,

nu lamp a se visti’;

’e cchiude ’a dinto; e scenneno

pe’ grade cu ’e cerine.

- Donna Rache’! – Maritemo

che ssà, sta ’e Pellerine.

È sciuliato ’a ll’anneto.

- Si, d’ ’o sicondo piano

E via facendo st’anneto,

ca saglie chiano chiano.

- Diciteme, spiegateme.

- Curaggio. - È muorto?! - È muorto!

D’ ’o quinto piano. ’All’anneto.

Nu pede miso stuorto.

P’ ’o schianto, senza chiagnere,

s’abbatte e perde ’e senze.

È Dio ca vo ’na pausa

a tutte ’e sofferenze.

E quanno a’ casa ’a portano,

trovano ’e ppìccerelle

’nterra, addurmute. E luceno

’nfaccia ddoie lagremelle.

[http://web.tiscalinet.it/avrannosuccesso/Fravecature%20Viviani.htmed]

 

Commento nello stesso link: «Meravigliosa poesia di Raffaele Viviani la mia preferita sfido chiunque leggendo questo capolavoro di poesia a non piangere».

Viviani artista versatile, scrisse numerose poesie dialettali, ispirate a soggetti reali della vita di quartiere. Grazie alla straordinaria bellezza del dialetto napoletano, il “genio stabiese”, seppe enfatizzare con singolare abilità, alcuni aspetti tipici della vita sociale d'epoca.

Attualissima purtroppo ancora oggi la poesia del 1930 che affronta il tema delle morti bianche, sempre troppe nel nostro Paese.

La descrizione dell’incidente occorso a questo muratore, tale Pasqualino Ruoppolo, assume un tono, man mano che la narrazione va avanti, sempre più incalzante e serrato. Questo crescendo è presente anche nella descrizione della moglie che lo aspetta a casa con i figli, a cui viene in seguito detto che il marito si trovava al primo piano, poi al secondo e infine al quinto. Struggente l’immagine dei colleghi di lavoro che raccontano l’episodio alle mogli che abbracciano i loro sposi. Ancora più commovente quella dell’andito che ancora si muove dopo la caduta come ad indicare l’inesorabilità sia del tempo che dell’accaduto.

 

’A canzone d’’a fatica - 1928

Staje ’mbracato ’ncopp ’a ll'anneto.

- Scenne ’o vi'! na caurara.

- Pronta ’a càvece! Piglia ’a cucchiara! Jammo, ’e pprete!

- E s'accummencia ’a fatica'.

- Saglie ’o vi'! Guagliù, sbrigàmmoce

ca ’a jurnata se ne va.

Tira ’ncoppa! Guè, spicciàmmoce:

stu balcone, pe' stasera, se ha da fa'.

’A scala! ’O cato ’e ll'acqua!

Chi va svelto, nun se stracqua!

Dduie cuòfene ’e mattune

’ncopp' ’e spalle ’e sti guagliune!

’A càvece! doie prete!

Votta ’e mmane! ha perzo ’e ddete!

Cummuoglie sti parete

e ’o balcone è fatto già.

Fravecammo ’a casa ’o prossimo,

sulo ’a nosta sta ’mprugetto:

’o ’ngigniere contr'a ll'architetto

pecchè ’appardo nun se sape a chi ’hann' ’a da'.

Leva mano! Chi se côpera?

’E mattune? hann' arriva'.

Maie pe' nuje sta mano d'opera

s'è pututa, pe' na vota, autilizza'!

E arronza sti cucchiare,

sti sciamarre e’'e ccaurare;

si no perdimmo ’o trammo:

n'ora e mmeza ’ncopp' ’e ggamme.

E cu ’o cappiello ’a sgherra

cu ’a salute nun m'attierre.

Vicino ô palo ’e fierro

ce ’a sapimmo dichiara'.

 

Ancora una poesia sul lavoro, ancora muratori, ma un’atmosfera meno grave della precedente. È il momento corale del lavoro, il momento in cui si trasmette tutto l’entusiasmo oltre che l’allegria per il lavoro che dura tutta la giornata fino al rientro a casa: prendiamo questo, prendiamo quello ecc…Amara la nota che trafigge come una lama: “Ricostruiscono le case degli altri ma la nostra è solo un progetto inteso come pensiero ed esiste solo nella nostra mente.”

 

’O scupatore - 1910

“Mannaggia ’a mazza ’e scopa e quanno maie

patemo me menaje dint’ ’a scupata!

Jette a du na perzona altolocata;

e chillo: “ Vo’ nu posto? Ha da scupa’!”

Mo ca te lagne, parle d’aumento:

te faie nemice, pierde ‘e dignità;

e siente ’e di’: “ Ccà n’ati cincuciento

già stanno pronte pe’ ve rimpiazzà!”

Tutte sti muorte ’e famma

cresceno comm’ ’e microbe:

so’’a summa d’’a miseria

’e tutt’ ’a società!

Ngutte? T’abbutte ’e collera.

Sfuoghe? Cu cchi? Cu ll’aria!

’A vocca ’a tiene? E ’nzerrala,

pecchè nun puo’ parla’.

E scerùppate tutt’ ’e pponte ’e pietto,

tutte sti strate, sempe malamente!

E quanno è doppo vene nu sergente

e dice ca si’ muscio a fatica’.

E’ nu brutto mestiere, ’o scupatore!

E i’ v’’o dico cu tutta l’esattezza,

pecchè ce songo nato ’int’’a munnezza;

e tengo competenza e serietà.

Sulo na cosa sta ’int’ ’a classa nosta:

ca nun te truove nu privilegiato.

Nuje simmo tutte uguale, uno cu n’ato,

cu ’a stessa scopa ’mmano pe’ scupa’.

Comme a tutte nuje aute,

forze, ched’è, nun scopano

pure ’ncoppa “San Giacomo”

chille ca stanno llà?

Nuje pulezzammo ’e scale,

’e strate, ’e piazze ’e Napule,

lloro, cu ’a penna, scopano

’e sorde d’’a città.

Siente dint’ ’e discurse : “Scioperate!”

E va buono, d’accordo, sissignore.

Ma che vuo’ sciopera’ si l’assessore

nun ce fa caso si scupammo o no?

