Premessa
Tra il 1889 ed il 1893 nell’ancor giovane Stato unitario, si assiste
al fallimento di alcune importanti banche, che degenerò in una crisi
della moralità politica su vasta scala, facendo cadere il primo
Governo Crispi e mettendo a rischio l'ascesa politica di
Giolitti. La corruzione era diffusa principalmente nel circuito
perverso che legava insieme politica, affari e banche.
Le premesse di questa grave crisi finanziaria sono da ricercare
nella tumultuosa fase di urbanizzazione che ebbe luogo a seguito del
trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1866) e poi a Roma
[1]
(1870) e nell’eccesso di finanziamenti concessi al settore
edilizio, un po’ in tutta Italia, che si sommavano a quanto concesso
ai politici per le campagne elettorali. In tal modo, le banche non
solo tradivano la sana logica economica di investire le risorse nei
migliori progetti, ma commettevano abusi e si esponevano al rischio
di fallimento.
Dopo la unificazione del Regno, il governo non aveva unificato gli
istituti di emissione. Ben sei erano le banche autorizzate a
stampare moneta: la Banca Nazionale, la Banca Romana, il Banco di
Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca
Toscana di Credito. Con una legge del 1874 si cercò di regolamentare
le emissioni, ma le banche continuavano a farsi concorrenza tra loro
e la vigilanza era completamente assente. La Banca Nazionale, ad
esempio, avvalendosi dell'abolizione delle restrizioni sul credito,
varate da Crispi nel 1883, aumentò la sua circolazione di
carta-moneta, riducendo le sue riserve ad un terzo del totale. La
cosa non poteva durare a lungo e già all'inizio del 1889 le banche
cominciano a dare i primi segni di tracollo finanziario. Non furono
più in grado di far fronte ai propri impegni ed alcune banche
sospesero i pagamenti. Il presidente del Consiglio Crispi intervenne
per salvare la Banca Tiberina, finanziatrice di diversi lavori
pubblici, con un prestito di 45 milioni di lire: non fu l'unica
azione di Crispi, che anzi intervenne ripetutamente, generando una
spirale inflazionista.
Lo scandalo della Banca Romana
Quando i primi fallimenti bancari del 1889 affiorarono, si sparse
voce che nei conti della Banca Romana, erede dell’istituto di
credito dell’ex Stato Pontificio, vi erano gravi irregolarità, il
Ministro Miceli promosse una commissione d'inchiesta privata,
presieduta dal senatore Giuseppe Alvisi, incaricata di stabilire se
e quali banche avessero emesso una circolazione superiore a quella
consentita per legge dalle loro riserve. La commissione riscontrò un
disavanzo di nove milioni di lire, che fu “miracolosamente”
reintegrato il giorno successivo e spiegato con l' "imperizia" degli
inquirenti. Il Governo Di Rudinì 1° tuttavia si oppose a che Alvisi
riferisse in Senato i risultati dell'ispezione, "in nome dei supremi
interessi del paese e della patria". La relazione e le irregolarità
rilevate, non furono perciò pubblicate e in sua vece venne diffusa
una dichiarazione ufficiale rassicurante nel tentativo di spegnere
le polemiche e tranquillizzare gli animi. In fondo si trattava solo
di “birichinate”!
[2]
|
Luigi Miceli (immagine tratta da
www.chieracostui.com) |
Quello che si voleva insabbiare era l’operato del governatore della
Banca Romana, Bernardo Tanlongo
[3],
una persona dal passato poco limpido che aveva già partecipato a
diversi tentativi di corruzione verso il papato all'epoca di Cavour
e che, sul finire degli anni 80, decise di coprire i vuoti di cassa
emettendo biglietti falsi. Tali vuoti di cassa non erano frutto di
cattiva amministrazione, ma di irregolarità come i prestiti concessi
a deputati, ministri e costruttori, senza interessi ed a fondo
perduto. Le banche esercitavano dunque una grandissima influenza
sulla politica e la politica forniva loro copertura. Il banco di
Napoli, ad esempio, aveva contratto debiti per circa venti milioni
di lire molti dei quali a fronte di operazioni di corruzione
politica.