Nun è comme a muglierema che, a’ casa,

quann’io ce vaco cu sti bbracce rotte,

è capace ’e me di’ quase ogne notte:

- Ma comme, sulo ccà nun vuo’ scupa’?-

E io po’ che aggi’ a rispondere?

Me ’nquarto, me murtifico,

ma è sempe tutto inutile:

’a vita accussì va.

’E fforze nun me rejeno

’e fa chisti servizie.

Si a’ casa me sacrifico,

servo a ll’umanità.”

 

La poesia, dolcissima, parla del lavoro dell’operatore ecologico che tiene pulite le vie di Napoli con la sua scopa. Ha trovato lavoro grazie all’interessamento di una persona altolocata. Poi non può lamentarsi o chiedere aumenti perché per uno che lascerebbe molti altri sarebbero pronti a rimpiazzarlo: purtroppo la disoccupazione è tanta. Quindi è costretto a sottostare anche a coloro che dicono che non lavora abbastanza. Non riceve comprensione neanche in famiglia perché arriva sempre a casa stanco e non riesce ad assecondare i desideri di sua moglie. Ma una soddisfazione c’è. “Si a casa me sacrifico servo a ll’umanità” e , proprio oggi, alla luce dei problemi sorti con l’emergenza rifiuti non si può negare quanto sia importante e utile alla società il lavoro di chi rende pulito l’ambiente. Dignitosi e incisivi gli ultimi versi: “servo all’umanità”. [http://semialvento.-forumfree.net/?t=4781336]

 

Guaglione - 1931

Quanno pazziavo ô strummolo,

ô liscio, ’e ffiurelle,

a ciaccia, a mazza e pìvezo,

ô juoco d''e ffurmelle,

stevo ’int''a capa retena

’e figlie ’e bona mamma,

e me scurdavo ’o ssolito,

ca me murevo ’e famma.

E comme ce sfrenàvemo:

sempe chine ’e sudore!

'E mamme ce lavaveno

minute e quarte d'ore!

Giunchee fatte cu ’a canapa

'ntrezzata, pe’ fa’ a pprete;

sagliute ’ncopp'a ll'asteche,

p’annaria’ cumete;

po’ a mare ce menàvemo

spisso cu tutte ’e panne;

e ’ncuollo ce ’asciuttàvemo,

senza piglià malanne.

’E gguardie? sempe a sfotterle,

pe’ fa' secutatune;

ma ’e vvote ce afferravano

cu schiaffe e scuzzettune

e à casa ce purtavano:

Tu, pate, ll'hè ’a ’mparà!

E manco ’e figlie lloro

sapevano educà.

A dudece anne, a tridece,

tanta piezz’ ’e stucchiune:

ca niente maie capévamo

pecché sempe guagliune!

’A scola ce ’a salavamo

p’ ’arteteca e p’ ’a foia:

’o cchiù 'struvito, ’o massimo,

faceva ’a firma soia.

Po’ gruosse, senza studie,

senz'arte e senza parte,

fernevano pe' perderse:

femmene, vino, carte,

dichiaramente, appicceche;

e sciure ’e giuventù

scurdate ’int'a nu carcere,

senza puté ascì cchiù.

Pur’io pazziavo ô strummolo,

ô liscio, ê ffiurelle,

a ciaccia, a mazza e pìvezo,

ô juoco d’’e ffurmelle:

ma, a dudece anne, a tridece,

cu ’a famma e cu ’o ccapì,

dicette: - Nun pò essere:

sta vita ha da fernì.

Pigliaie nu sillabario:

Rafele mio, fa’ tu!

E me mettette a correre

cu A, E, I, O, U.

 

La poesia è del 1931. La lunga poesia di Raffaele Viviani sugli scugnizzi di strada mostra a quanti hanno ormai dimenticato i vecchi giochi che i ragazzi di strada facevano nelle vie di Napoli, quant’era allegra la vita nei vicoli. Tuttavia all’età della scuola media il nostro comincia a capire l’importanza dell’istruzione e che la retta via è quella dell’abbecedario e di imparare a scrivere e a leggere. [http://www.itgvanvitelli.it/testi/02_guaglione.htm]

 

Amicizia - 1931

Amicizia è n'acqua chiara,

cristallina, trasparente,

ca s'appanna dint'a niente

e pirciò ch'è cosa rara.

Cchiù 'amicizia è bella e cara,

cchiù se sporca facilmente:

'mmisturata 'a tanta gente

ca te lassa 'a vocca amara.

Chi 'a vo' limpida 'e durata,

nn' 'a sfruttasse pe' prufitto,

s' 'a tenesse, comm'è nata,

dint' 'o core. E llà, 'amicizia,

quanno 'o calculo sta zitto,

nun se sporca e nun s'avvizi

 

La poesia è un inno all’amicizia paragonata ad un’acqua chiara e cristallina da non utilizzare con spreco, senza calcolo alcuno. Il poeta la descrive con una freschezza in un sonetto dove il confronto tra l’amicizia e l’acqua è efficace e lascia senza fiato tanto è pertinente. Tenero il pensiero: se la vuoi duratura non la sfruttare per uno scopo personale, ma tienila così com’è nata nel cuore, solo così puoi coltivarla come una tenera piantina.

 

So’ Bammenella ΄copp’e Quartiere - 1915

So’ Bammenella ’e copp’e Quartiere

Pe tutta Napule faccio parlà

Quanno annascuse p’e vicule ’a sera

’ncopp’ ’o pianino me metto a ballà.

Veco a’ ’mbulanza, int’a niente m’ ’a squaglio!

E si m’afferra me torna a lassa’!

‘Ncopp’a’ quistura , si ’e vvote ce saglio,

è pe’ formalità.

Cu ’a bona maniera

Faccio cade’ ’o brigadiere,

piglio e lle vengo ’o mestiere:

dico ca ’o tengo ccà.

‘O zallo s’ ’o mmocca,

l’avota ’a capa e s’abbocca,

ma nun me tocca,

me n’ha da mannà.

Me fanno ridere certi perzone

Quanno me diceno: Penza pe tte!

Io faccio ’ammore cu ’o capo guaglione

 E spengo ’e llire p’ ’o fa’ cumpare’.

Sto sotto ’o debbeto, chisto è ’o destino :

ma c’è chi pava pirciò lassa fa’.

Tengo a nu bello guaglione vicino

Ca me fa rispettà!

Chi sta int’ ’o peccato

Ha da tene’ ’o nnamurato

Ch’appena dopo assucciato ,

s’ha da sapè appiccecà’.

E tutte ’e serate,

chillo m’accide’e mazzate!

Me vo’ nu bene sfrenato,

ma nun’o dà a parè!

Mo so’ tre mise ca’o tengo malato,

sacc’io che spenno pe farlo sanà!

Però ‘o dottore cu me s’è allummato,

pe senza niente m’ ’o faccio curà’.

E tene pure ’o mandato ’e cattura.

Presto ’a’mbulanza s’ ’o vene a piglià.

Io ll’aggio ditto: sta’ senza paura,

pe’ tte ce stongo io ccà!

Cu’a buona maniera

Faccio cadè ’ ’o brigadiere.

Isso have ’o canzo’ e scappà.

Pe’ mme’o’ssenziale

È quanno me vasa carnale.

Me fa scurda’ tutt’ ’o mmale ca me facette fa’!

 

La poesia è stata l’emblema della bellissima canzone che affronta il tema della prostituzione. La poesia scritta nel 1915 e composta originariamente sul motivo del valzer brune fu musicata in seguito dal poeta e inserita nella commedia Tuledo ’e notte.

Descrive la realtà di una donna costretta a vendere il proprio corpo perché innamorata dell’uomo che la sfrutta. Tutta la turpitudine del lavoro che è costretta a fare viene in un lampo dimenticato quando riceve i suoi baci appassionati. La chiusa, dolcissima, di una donna capace di amare, ma purtroppo schiava del sentimento più bello.

 

‘O malamente - 1914

E sissignore:

m’ha fatto piacere

ca t’he truvato a n’atu ’nnammurato!

Ma, pe’ favore,

almeno ‘int’ ’o quartiere,

nun fa’ accapi’ ca m’he licenziato,

si no t’aggi’ a sfriggia’

pe’ dignità

Pe’ me ‘a prigione

comme fosse nu casino

ca ce vaco a villeggia’.

Senza raggione,

na carriera ’e malandrino

nun m’ ’a pozzo ritarda’

pe’ fa’ ’ammore cu tte!

I dint’ a niente,

me sceglio a n’ata amante:

tengo ’a cinquanta femmene ’e riserva.

C’è l’avvenente,

ce sta l’affascinante;

e ognuna ’e cheste me facesse ’a serva,

p’ ’o sfizio ’e se vede’

vicino a me.

Sciurillo giallo,

che aggi’ a fa’, s’io songo bello?

Te ne vaje? Peggio pe’ tte!

Vutanno ’e spalle,

doppo n’uocchio a zennariello,

vide ’e femmene ’e cadè,

comm’ ’e carte ’a juca’

E pe’ favore

mi devi ritornare

’o fazzoletto ’e seta (sta tre llire!).

Certo un signore

Non se lo fa ridere.

Ma io me lo piglio poi per non sentire:

“ Ll’oggette, comme va,

nun s’ ‘e ffa da’?”

Rutto pe’ rutto:

damme pure ’e brillante’.

Certo fa brutto:

ma’ ’e riale ca te dette

nun t’ ’e pozzo rummane’.

L’aggi’ a ancora pava’.

 

Sulla stessa falsariga della precedente anche questa poesia scritta nel 1914 ci parla del “cattivo”. Il personaggio è uno sfruttatore da strapazzo Inserito in “Toledo di notte”. E’ indicativa di un tipo di mentalità fortunatamente desueta; secondo quest’ultima il guappo non poteva essere lasciato da una certa donna perché ci faceva una brutta figura. Da notare che “’Nnamurato” sta per protettore e non per innamorato. Si evince dal fatto che ha cinquanta femmine di riserva, tutte belle e gradevoli di aspetto.

 

'O muorto 'e famma - 1910

Si appiccio nu cerino ’nnanze ’a panza

se vede ’o ttrasparente ’areto ’e rine.

’A verità, parlanno cu crianza,

ce tengo sulo ll'acqua ’int’ ’e stentine.

 Ah! Sto debbole abbastanza.

Me saglie tutto ’o sanghe ’a parte ’a capa.

Mme veco ’e palummelle ’nnanze a ll'uocchie.

Pare ca ’a terra, ’a sotto, me s’ arape

e già sto scunucchianno ’int’ ’e ddenocchie.

Comm’è ppesante ’a vita!

Uh, mamma mia! aiutateme!

Mo moro! Gente! Gente!

No, m'è passato: è niente:

m’ ’o ffa primm’ ’e magna’.

Diceno: «Va te sfame ’int’ ’a taverna».

«E ’e sorde?» «Faie nu pigno».

«E che me ’mpigno?»

Io, si ’a miseria fosse na lucerna,

rappresentasse ’a parte d’ ’o lucigno.

 Pe’ me nun c'è risorsa!

Me vengo quacche oggetto? E che me danno?

Avarri’ ’a truva’ quacche amatore.

Ce sta sta sciassa, già se sta sfrangianno,

ma è sempe nu capetto d'autore.

 Papà spusaie cu chesta!

E i’ scapestrato, ’a sciupo,

ma è pe’ necessità:

pecchè n’ata sciammeria

mo nun m’ ’a pozzo fa'.

Ce sta n’amica mia ca mme vo’ bene:

e io mo m’ ’a sposo e ’a levo ’a miez’ ’a via.

’A voglio fa’ fà ’a vita d’ ’a signora:

nun ’mporta ca nun mangia a’ tratturia,

 nè a’ casa, nè all'otèl.

Ma, si nun magna, ’a faccio vesti’ bbona:

comme vest’io. E pare ca, addò jammo,

’a ggente sott’ ’o colpo se n'addona

ca simmo ’a marca ’e fabbrica d’ ’a famma:

 ’o stemma d’ ’a miseria.

Embè, tra ll’ati guaie,

’a notte è n’arruvina:

me sonno a Cuncettina

pe’ mme ferni’ ’e ’nguaia’.