Come accennato, la commissione Alvisi aveva scoperto che per la
Banca Romana la circolazione eccedeva di 25 milioni quella
autorizzata dalla legge e che la banca aveva fatto stampare
clandestinamente 9 milioni di biglietti, in tagli da duecento lire,
per coprire un vuoto di cassa ed un numero considerevole di crediti
irrecuperabili. La relazione venne fatta sparire, ma sarebbe stato
opportuno quanto meno aumentare la vigilanza e chiedere le
dimissioni di Tanlongo. Che fece invece Giolitti, divenuto nel 1892
presidente del Consiglio? Nominò Tanlongo senatore![4]
Perché? Il motivo più probabile è che Tanlongo avesse elargito
prestiti e finanziamenti a una buona parte della classe politica,
compresi Giolitti, Crispi e lo stesso re Umberto, e quindi fosse in
grado di ricattarli.
Ma la bonaccia durò poco. La relazione Alvisi, alla morte di questo,
finì nelle mani di un giovane economista romano, Maffeo Pantaleoni e
di un deputato repubblicano siciliano, Napoleone Colajanni. Lo
scandalo, da quel momento, sfuggì al controllo del governo e rivelò
una situazione ancora più disastrosa: i biglietti clandestini
ammontavano a settanta milioni di lire, e la Banca ne aveva ordinati
altri quaranta a uno stampatore di Londra. Inoltre le casseforti
erano piene di cambiali in sofferenza. Tanlongo e il suo tesoriere
Cesare Lazzaroni (nomen omen) furono arrestati il 13 gennaio 1892
per peculato e falso in atto pubblico.[5]
Anche il direttore del
Banco di Napoli Vincenzo Cuccinello che era scappato lasciando
un ammanco di cassa di 2.400.000 lire, una bazzecola a confronto, fu
arrestato il 22 gennaio, ed emersero anche gravi irregolarità
commesse dal Banco di Sicilia di Palermo, il cui direttore generale
Giulio Benso Sammartino fu accusato di aver usato fondi per scopi
privati.
Ad accusare il direttore in carica è l'ex direttore dello stesso
Banco, il Senatore Emanuele Notarbartolo, che come vedremo, sarà
assassinato pochi giorni dopo, il 1° di febbraio 1892.
Il Governo tuttavia riuscì a insabbiare nuovamente la questione,
istituendo una commissione governativa, ma la sfiducia ormai era
generale e si rifletteva nel cattivo andamento di industria ed
edilizia o di banche, come il Credito Mobiliare, costretto a
sospendere i pagamenti per carenza di capitali. Alla fine del 1893
Giolitti, obtorto collo, dovette consentire l'istituzione di una
terza commissione, questa volta parlamentare, presieduta da Mordini
ed incaricata di fare luce sulle implicazioni politiche che man mano
erano emerse.
L'inchiesta del 1894 (come quelle di oggi) si concluse con il
proscioglimento degli imputati. Per evitare che l'inchiesta
travolgesse uomini di spicco della politica italiana, i giudici,
nella sentenza, denunciarono la sparizione di importanti documenti,
necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento
penale venne quindi archiviato senza emettere alcuna condanna.
Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, furono, per parecchi anni,
oggetto di sospetti, inchieste parlamentari, indagini giudiziarie.
Vi fu persino un momento, alla fine del 1894, che Giolitti, per
sottrarsi a un possibile arresto, decise di rifugiarsi in Germania
per un mese e mezzo. Nel bel mezzo della crisi, tuttavia, Giolitti
aveva trovato la soluzione del problema. Nell’estate del 1893 fece
approvare dalla Camera una legge che prevedeva la fusione delle
principali banche di emissione e trasformava la Banca Nazionale, di
fatto, in Istituto centrale
[6]-[7].
Emanuele Notarbartolo
E’ in questo clima che il 1° febbraio 1893, su un treno proveniente
da Messina, in una galleria nel tratto fra Termini Imerese e Trabia,
veniva brutalmente ucciso con ventisette coltellate Emanuele
Notarbartolo.
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Emanuele Notarbartolo (immagine tratta da
http://it.wikipedia.org/) |
Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima
volta, aveva visto come protagonisti un uomo politico e la mafia, è
necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo
ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano.
Notarbartolo era un politico siciliano, della destra storica, uomo
ritenuto eccellente per onestà e abilità amministrativa. Marchese di
San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele
Notarbartolo fu sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 e durante il suo
mandato trasformò la città in un grande cantiere completando il
mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, iniziando
l’ammodernamento della rete viaria, collegando la stazione centrale
con il porto, e posando la prima pietra per la realizzazione del
teatro Massimo. Ma soprattutto durante il suo mandato e nonostante
il fermento edilizio, combatté il fenomeno della corruzione e risanò
le finanze comunali, attirandosi per questo molti nemici i quali
cercarono in ogni modo di isolarlo.
Alla fine del suo mandato, nel 1876, Notarbartolo viene nominato
direttore del Banco di Sicilia, incarico che manterrà sino al 1890,
dimostrando anche in questo ruolo onestà ed integrità morale e
grandi competenze amministrative .
La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era
disastrosa e l’istituto si trovava sull’orlo del fallimento per via
di speculazioni azzardate e un’amministrazione spericolata, che
aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto
milioni e ottocento mila lire e di una riserva aurea di tredici
milioni. Per risanare l’istituto, Notarbartolo introdusse un regime
di austerità, invitando i direttori delle sedi a far rientrare i
clienti scoperti e a consentire crediti solo ai titoli protetti da
solide garanzie. Non solo, ma permise di denunciare i nomi degli
speculatori all’allora Ministro dell’Agricoltura Miceli. Allo stesso
tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto, in modo da
allontanare le componenti politiche in favore di quelle
essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi
dei suoi nemici e soprattutto di
don Raffaele Palizzolo. Chi era costui? Era un pezzo da novanta e un
membro del Consiglio d'amministrazione del Banco di Sicilia, con cui
il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per
aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie.
Palizzolo, soprannominato “U cignu” (il cigno) era un politico ed
uomo di spicco: consigliere comunale e provinciale, amministratore
fiduciario di enti di beneficenza e di banche, direttore del fondo
di assicurazione contro le malattie per la Marina Mercantile, capo
della Sovrintendenza dell'amministrazione di un manicomio, nonché
deputato da sempre fedele sostenitore di governi di qualsiasi
raggruppamento. Passando indifferentemente da destra a sinistra come
ben si conviene a chi ambisce al potere personale. Così facendo, da
ricco proprietario ed affittuario di terre, si era ancor più
arricchito ed aveva messo le mani in pasta in qualsiasi affare.
Palizzolo era al tempo stesso amico di mafiosi e banditi, di
poliziotti, magistrati e personaggi politici di grosso calibro. Come
un antico senatore romano, era solito ricevere ogni mattina nella
sua camera da letto tutti coloro che avessero richieste da fargli.
[8]
Scrive Colajanni: “La sera del 1° Febbraio 1893 in un vagone di
1ª classe nel tratto della ferrovia Termini - Palermo - e
precisamente nel tratto Termini - Trabia - Altavilla - venne
barbaramente assassinato il Commendatore Notarbartolo.
Le eccezionali qualità morali dell'uomo - era notissima la sua
rettitudine - la sua posizione sociale, le cariche elevate ch'egli
aveva occupato; tutto contribuì a far sì che il doloroso avvenimento
destasse una profonda impressione nel paese. Nell'intera Italia e
specialmente in Sicilia si levò un grido d'indignazione, che ebbe
anche la sua eco in Parlamento con alcune interrogazioni rivolte
(dall'on. Di Trabia e da me) al Presidente del Consiglio e ministro
dell'Interno del tempo: l'on. Giolitti.
Sin dal primo annunzio dell'assassinio efferato i magistrati, le
autorità di pubblica sicurezza e la pubblica opinione su questo
furono concordi: era da escludersi il furto come movente del
delitto. Le circostanze nelle quali era stato commesso dimostravano
una preparazione quale non potevano farla volgari malfattori; né il
furto poteva essere movente proporzionato di un feroce reato, che
poteva avere pei suoi autori conseguenze tremende. Si pensò alla
vendetta; ed era logico pensarvi perché la grande severità del
Notarbartolo nella sua qualità di amministratore della Casa S. Elia
e di altre case patrizie e di Direttore del Banco di Sicilia aveva
potuto riuscire a ferire molti interessi e molte suscettibilità.
Era il tempo dei grandi scandali bancari in seguito alla denunzia
da me fatta il 20 Dicembre 1892 degli imbrogli colossali della Banca
Romana; in Palermo e in tutto il regno, perciò, ad una voce si mise
in rapporto l'assassinio del Notarbartolo con criminose
responsabilità bancarie di vari uomini politici. Questa spiegazione
del delitto trovava credito tanto più facilmente in quanto che si
sapeva che l'antico Direttore del Banco di Sicilia aveva diretto al
Ministro di Agricoltura e Commercio del primo ministero Crispi, on.