 

La poesia, inserita in Santa Lucia Nova, descrive simpaticamente e con ironia la sensazione della fame e quindi della povertà. Tenerissimo il pensiero, in un frangente così particolare, di pensare a sposarsi con un’amica che gli vuol bene per farle fare “una vita da signora”! E complimenti per l’ottimismo!

 

La crisi - 1931

Dice ‘o pate: - Ma addò jammo?

Figlie mieie , ccà appena uscimmo,

 limitate, addò accustammo

so’ denare ca spennimmo.

Quatte passe, a riva’e mare,

si vulite, v’accuntento;

ma però a caccia’ denare,

nun c’è cchiù divertimento.

E si piglio ‘o tramme e ghiammo,

nun ve dico: e ghi’ e veni’:

simmo nove, addò arrivammo?

E pecchè nun voglio ascì?

Si trasimmo ‘a nu dulciere,

pe’ na pasta e nu cafè,

quanno e doppo , ‘o cammariere,

me svacanta nu gilè.

Pure ‘e cineme so’ care:

siimo nove, ‘e terze poste,

cinche e trenta e so’ denare:

ve mangiate ‘e ddote voste.

Nun ce sta ch’a ghi’ ô triato,

comme fanno tutta ‘a gente.

Ce spassammo ed è assodato:

nun pavammo ‘o riesto ‘e niente!

Songo amico ‘e nu cugnato

D’’o ‘mpresario d’’o “Russini”,

e conosco pure ‘o frate

d’’o custode d’’o “Bellini”.

Addò jammo, ce razziammo,

E addù chisto e addù chill’ato:

sempe a scoppole passammo .

Quacche vota aggio pavato?

O triato nun se paga

s’have gratis ‘o biglietto.

E ‘na piaga che dilaga:

Potrei avere ‘nu palchetto?

E cu’o capo d’’a famiglia

Uno passa ‘a voce a n’ato,

e ogneduno cerca e piglia

‘n’amicizia a nu triato.

E na sfera sbafa ô “Nuovo”,

n’ata sera ô “Mercadante”.

Ce vulesse ‘nu rirtrovo

Comme ‘o llargo a piazza Dante.

Vide ‘a ggente, ma ‘a cascetta

Te fa pena d’’a guardà.

C’è una crisi maledetta.

Ccà nisciuno vo’ pava’.

 

La poesia attualissima ancora oggi , così come può essere attuale in ogni periodo di crisi, affronta il problema dei pochi soldi e dei molti bisogni. Praticamente pare che non si possa fare nessuna cosa per distrarsi tranne passeggiare in riva al mare senza entrare in nessun bar. Simpatica la trovata di andare a teatro senza pagare il biglietto ingraziandosi l’impresario o il custode. La poesia induce a spunti di riflessione sui tempi che corrono e le difficoltà materiali della vita.

Bibliografia

  • Raffaele Viviani, Poesie, Napoli, Guida editori, 1974


E. A. Mario

L’autore

«E.A. Mario, il cui vero nome era Giovanni Gaeta, nacque a Napoli il 5 maggio del 1884, al vico Tuttisanti nel popoloso quartiere Vicaria. Le condizioni precarie della famiglia, il padre era barbiere, sembravano precludergli gli studi. Nonostante, però, egli lavorasse come garzone nella bottega del padre, riuscì a conseguire la licenza elementare, ma, in seguito, per le ristrettezze economiche della famiglia, abbandonò la frequenza dell’Istituto Nautico. All'età di quindici anni, Giovannino lasciò la bottega paterna e s'impiegò come postino in un ufficio postale di piazza Garibaldi. Segretamente, però, cominciava a strimpellare ed a scrivere versi, nonché a scrivere articoletti sui giornali, finché un giorno non ebbe un incontro che gli cambiò letteralmente la vita. Era il 1904, Giovanni aveva solo vent’anni, nel suo ufficio postale capitò l’illustre maestro Segré al quale tentò di consegnare una lirica. Il tentativo andò a vuoto. Ma il giorno dopo gli consegnò i versi di Cara Mammà; Segré, entusiasta, li pubblicò. Giovanni Gaeta, però, non volle firmarla col suo nome e scelse lo pseudonimo di E. (iniziale di Ermes come si firmava al giornale), A. (iniziale di Alessandro, redattore capo del suo giornale) e Mario (nome di una scrittrice polacca che dirigeva il giornale Il Ventesimo). Dopo alcune canzoni musicate da altri, E.A. Mario decise di musicarle in proprio e nacquero così: Maggio, si' tu, Funtana all'ombra e Io’na chitarra e ’a luna. Al grande pubblico nazionale, E.A. Mario, regalò La leggenda del Piave. Giovanni divenne anche editore di se stesso e ogni anno pubblicava un fascicolo di articoli intrisi di polemiche, contro tutto e tutti. La morte lo colse il 24 giugno 1961. Nel 1984, primo centenario della sua morte, Mario Gili ha pubblicato, in una serie limitata di mille esemplari, la raccolta Funtane e funtanelle, poesie inedite che E.A. Mario affidò a Ottavio Nicolardi, figlio di Edoardo e suo genero, poco prima di morire.

Così lo ricorda l’amico Roberto Esposito:

«E.A. Mario assunse tale pseudonimo in onore e ricordo del patriota e scrittore Alberto Mario, uno dei Mille. Dà una lettura differente Max Vajro che a tal proposito dice che la "A" fu presa dal nome di Alessandro Sacheri, direttore del giornale II lavoro che era un suo protettore e che gli permise di collaborare nel giornale. Mario invece gli venne dallo pseudonimo col quale la poetessa slava Maria Clarvy firmava le sue apparizioni nello stesso giornale II lavoro. Era talmente affezionato al suo pseudonimo che la sua dolce moglie lo chiamò sempre "Mario" a guisa di nome. L'arte di scrivere versi e la collaborazione col giornale non gli consentivano un reddito adeguato e pertanto s'impiegò alle Poste, il cui stipendio lo metteva al sicuro per il quotidiano. Tramite il suo "ufficio" conobbe il Maestro Segrè: ne nacque una collaborazione che sfociò nella sua prima canzone Cara Mammà. Tutte le sue poesie erano frutto di una sorprendente vena melodica e siccome non aveva mai frequentato un conservatorio, riusciva con l'aiuto del suo fidatissimo mandolino a creare tante canzoni che sono ancora oggi fra le più belle e più colte, di cui, a volte ne era anche l'appassionato esecutore canoro. Mentre lavorava come impiegato postale, pubblicò numerose raccolte di versi e novelle. Raggiunse la fama grazie a canzoni come Io, ’na chitarra e ’a luna, Ladra, Vipera, Santa Lucia Luntana, Le rose rosse, Balocchi e profumi, Tammunata nera, Duie paravise, Funtana all'ombra, Canzona appassiunata, Presentimento, Maggio si’ tu e tante altre ancora. Legò il suo nome alla canzone patriottica La leggenda del Piave della quale fu anche primo interprete, immortalando quei tragici momenti della guerra 1915-1918.