Miceli, un rapporto in cui si denunziavano gl'intrighi e le male
arti di alcuni membri del Consiglio di Amministrazione del Banco; e
si sapeva del pari che quel rapporto segreto era stato
misteriosamente sottratto dal gabinetto del Ministro ed era stato
mostrato a Palermo in una riunione del Consiglio di amministrazione
del Banco a coloro, che vi erano accusati. Poco dopo venne sciolta
stoltamente l'amministrazione del Banco di Sicilia e mandato via il
Notarbartolo - quasi a punizione della corretta e solerte sua
gestione, ch'era riuscita a ristorare le sorti del Banco, ridotte a
mal partito da una precedente amministrazione.”
[9]
Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno,
Giuseppe Carollo e su un certo Giuseppe Fontana, killer
professionista e capo della cosca di Villabate. In seguito alla
testimonianza di un carabiniere, che dichiarò di essere venuto a
conoscenza di un brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi in una
tenuta di proprietà dell’on. Palizzolo per festeggiare la morte di
Notarbartolo, si sospettò subito che il mandante dell'omicidio fosse
il deputato Raffaele Palizzolo che, come membro del consiglio di
amministrazione del Banco di Sicilia, si era ripetutamente scontrato
con Notarbartolo. Lo stesso Notarbartolo, inoltre, sospettava
fondatamente che fosse stato lui il mandante del suo sequestro,
avvenuto nel 1882
[10].
I numerosi indizi raccolti sugli esecutori materiali dell'omicidio,
tutti collegati a Palizzolo, non furono però ritenuti sufficienti
dal Tribunale di Palermo, che emise una sentenza di assoluzione nei
confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il
Palizzolo e, grazie alle molteplici protezioni di cui godeva il
sospetto, il caso fu insabbiato.
Qualche tempo dopo un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto
giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano i
ferrovieri Carollo e Fontana. Tali dichiarazioni obbligarono la
magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il
Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e un
certo Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il
figlio della vittima, Leopoldo, che si era sempre battuto per
ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica,
coadiuvato dai deputati Colajanni e De Felice Giuffrida, e,
costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano
per legittima suspicione.
Appare la parola "mafia"
Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la corruzione del Banco
di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo, con cui il padre
si era più volte scontrato. Le carte processuali dimostrano senza
ombra di dubbio che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo
aveva stretti legami con la malavita palermitana e trapanese, a
favore della quale egli si era impegnato più volte per ottenere
scarcerazioni e riduzioni delle pene, in cambio di voti. Il processo
di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che
coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso
imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Fu
questa la prima volta che l’opinione pubblica sentì parlare di
“mafia” come organizzazione malavitosa associata al territorio
siciliano.[11]
Il processo di Milano si concluse con la condanna degli autori
materiali del delitto. Gli eventuali mandanti non furono neanche
presi in considerazione.
Il vero processo a carico di Palizzolo si poté svolgere dinnanzi
alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno
precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del
Parlamento nazionale. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”,
il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese
Palizzolo fu condannato, insieme a Fontana, a trenta anni di
carcere.
Intanto i processi Notarbartolo furono adoperati sapientemente e
congiuntamente dai fautori della causa nordista e della causa dei
latifondisti siciliani e servirono a tacciare di mafiosità il
movimento dei
fasci dei lavoratori che tanti proseliti stava facendo.
A muovere l’accusa furono proprio i grandi proprietari terrieri,
quelli stessi che con la mafia vivevano a stretto contatto. La loro
denuncia fu un diversivo, per legittimare la richiesta, fatta al
governo, di sciogliere con decreto ministeriale
i fasci dei lavoratori. L’obiettivo perseguito non aveva nulla a
che vedere col delitto Notarbartolo, ma tornava utile alla classe
politica sia del nord che del sud per depistare le indagini dalle
cause (scandalo finanziario delle banche) e dai mandanti del delitto
medesimo (mafia). A seguito della denuncia contro i fasci, il
mafioso da mettere sotto vigilanza e processare non è più Palizzolo,
presunto mandante in assassinio e in intime relazioni con i vari
gruppi delinquenziali palermitani e truffatore finanziario, ma gli
organizzatori delle decine e centinaia di migliaia di lavoratori in
cerca di giustizia sociale, indicati come futuri assassini e
accusati di associazione mafiosa.
Osserva Renda in Storia della mafia, pag. 154: “Quando si scopre
il cadavere del Notarbartolo sul treno fra Termini e Trabia, gli
ospedali di Palermo sono ancora pieni dei feriti di
Caltavuturo. Non passano che alcune settimane, e il
movimento dei Fasci dei lavoratori dilaga impetuoso” e più avanti:
“Tecnicamente, fra la denuncia contro i fasci accusati di mafia e la
mancata denuncia contro il Palizzolo come mandante in assassinio non
vi è alcun rapporto. Nella realtà, il legame è assai profondo.