Ho conosciuto personalmente il Comm. Mario, perché frequentava il salotto Phonotype dove incontrava i maestri Tagliaferri e Giannini, i quali si prestavano a trascrivergli le canzoni da lui fischiate o suonate sul mandolino. In particolare ricordo la nascita delle canzoni ’O vascio e Tammuriata nera. E.A. Mario fin dall’infanzia fu grande amico di mio padre Americo Esposito, fondatore della Phonotype Record, ma fra loro non riuscì mai a concretizzarsi un rapporto confidenziale e per tutta la vita lui e mio padre si dettero sempre del "Voi", in segno di stima e rispetto. Ricordo con tanto affetto quando, in occasione dei funerali per la morte di mio padre; prese la parola con la mano tenuta sulla bara e le sue prime parole furono: "Consentimi Amerì in questo triste momento di darti del tu per dichiararti tutto l'affetto, la stima ed il rispetto che ci ha uniti fino ad ieri quando moristi lasciando affranta tua moglie e nove figli…

Aniello Costagliola, giornalista e poeta d’una rara acutezza, cosi definì Giovanni Gaeta: "II signor tutto della canzone napoletana, poeta, musicista, editore e spesso esecutore deliziosissimo delle cose sue".[…]».

Il poeta nel ricordo della figlia Bruna Catalano Gaeta:

«Mio padre E.A. Mario (al secolo Giovanni Gaeta) figlio di genitori salernitani, fu un personaggio di rilievo, dotato di una straordinaria intelligenza che si evidenzia per la poliedricità della sua vasta e profonda cultura letteraria, poetica, storica e musicale. La sua creatività era immediata, impulsiva, spontanea ed estremamente sincera, una sincerità senza limiti ed una generosità senza barriere. Autodidatta (per necessità economiche) fece leva sulla sua voglia di conoscere, di ricercare, di capire, di indagare, di appropriarsi insomma di tutto ciò che lo incuriosiva, lo allettava, lo affascinava. Facendo leva sui ricordi della mia lontanissima adolescenza, mi accorgevo che quando papà, caratterialmente allegro, era irretito da uno stimolo creativo, trasformava l’espressione del suo volto, che acquisiva un aspetto quasi ascetico, i suoi begli occhi color d’oro, assumevano uno sguardo più intenso, mentre il suo recondito pensiero poetico o musicale, o tutt’insieme lo estraniava dagli altri e poi, con immediatezza d’artista, trasferiva sulla carta le sue emozioni, realizzandole in poesie, canzoni e quant’altro il suo estro gli suggeriva. Per conversa, e con la stessa nobiltà d’animo, era innata in lui una grande umiltà, forse perché tutte quelle potenzialità di cui era dotato le considerava assolutamente normali, ma da custodirle con amore, senza inorgoglirsi come la sua dignità gli suggeriva. Di carattere gioviale e scherzoso, attirava intorno a sé ammirazione e simpatia, ed era tipico quel suo sorriso che gl’illuminava il volto. Rotondo ed anche la sua risata spontanea e coinvolgente. Purtroppo non gli fu risparmiata l’ingratitudine e peggio ancora, l’invidia, che dilagò apertamente tra coloro che “navigavano nelle stesse acque”, cioè i canzonieri, poeti anch’essi affermati o musicisti anch’essi acclamati, di cui gli uni avevano bisogno degli altri per far canzoni, mentre papà realizzava tutto da solo, musica e poesia. E per queste ragioni papà fu costretto a difendersi, affidando alla sua penna, così scorrevole nell’arte poetica e letteraria, a diventare una lancia in testa per difendersi da malcelate malelingue perché era un uomo d’onore e non ammetteva l’insulto. Per questo fu tacciato “uomo polemico” con un cattivo carattere, espressioni parecchio azzardate se si pensa che egli non fu mai un opportunista, non ebbe mai un influente protettore e non fu nemmeno “un figlio di papà” per poter sfruttare una nascita privilegiata.[…] Umorista sottile, mordace, umano, ironico, cogliendo, per le sue contraddizioni che la vita stessa ci pone innanzi, elementi di comicità e…sottofondi drammatici.». [http://www.librerianeapolis.it/pages/AudioVideo/-EA_Mario.html - http://www.prato.linux.it/~lmasetti/antiwarsongs/do_search.php?lang=-it&idartista=584&stesso=1 - Ettore De Mura, Poeti napoletani dal Seicento ad oggi,1989]

Poesie scelte

 

Santa Lucia luntana

Partono ’e bastimente

pe’ terre assaje luntane...

Cántano a buordo:

so’ Napulitane!

Cantano pe’ tramente

’o golfo giá scumpare,

e ’a luna, ’a miez’ ’o mare,

nu poco ’e Napule

lle fa vedé...

Santa Lucia!

Luntano ’a te,

quanta malincunia!

Se gira ’o munno sano,

se va a cercá furtuna...

ma, quanno sponta ’a luna,

luntano ’a Napule

nun se po’ stá!

E sònano...Ma ’e mmane

trèmmano ’ncopp’ ’e ccorde...

Quanta ricorde, ahimmé,

quanta ricorde...

E ’o core nun ’o sane

nemmeno cu ’e ccanzone:

Sentenno voce e suone,

se mette a chiagnere

ca vo’ turná...