Intanto per le autorità. Il clima di tensione. che subito dopo
l’assassinio del Notarbartolo si instaura a Palermo, è tale che
politicamente ne nasce un turbinio di situazioni difficili da
classificare per ordine di importanza, chiamando magistratura e
polizia a indagare contemporaneamente sulla mafia «vera» che ha
eseguito l’omicidio dell’ex direttore generale del Banco di Sicilia
e sulla mafia «presunta» che dovrebbe mettere a ferro e fuoco la
Sicilia”.
Cosa era più importante per il potere, l’indagine giudiziaria o
l’indagine sui fasci? In quale dei due settori profondere il
maggiore impegno? Anche la classe padronale fa la sua scelta. Per i
suoi interessi generali è prioritario proseguire unita la
distruzione della mafia «inventata» che si raccoglie nei Fasci dei
lavoratori o muoversi divisa pro e contro Palizzolo per accertare la
mafia «vera» che ha ucciso il Notarbartolo? La necessità della
scelta incombe pure sul governo. Pressato in parlamento e nel paese
da chi gridava al pericolo dei fasci, il presidente del consiglio e
ministro degli interni Giolitti lascia che la polizia trascuri le
indagini sull’assassinio del Notarbartolo e si concentri sulla
repressione dei fasci.
Il comitato pro Sicilia
Intanto il clima di generale indignazione e di superficiale
classificazione nei confronti della Sicilia
[12], che si era instaurato nel nord Italia durante i processi
portò all’esplosione di reazioni di protesta da parte dei siciliani,
tra i quali anche intellettuali come Pitrè e De Roberto. Essi,
infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola
da tali infamie. Renda (Storia della mafia, pag. 163) scrive:
Il “Comitato pro Sicilia” non ebbe però gli sviluppi che i
suoi promotori certamente si aspettavano. Sul piano organizzativo si
estese in tutta l’isola, costituendo nelle varie province ben 60
sezioni e raccogliendo 200 mila adesioni. Sul piano politico il suo
principale successo fu, invece, solo l’annullamento della condanna
del Palizzolo".
Il comitato Pro-Sicilia non aveva in realtà lo scopo
dell’annullamento della condanna del Palizzolo ma, come si evince
dalla dichiarazione dell’on Angelo Maiorana (op. cit. pag. 163):
“Il movimento di opinione pubblica che, dopo il verdetto di Bologna,
si è determinato in Sicilia, è uno dei più profondi e coscienti che
da lunga pezza siensi manifestati nell’isola nostra Non giova
dissimularsene né l’estensione né la intensità. Errano molti per
ignoranza, taluno per malafede, quei giornali dell’Alta Italia che
l’attribuiscono alla riscossa della mafia. Così dicendo, mostrano di
disconoscere le più essenziali condizioni dello spirito pubblico
siciliano e contribuiscono ad inasprire un dissidio che purtroppo
ripete assai complesse e diverse cagioni E vero: altra cosa è
Palizzolo, altra cosa è la Sicilia. Ma che perciò? Il fatto
Palizzolo non è che l’indice o l’occasione o la goccia del vaso, per
usare la frase volgare; ma la questione è molto più alta e
complessa. Negarla vuol dire aggravarla; falsarla. significa
invelenirla”.
Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quel marchio di
mafiosità che già fin dal processo di Milano era stato attribuito al
nostro territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse
connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali
proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della
vicenda Palizzolo, portarono alla inattivazione della sentenza
bolognese. Sei mesi dopo infatti la Corte di Cassazione annullò la
sentenza bolognese per un vizio di forma, fissando un nuovo processo
presso la Corte di assise di Firenze. Qui il nuovo processo che
cominciò il 5 Settembre 1903, oltre dieci anni dopo l’assassinio
Notarbartolo e sentenziò la assoluzione di Don Raffaele e del
coimputato Fontana per insufficienza di prove. Raffaele Palizzolo
ritorna a Palermo su una nave, accolto trionfalmente, riprese le sue
vecchie abitudini con le consuete udienze nella camera da letto e fu
nuovamente candidato al parlamento nazionale alle elezioni del
Novembre 1905. Ma fu il canto del cigno. Palizzolo non venne
rieletto ed uscì per sempre di scena. Giuseppe Fontana,l’altro
imputato, emigrò in America dove si arruolò nelle fila della
nascente Cosa Nostra.