Santa Lucia,

Luntano ’a te,

quanta malincunia!

Se gira ’o munno sano,

se va a cercá furtuna...

ma, quanno sponta ’a luna,

luntano ’a Napule

nun se po’ stá!

Santa Lucia, tu tiene

sulo nu poco ’e mare...

ma, cchiù luntana staje,

cchiù bella pare...

È ’o canto d’ ’e Ssirene

ca tesse ancora ’e rrezze!

Core nun vo’ ricchezze:

si è nato ’a Napule,

ce vo’ murí!

Santa Lucia,

Luntano ’a te,

quanta malincunia!

Se gira ’o munno sano,

se va a cercá furtuna...

ma, quanno sponta ’a luna,

luntano ’a Napule

nun se po’ stá!

Questi versi, scritti nel 1919, diventati poi una delle più famose canzoni napoletane, trattano il tema dell’emigrazione, di chi è andato via da Napoli per cercare lavoro, argomento sempre attuale. Nella lirica intrisa di malinconia due sono le tematiche: l’incertezza del domani e la nostalgia per Napoli che si fondono e danno vita a momenti di elevato vigore poetico. [http://www.sorrentoradio.com/prova/testinapoli/DOC422.HTM]

 

Nisida

Nìsida è ’n’isola, nu scoglio

Ca tene ll’acqua tuorno tuorno,

scoglio ca tene albere e case:

cose addò stanno ll’abitante:

e ce so’ stato ’e galiote

ca ’e ccundannaino a sta’ ‘a spartata,

comme si nuje fòssemo ‘e buone

e lloro, invece, ‘e malamente…

Ma, si nun sbaglio, ‘a terra intera

Sta mmiezo a ll’acqua : e quann’è chesto,

nuje simmo tutte galiote?

Va trova ‘a chi, ma condannate

Nuje simmo tuttequante, e ‘a terra

Chest’è: na Nitida cchiù grossa!

 

Nisida è un bel sonetto di E A Mario che fa vedere in una luce diversa i carcerati di Nisida. Nisida è uno scoglio circondato dal mare come la terra. A Nisida ci sono detenuti in isolamento ma, tutta la terra è un’isola come Nisida e allora il poeta chiede: noi siamo tutti detenuti? Si, siamo tutti detenuti e la terra non è altro che una Nisida più grande!

Efficace e prorompente la chiusa rende tutto il sonetto estremamente gradevole e affronta il tema della solidarietà sociale verso i carcerati. [E. A. Mario, Pampuglie, Napoli 1951]

 

Tammurriata nera

Je nun capisco ’e vote che succede

e chello ca se vede nun se crere nun se crere

È nato nu criaturo è nato niro

e a mamma ’o chiamma ggiro sissignore ’o chiamma ggiro

Se vota e gira se

se gira e vota se

ca tu ’o chiamme ciccio ’o ’ntuono

ca tu ’o chiamme peppe ’o ggiro

chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè

’O contano e cummare chist’ affare

sti case nun so rare se ne vereno a migliare

E vote basta sulo na uardata

e ’a femmena è remmasta sott’ ’a bbotta ’mpressiunata.

Se na uardata se

se na ’mpressione se

va truvanne mo’ chi è stato

c’ha cugliuto bbuono ’o tiro

chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’ ’a chè.

E ddice ’o parulano embè parlamme

Pecchè si arraggiunamme chisti fatte ’nce spiegamme

Addò pastena ’o grano ’o grano cresce

riesce o nun riesce sempe è grano chello ch’esce.

Sè dillo a mamma sè

sè dillo pure a me

conta ’o fatto comm’ è gghiuto

si fuje ciccio ’ntuono o ggiro

chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè.

E ssignurine ’e Caporichino

fann’ammore cu ’e marrucchine

’e marrucchine se vottano ’e lanze

’e ssignurine cu ’e panze ’nnanze.

Amerivan express

damme ’o dollaro ca vaco ’e pressa

ca sinnò vene ’a pulis

mett’ ’e mmane arò vò isso.

Ajere ssera a piazza dante

’a panza mia era vacante

si nunn’era po’ contrabbando

je mo’ ggià stevo ’o campusanto.

E llevate ’a pistuddà

e llevate ’a pistuddà

cu chisti pacch’nmane

e llevate ’a pistuddà. (2 volte)

Sigarette babà

caramelle mammà

fischiette bambino

e dduje dollare ’e ssignurine.

A cuncetta e nanninella

lle piacevano ’e caramelle

mo’ s’appresentano pe’ zetelle

vanno a fernì ‘ncopp’ ’e burdelle.

E ssignurine napulitane

fanno ’e figlie’ ’e ’mericane

’nce verimme ogge e dimane

’nmiezo porta capuana.

E cercillo ’o viecchio pazzo

s’è vennuto ’e matarazze

e l’america pè dispietto

’nc’ha scippato ’e pile ’a pietto.

Ajere ssera magniaje pellecchie

’e capille ’ncopp’e ’rrecchie

’e capille ’e capille

e ’o ricotto ’e cammumilla

’o ricotto ’o ricotto

e ’a fresella cu ’a carnacotta

’a presella ’a fresella

e zì monaco tene ’a zella

tene ’a zella ’nnanze e arreto

uffa uffa e comme fete

elle fete ’e cane muorto

uè pe’ ll’anema ’e chillemmuorto.

E llevate ’a pistuddà

e llevate ’a pistuddà

cu chisti pacch’nmane

e llevate ’a pistuddà. (a finire)

 

La poesia canzone scritta nel 1946 da Nicolardi su musica di E.A. Mario, Tammurriata nera è un canto popolare che racconta lo stupore della gente per un evento insolito per i tempi ispirato a un fatto di cronaca, la nascita di un bambino nero da una donna napoletana. L'episodio, commentato in modo esplicito con l'opinione del popolo, è la saggia constatazione di un ortolano che quando si semina il grano sempre grano cresce e testimonia ciò che accadeva sotto l'occupazione militare degli alleati americani.