Per quanto riguarda il comitato "Pro-Sicilia", Salvatore Lupo
in Storia della mafia, a pag.156-157 scrive:
“Il «Pro-Sicilia» guadagnò forze e consensi ben oltre l’area
palermitana, ma nel corso di questa espansìone geografica il
riferimento allo specifico del caso Palizzolo si fece più tenue
mentre prevalevano temi modellati sugli argomenti nittiani di Nord e
Sud, sulle polemiche liberiste a proposito del «mercato coloniale»,
sulle altre ragioni della protesta meridionale.”
A questo proposito Renda (op. cit.) ci dice che “il processo al
Palizzolo divenne un processo ai Siciliani, e se ne disse quel che
Lombroso o Niceforo nei loro libri non osarono mai scrivere.”
Gli sviluppi e la conclusione del caso Notarbartolo sono ancora oggi
esemplari di cosa siano gli equilibri politici che bisogna mantenere
per curare gli interessi economici ed il potere in senso lato. Ne
“Il ritorno del Principe”, Saverio Lodato e Roberto Scarpinato
scrivono “un eventuale condanna definitiva di Palizzolo era,
dunque, incompatibile con gli equilibri politici esistenti? Direi
proprio di sì.” E ancora: “L’assoluzione del Palizzolo non
era un’eccezione, ma un caso paradigmatico di quella che era la
normalità” invece “La consegna di mafiosi dell’ala militare, (il
Fontana, esecutore materiale del delitto) mediante patteggiamento
all’interno della classe dirigente con gli esponenti dell’alta mafia
è sempre rientrata, nelle tradizioni del sistema mafioso” (pag
207).
Depretis, alcuni anni prima, nell’ottica di questi equilibri
politici, per mantenere un assetto di potere “che ripartisce le
potestà sovrane dello Stato tra borghesia industriale del Nord e
classe dirigente meridionale” (Il ritorno del Principe pag.
202), aveva rifiutato di emanare il decreto ministeriale necessario
a dare esecuzione all’articolo 7 della legge di Pubblica Sicurezza,
con il quale si disponeva che per esercitare la funzione di guardia
campestre occorreva avere la fedina penale pulita. Una norma
necessaria per contrastare la mafia. A questo proposito scrive Renda
(Storia della mafia, pag 125): “Esisteva la legge , ma si faceva in
modo che per legge non fosse impedito che il mafioso fosse campiere,
curatolo o guardiano”. Caso emblematico del prevalere della logica
degli equilibri politici era stato anche quello del procuratore
generale Tajani, del mandato di cattura da lui fatto spiccare contro
il questore Albanese e degli ostacoli e mancato sostegno che gli
furono opposti dalle autorità governative locali e dallo stesso
Ministero, delle sue dimissioni dalla magistratura in senso di
protesta. (vedi ai nostri giorni De Magistris, Forleo, etc!)
[Giuseppina Ficarra,
http://www.ilpuntodue.it/?q=node/295]
Appena ieri, nel 2008, viene respinta a larghissima maggioranza la
proposta di impedire che facciano parte della Commissione
Parlamentare Antimafia soggetti inquisiti per mafia e di detta
Commissione entrarono a fare parte soggetti condannati per fatti di
corruzione con sentenza definitiva. (Il ritorno del Principe
pag. 48)
Note
[1]
Le due città furono investite da una travolgente febbre
edilizia che non solo alterò in maniera significativa il
panorama urbano ma servì a incrementare le truffe
finanziarie senza che vi fosse un adeguato controllo da
parte delle Istituzioni e le banche si lanciarono in
operazioni assai poco trasparenti.
[2]
Sono passati più di cento anni ma lo schema resta sempre lo
stesso (vedi i furbetti del quartierino Fiorani, Consorte,
Fazio e Ricucci) , un sistema economico finanziario privo di
cultura della legalità e di mercato, e un comportamento
della politica di tipo classistico e clientelare. Una
stretta cerchia di clienti conniventi operano tramite una
banca, utilizzando fondi che questa procura loro
distogliendoli dai conti di altri clienti e falsificando i
propri libri contabili con perizia e cura. Operazioni che,
se vanno a buon fine, riversano i ricavi direttamente si
conti correnti privilegiati, se falliscono le perdite
vengono assorbite dalla banca. Un quadro nel quale i
politici si inseriscono quali beneficiari corrotti e
facilitatori, in cui controllori come il Governatore
occultano documenti e favoriscono alcuni soggetti a
discapito di altri, in cui finanzieri si arricchiscono in
maniera tanto facile quanto era la loro spregiudicatezza ed
in cui, infine, imprenditori orientano le loro scelte
industriali all'interno di tale quadro.