Pur non venendo nominato, il tema di fondo è la guerra: senza di essa non si sarebbero verificati episodi di nascita di bimbi di colore, cosa che a quell’epoca sorprendeva non poco. A questo si aggiunge il tema non meno incisivo dell’evoluzione dei costumi e quindi della società. Oggi con l’immigrazione è più possibile che le razze si mescolino e che la nascita di un bimbo di colore non faccia più notizia. Roberto Murolo incluse Tammurriata nera nella sua antologia della canzone napoletana e la canzone apparve nella colonna sonora di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Riproposta nel 1974 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, il brano raggiunse una buona posizione nelle classifiche di quell'anno.

Si segnala che questa canzone è l’unica da noi riportata di cui E.A. Mario ha composto la musica e non i versi. [http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=musica&scheda=can-zone_murolo_tammurriata]

Bibliografia


Luciano Somma

L’autore

«Luciano Somma è nato a Napoli il 18 marzo 1940. Centinaia i premi ottenuti, numerosissimi primi premi assoluti, due volte medaglia d'argento del Presidente della Repubblica. Inserito in moltissime antologie, anche scolastiche, e nella prestigiosa Nati per la vita stampata in Russia dall'edizione Raduca di Mosca dove figurano firme come Quasimodo, Pasolini, Saba, Bevilacqua, De Filippo. Iscritto all'albo dei giornalisti nell'elenco speciale, ha pubblicato e pubblica sui periodici e sui quotidiani più importanti d'Italia (oltre 150 testate). Paroliere iscritto alla S.I.A.E., dal 1967 ha all'attivo oltre 500 canzoni edite o incise. Dal 1976 al 1990 ha condotto rubriche di poesie e canzoni in diverse emittenti private e televisive. Per un paio di anni ha collaborato, con rubriche varie, con Tele5 Napoli. Nonostante studi irregolari, nel 1987 gli è stata conferita la Laurea Honoris Causa in Lettere e Filosofia per chiari meriti letterari. È presente in un numero imprecisato di siti web, diversi giornali e periodici lo indicano come il poeta più presente on line. Il suo nome figura, tra l'altro, in antologie come: Dizionario storico dei poeti italiani, Poetica napoletana del Novecento, La poesia a Napoli, Natale napulitano. È presente dal primo anno nell'Agenda dei Poeti (Edizioni OTMA di Milano). Ha partecipato, e partecipa, in veste di giurato, a moltissimi concorsi di poesia e narrativa. Nell'ottobre del 2005 è stato ospite in RAI2, nella rubrica Non è mai troppo tardi.

Ha pubblicato: Ddoje voce ’e Napule (Ed.La Commerciale, Napoli 1968), La mia ricchezza (Ed. L’Araldo del Sud, Napoli 1971 - Ed. www.ricordati.com 2001, eBook), Dimane (Ed. degli Artisti, Napoli 1977-1978, I e II edizione), N’atu dimane (Ed. Del Delfino, Napoli 1982), ’E ggranate (Ed. Terre, Napoli 1990), Musica nuova (Ed. Lo Stiletto, Napoli1993), Momenti di versi (Ed. Montedit, Melegnano1997 - Ed. www.ricordati.com 2001, ediz. telematica), Memorie d’alba (Ed. Otma, Milano1999), Brividi di ricordi (Ed. Oceano, San Remo 2000, I ediz. - Ed. Di Salvo, Napoli 2000, II ediz.), Cristo napulitano (Ed. Oceano, San Remo 2000, I ediz. - Ed. I Miei colori, Pontassieve 2000, II ediz. - Ed. Inediti, 2001 – eBook), Il pianeta dei silenzi (Ed. Inediti, 2001 – eBook), Ll’appuntamento (Ed. www.ricordati.com 2001, eBook), Immagini (Ed. Menna, Avellino 2001), L'alba di domani (Ed. I Miei Colori, Pontassieve 2003, e-Book - Ed. Noialtri, Pellegrino 2005 conCD), Omaggio a Napoli (CD con 11 poesie napoletane recitate da Antonio Mencarini».

Il poeta si racconta:

«Mi sono avvicinato alla poesia all'età di 13 anni, per la verità i primi lavori erano testi per canzoni (in seguito comunque sono diventato autore di testi di oltre 2000 brani di ogni genere) ed ho iniziato a collaborare con riviste e giornali qualche anno dopo.

Per me la poesia è una linfa vitale, uno degli scopi principali della mia vita, scrivo sia in lingua che in napoletano, per quest'ultimo sento un predilezione poichè rappresenta la mia lingua madre.

Ritengo inutile elencare i numerosi premi vinti poichè il lettore attraverso i miei scritti potrà rilevare la moltitudine di tematiche scritte in oltre 50 anni di attività, e da essi potrà stabilire se la mia presenza poetica è giustificata, o meno, dalla validità di ciò che ho prodotto.

Qualcuno può pensare, nel leggere i miei versi, che alcuni siano autobiografici ma debbo puntualizzare che invece la maggior parte sono stati ispirati da situazioni ambientali e/o familiari (non mie) che mi hanno colpito e che ho messo su carta tanti anni fa a penna, poi con la macchina da scrivere ed oggi col PC.

Ritengo internet uno dei maggiori traguardi che ha raggiunto oggi la tecnologia e che riesce a far conoscere al mondo cose che fino ad un decennio fa sarebbero state impensabli.

Concludo con uno dei miei aforisma (scrivo anche quelli) nel quale maggiormente identifico la mia attività letteraria ed artistica. "Per giustificare la propria incapacità l'alibi del fallito è la sfortuna"»

 

’O surdo e ’a cecata

E cammenammo p’ ’e strade d’ ’o munno

mane ’int’ ’e mmane, comme ’int’a nu suonno,

nuie simme nate: io surdo e tu cecata

però cu nuie ’a sciorta nun è ’ngrata.

Veco sulo pe’ tte, tu pe’ mme siente

e ce vulimmo bbene overamente

pecch'è sincero chistu sentimento

ch'ha saputo da' tutto dint'a niente.

Pure si tu me siente e nun me vide,

e parle mentre io veco e nun te sento,

io sento mille voce ’int’ ’o silenzio

tu vide ’a luce ’int’ all'oscurità.