[3] Nello Quilici così descrive il Tanlongo in un
libro pubblicato cinquant’anni dopo: «Vecchio mercante di
campagna di 73 anni, rozzo e frusto arnese dell’affarismo
romano, semianalfabeta, arruffone, imbroglione,
confusionario, con una situazione patrimoniale privata
ingarbugliatissima, apparentemente florida, in realtà carica
di debiti».
[4]
Come si evince, il vezzo di premiare con un seggio
senatoriale i collusi con la mafia, gli imbroglioni, i
bancarottieri, anche condannati con sentenza definitiva, in
Italia è un fatto storico!
[5] Dal carcere Tanlongo affermava di aver dato
cospicue somme anche ai presidenti del consiglio Giolitti e
Crispi. Giolitti, in risposta ad interrogazioni ed
interpellanze parlamentari, negherà di conoscere la
relazione Alvisi-Biagini e di aver ricevuto denaro dalla
Banca. Nel marzo 1893 fu nominato un comitato di sette
parlamentari che a novembre presentò al presidente della
camera la relazione finale nella quale si affermava che fra
i beneficiari dei prestiti vi erano 22 parlamentari, fra cui
Crispi. Il processo del 1894 si concluse con l’assoluzione
degli imputati: per evitare che l'inchiesta travolgesse
uomini di spicco della politica italiana, i giudici, nella
sentenza, denunciarono la sparizione di importanti
documenti, necessari a provare la colpevolezza degli
imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato.
[6]
Il 10 agosto 1893 venne approvata la legge 449. Con questo
testo, il Parlamento mise ordine nel settore bancario
mettendo, tra l’altro, in liquidazione la Banca Romana e
sancendo la nascita della Banca d’Italia che avvenne grazie
alla fusione della Banca Nazionale del Regno, della Banca
Toscana e della Banca Toscana di Credito. Il nuovo istituto,
anch’esso privato, ebbe dallo Stato la possibilità di
emettere carta moneta insieme al Banco di Napoli e la Banca
di Sicilia che mantennero questo privilegio fino al 1926,
quando con la legge 812 del 6 maggio la Banca d’Italia
divenne l’unico istituto autorizzato alla stampa delle
banconote.
[7]
Tra le conseguenze dello scandalo della banca romana e del
fallimento di altre banche abbiamo l'immiserimento
ulteriore delle classi contadine e l'inizio del grande esodo
di massa dall'Italia che si verificò durante l'epoca
giolittiana. Il fenomeno dell'emigrazione interessò tutta
l’Italia ma fu visto di buon occhio da Giolitti che, proprio
grazie alle rimesse degli emigranti e al minor numero di
bocche da sfamare, rimise in sesto le finanze nel primo
decennio del novecento. L’emigrazione era un po’ come una
valvola di sfogo perché serviva ad allentare la tensione
sociale soprattutto dei disoccupati ed in più le “rimesse
degli emigrati”, servivano per elevare i consumi e avere
fondi da reinvestire. L’aspetto più clamoroso che
caratterizzò l’età giolittiana è però il forte squilibrio
tra nord e sud. Giolitti, in questo, ha enormi
responsabilità: infatti, ha avvantaggiato solo gli
industriali del nord e gli agrari del sud, che non ebbero
interesse alcuno a cambiare la struttura economica e sociale
del sud perché la volevano arretrata per meglio dominarla.
Giolitti veniva eletto grazie anche alla corruzione dei
Sindaci dei paesi. Questa forma di favori in cambio di voti
viene ancora oggi chiamata clientelismo.
[8] Ricordiamo che la legge elettorale di allora,
prevedeva il diritto di voto solamente per una ristretta
fascia di popolazione, che rappresentava appena il due per
cento del totale. In Sicilia gli aventi diritto al voto
erano poco più di quarantamila unità. L’impossibilità di
poter dimostrare un reddito legale e l’analfabetismo
largamente diffuso tagliava il diritto al voto alla
maggioranza. Divenne così indispensabile un tacito accordo
tra borghesia urbana e piccola nobiltà terriera da una parte
e la Mafia dall’altra. Alle prime due forze venne assegnato
il potere legale e, attraverso le elezioni, le cariche
pubbliche e la diplomazia, e alla seconda il controllo del
potere economico e illegale. Queste due forze sociali
trassero mutuo giovamento e favorirono la nascita di una
“borghesia mafiosa”, che ha costituito a lungo un blocco
sociale in Sicilia.
[9]
Napoleone Colajanni, Nel regno della Mafia, Dai Borboni
ai Sabaudi, 1900.
[10]
Nel 1882 il Notarbartolo era stato rapito e costretto a
pagare un riscatto di 50mila lire. Correva voce che vi fosse
coinvolto il cavaliere Palizzolo per la lotta che
Notarbartolo gli aveva fatto quando era direttore del banco
e perché il sequestro era avvenuto a Caccamo, sede di una
grossa clientela del Palizzolo, e i sequestratori erano
personaggi vicini agli ambienti clientelari del deputato (S.
Lupo, Storia della mafia)
[11]
Colajanni, nel suo libro Nel regno della mafia, dà una
notizia curiosa sull' origine della parola "mafia". Questa
parola non era nemmeno inserita nel Dizionario
siciliano-italiano del Mortillaro (1838) e venne inserita
nella terza ristampa (1876) soltanto dopo l' unità d' Italia
con la seguente spiegazione: "Voce piemontese introdotta nel
resto d' Italia ch' equivale a camorra". Può sembrare una
cosa da poco ma non lo è. Le questioni di parole non sono
mai questioni di poco conto e la storia della parola "mafia"
è una storia mafiosa, come la realtà che sta dietro a quella
parola e che ai tempi di Colajanni aveva da poco cambiato
pelle e nome. Nel Regno delle due Sicilie, infatti, i
mafiosi non si chiamavano mafiosi: si chiamavano "liuni"
(leoni), erano gli onnipotenti custodi della grande
proprietà feudale e appoggiarono l'impresa dei Mille perché
anche l'aristocrazia feudale la appoggiò, e perché videro in
Garibaldi uno di loro; un "mafiusu" (parola gergale
d'origine araba che voleva dire "audace", "intrepido",
"ribelle" e chissà che altro. Sebastiano Vassalli,
Repubblica 7 agosto 1992, p. 29)
[12] Il dibattito processuale che porta alla
incriminazione del Palizzolo si svolge in un clima che non
si limita alla valutazione di quanto avviene nell’aula, ma
trascende in animosità che riflettono ed esasperano le
conflittualità esistenti fra Nord e Sud. Un esempio che va
oltre il segno è quello di Alfredo Oriani. In un articolo
titolato Le voci della fogna, apparso su Il Giorno dell’ 8
gennaio 1900, scrive che “l’isola è un paradiso abitato
da demoni”, che “si rivela come un cancro al piede
dell’Italia, come una provincia nella quale né costume né
leggi civili sono possibili”. Napoleone Colajanni
reagisce rimandando al mittente “l’insulto sanguinoso”,
giacché “nella fogna hanno diguazzato allegramente e vi
hanno portato un lurido e pestilenziale materiale i Balabbio,
i Venturi, i Venturini, i Codronchi, i Sacchi, i Cellario, i
Mirri… nati e cresciuti tutti al di la del Tronto”. Il
Colajanni coglie anche l’occasione per rilevare e lamentare
che “nella fogna ha voluto diguazzare un poco la
magistratura di Milano”. Verso la stessa magistratura
meneghina non manca neppure una qualche legittima censura
anche sul piano strettamente processuale. Il procuratore
generale di Palermo protesta col Guardasigilli per lo spazio
che il tribunale milanese dà “all’ignobile e nauseabondo
spettacolo di una …privata vendetta”. E ineffabilmente
il procuratore generale milanese si giustifica con lo stesso
Guardasigilli, argomentando che su certi episodi il giudizio
va demandato “alla pubblica opinione, la quale spesso non
falla e distribuisce a chi spetta. secondo giustizia, la
lode e il biasimo”.
Fara Misuraca
Alfonso
Grasso
marzo 2009
Bibliografia
-
Colajanni Napoleone, 1900, Nel regno della Mafia, Dai Borboni
ai Sabaudi, Rubettino
-
Ficarra Giuseppina,
http://www.ilpuntodue.it/?q=node/295
-
Lodato Saverio, Scarpinato Roberto, 2008, Il ritorno del
principe, Chiarelettere
-
Lupo Salvatore, 2004, Storia della mafia. Dalle origini ai
nostri giorni, Donzelli
-
Renda Francesco, 1998, Storia della mafia, Pietro
Vittorietti Edizioni
-
Vassalli Sebastiano, 2007, Il Cigno, Einaudi
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