 

La poesia tratta dalla raccolta Dimane pone l’accento sul tema della disabilità sensoriale: s’incontrano un sordo e una cieca che, pienamente consapevoli delle loro difficoltà, ritengono che la vita non sia stata ingrata con loro: la loro difficoltà si compensa a vicenda con il loro amore e li ripaga di ogni difficoltà.

La tematica della solidarietà sociale si impone in questa poesia come il desiderio di aiutarsi l’un l’altro. [http://www.novamedia.it/sienall/luciano/amorena.htm]

 

Faccella nera

’O juorno, tutte ’e juorne,

vicino a nu semaforo staje là,

’mmiscanno ’a famma toja cu’ chesta famma,

dicenno, cchiù ’e na vota, vu’ cumprà?

Chisà ’a qua parte d’Africa tu viene,

pizzo d’ ’o munno povero e stramano,

cu’ n’atu Dio, cu’ n’ata tradizione,

cu’ l’uocchie fute e na faccella nera.

Staje là ch’aspiette

vide ’e passà migliare d’automobbile

pienze ca simme ricche ma nun saje

che dint’a sta rammera ce stà ggente

ch’adda fa ’e zumpe, ogn’ora e ogni mumento,

pe’ cercà ’a strada pe’ tirà a campà?

Nun stive meglio dint’ ’a terra toja?

Che sarrà avara, che sarrà matregna,

che sarrà triste quanno scenne ’a sera

ma quanno è l’alba ’o sole ’nfoca ancoraù

appiccianno ’a speranza ’e nu dimane.

No, rieste llà,

dint’a chesta città che stà chiagnenno

’a secule cu’ ’e llacreme ’e na mamma

che chiagne pecché nun po’ sfamà ’e figlie

ca comme a tte se ne so’ ghiute fore

ca comme a tte forze stenneno ’a mano

chisà ’int’a quà paese furastiere

cu’ ’a faccia janca ma cu’ ’a sciorta nera

cchiù nera d’’a faccella ca tu tiene

pecché ’a miseria nun tene culore

nun tene razza o patria, è senza core!

 

La poesia è tratta dalla raccolta Cristo Napulitano e, nell’ambito della solidarietà sociale verso i bisognosi, ripropone la tematica dell’immigrazione. La faccia nera dell’immigrato che al semaforo chiede l’elemosina in un luogo che è già avaro di lavoro con i propri figli è la stessa faccia dei tanti napoletani che hanno lasciato la loro città in cerca di miglior sorte e hanno conosciuto la sofferenza e la miseria in terre lontane. [http://www.modulazioni.-it/Salotto/Poesia/luciano-somma_cristonapulitano.htm]

 

Cronaca

E tutt’ ’e juorne ’a stessa tiritera

sulo disgrazie maje nutizie allere

uommene accise spisso a tradimento

senza pietà, senz’ombra ’e pentimento.

’A droga, ’o cuntrabbando, l’estorsione,

s’allargano pe’ tutt’ ’e vvie d’’o munno

pe’ tutt’ ’e rrazze e tutt’ ’e rreliggione,

l’umanità scenne sempe cchiù ’nfunno.

Qua’ Pasca, qua’ Natale cà è n’inferno

manche dint’ ’e cunviente ce stà ’a pace

chisà che sta facenno ’o Pataterno

vurria saperlo pe’ mme fa capace.

Ma forze nun ci’azzecca simme nuje

c’avimmo perzo ’o bbene d’ ’a cuscienza

’mpietto tenimmo ’o ffele ca ce struie

e ’a ’mmeritammo chesta sufferenza.

’A vita è dono ’e Dio diceva ’o nonno,

povero viecchio comme se sbagliava,

chesti criature d’ogge comme ponno

campà comme na vota se campava.

Ogge chesto àdda scrivere ’o pueta

senza truvà nè pace nè arricietto

si guarda annanze e si s’avota areto

nun po’ truvà nisciuno atu suggetto.

‘Ncopp’a nu foglio ’e carta ’nfuso ’e chianto

mette ’a cronaca d’ogge pecché è storia

’e chisti vierze nun se ne fa vanto

so’ sultanto parole senza gloria!

 

La poesia tratta dalla raccolta Cristo Napulitano ci parla di assassini, estorsioni, orrori e brutture di ogni genere. Il poeta si chiede come si possa oggi vivere come si faceva una volta, quando, come diceva il vecchio nonno, la vita era considerata un dono di Dio. Questo scrive il poeta, e la realtà è così cruda che dei versi che la raccontano non ci si può vantare. [http://www.modulazioni.it/Salotto/Poesia/luciano-somma_cristo-napulitano.htm]

 

Barboni

Te li ritrovi all'angolo

laceri e macilenti

ombre negli occhi stanchi

su facce senza età,

le mani tremolanti

tese verso i passanti

cercano carità,

fermati se lo vuoi

forse così potresti

leggere nel passato

vite vissute ai margini

di questa società.

Ancora li ritrovi alla stazione

tra i binari dei treni

o nelle sale d'attesa

seduti sotto la biglietteria

ad aspettar probabili monete

date da viaggiatori frettolosi

che osservano nervosi e preoccupati

tutti gli orari della ferrovia...

Loro non hanno fretta

e li ritrovi

a scartocciare pasti sempre asciutti

tra una bottiglia e l'altra

la cicca tra le labbra screpolate

nell'incomunicabile silenzio...

Se resti indifferente,

fingendo d'ignorarli,

guardati per un attimo allo specchio

e ti ritrovi.

 

Nella raccolta Momenti di versi l’immagine del barbone misero, affamato e alla ricerca di cibo è un’immagine troppo presente a noi tutti. Ogni tanto, dice il poeta, dovremo fermarci e ascoltare nel nostro incomunicabile mondo il loro mondo e non restare indifferenti: basta guardare dentro sé e ti ritrovi.

Il tema dell’incomunicabilità e dell’emarginazione per cui si invoca la solidarietà sociale è affrontato dal poeta con la consapevolezza dell’uomo moderno che tende a fuggire troppo spesso anche da se stesso. [http://www.domist.net/X353SOMMAbarboni.htm]

Bibliografia


Si ringrazia la sig.ra Maria Rosaria Capasso di aver messo a disposizione de Il Portale del Sud il testo con cui è stata allestita la presente pagina. Ottobre 2008.

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