La prospettiva unitaria non era solo nelle aspettative
del ceto dirigente sabaudo e dell’industria del nord,
penalizzata quest’ultima dalle barriere doganali che,
lungo la penisola, deprimevano la circolazione delle
merci. Veniva reclamata dal mondo intellettuale, che si
riconosceva in una lingua comune e in un secolare
patrimonio di tradizioni, scientifiche, letterarie e non
solo. Correlata a istanze di tipo federalistico, veniva
presa in considerazione da sicilianisti come Domenico
Scinà, Pietro Lanza di Scordia, Isidoro La Lumia,
Michele Amari. Fu tenuta in debito conto da Ruggero
Settimo e dagli altri capi rivoluzionari del ‘48
palermitano, prima della inevitabile sconfitta. Su tale
prospettiva, rivendicata pure dai locali padroni del
vapore, dai Florio agli inglesi Woodhouse e Ingham,
convergeva altresì, negli anni cinquanta, il radicalismo
democratico che, lungo i tracciati mazziniani e
garibaldini, andava diffondendosi fra i ceti medi e
popolari dell’isola, sotto l’egida di personalità come
Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Tutto questo,
associato ad alcuni iter in corso nel continente
europeo, dovrebbe confortare la tesi di una storia tutto
sommato coerente e liberale dell’unità d’Italia.
Esistono nondimeno fatti, controversi, che tanto più
oggi sollecitano a nuovi impegni interpretativi.
Agli esordi dell’impresa siciliana, Garibaldi e i suoi
referenti dell’isola presero in seria considerazione
l’argomento della terra. Nel vivo dei combattimenti, il
2 giugno 1860, un decreto firmato da Francesco Crispi ne
prometteva infatti l’assegnazione ai contadini, a
partire da coloro che si sarebbero battuti “per la
patria”. In realtà, i fatti di Bronte, Alcara, e altri
centri, che per la loro gravità hanno gettato ombre sul
garibaldismo di quei frangenti, testimoniano come
andarono le cose. L’anno clou, che aprì realmente la
questione meridionale fu comunque il 1862, quando, in un
contesto del tutto diverso, sullo sfondo del nuovo regno
sabaudo, il radicalismo democratico, che avrebbe potuto
sorreggere le istanze civili nel sud, con l’attuazione
di una riforma agraria e non solo, venne sbaragliato. La
resa dei conti venne quando Garibaldi mosse dalla
Sicilia per risolvere militarmente la questione romana,
giacché il capo del governo Rattazzi, apparso di primo
acchito interlocutorio, non esitò a proclamare
nell’isola lo stato d’assedio, conferendo il comando
delle truppe a Raffaele Cadorna. Ne seguirono
rastrellamenti e repressioni, a Girgenti, Racalmuto,
Alcamo, Bagheria, Siculiana, Grotte, Casteltermini,
culminanti in autunno con l’eccidio di Fantina. In tutto
il Mezzogiorno, attraversato dalla guerriglia
legittimista, l’anno si chiudeva d’altronde, come veniva
espresso in un rapporto della Camera, con oltre 15 mila
fucilazioni e circa mille uccisi in combattimento.
Entrava così nel vivo l’offensiva di Cadorna, che
avrebbe avuto un momento decisivo nel 1866, quando la
rivoluzione detta del Sette e Mezzo sarebbe stata
repressa con il cannoneggiamento di Palermo.
Lo statuto, mutuato da quello albertino del 1848, al sud
venne violato da allora regolarmente, con un uso
metodico della forza. In tutto il Mezzogiorno, proposta
dal deputato della Destra Giuseppe Pica, dal 15 agosto
1863 veniva resa operativa, e sarebbe durata oltre due
anni, la legge marziale, che prevedeva la sospensione
dei diritti costituzionali, la punizione collettiva per
i reati dei singoli e la rappresaglia contro i centri
abitati. Precisi atteggiamenti culturali, con o senza
cautele, intervenivano a legittimare intanto, pure in
sedi ufficiali, ogni eccesso repressivo. Il generale
Giuseppe Govone, i cui metodi, quando ebbe conferiti in
Sicilia i pieni poteri, furono denunciati già allora
come criminosi, non esitò a sostenere che i meridionali
andavano considerati inferiori per natura. E lo scandalo
che ne derivò, pure in Parlamento, non impedì al
medesimo di passare di promozione in promozione, fino a
ottenere, seppure per poco, sotto il governo Lanza, il
prestigioso dicastero della Guerra. Si trattava,
evidentemente, di un humus, cui aderivano del
resto gran parte dei prefetti del tempo, a partire da
quel Guido Fortuzzi, emiliano, che riteneva i siciliani
non propriamente umani. Ma quali furono le cause di tale
deriva, negli orizzonti di uno Stato che si ispirava al
liberalismo?
Come in altre aree del sud, in Sicilia il nocciolo della
questione continuava ad essere la terra. Le strutture
del latifondo, che avevano retto alle leggi del 1812,
con cui il parlamento dell’isola aveva abolito
formalmente il feudalesimo, erano rimaste pressoché
intatte, mentre le terre confiscate agli ordini
religiosi finivano nelle mani del ceto agrario più
spregiudicato. In sostanza, con il rifiuto di una
riforma della proprietà rurale, che avrebbe potuto
rimescolare le carte nelle politiche del Regno,
equilibrando le opportunità e le risorse dei diversi
territori, abortiva in quei decenni il disegno di una
coesistenza equa di nord e sud. Sulla traccia di Cavour,
contrario alle autonomie regionali, i governi sabaudi
della Destra, da Ricasoli a Minghetti, convennero
altresì su una linea centralistica, autoritaria, che,
destinata a perpetuarsi pure dopo del 1876, quando il
governo passò alla Sinistra, avrebbe annichilito ogni
autentica aspirazione democratica. Lo scollamento
nell’isola fu avvertito dalle popolazioni a tutti i
livelli: anche dal ceto aristocratico-terriero, che pure
da decenni aveva perduto il privilegio di un parlamento
a propria misura. Ambienti in bilico fra luce e ombra,
sullo sfondo dell’emergenza militare, poterono trarre
tuttavia guadagno dalla situazione, coinvolgendosi nelle
cospirazioni della corte sabauda, che crebbero ancora
dal 1862, quando, con l’accoltellamento di tredici
persone in diversi punti di Palermo, in simultanea,
esordiva nell’isola una sorta di strategia della
tensione.
La vicenda, oscura ancora oggi, rimane sintomatica. Identificato
uno dei sicari, i sospetti, sin da subito, ricaddero sul
principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del
regno, e sul reggente dalla questura palermitana
Giovanni Bolis, mentre venivano adombrati contatti
ancora più in alto, tali da coinvolgere lo stesso
governo sabaudo. Il sostituto procuratore del re Guido
Giocosa in un rapporto annotava altresì il possibile
movente: quello di sconvolgere l’ordine della città e
del circondario per giustificare misure repressive. Si
corse allora ai ripari. L’inchiesta venne prima
ostacolata, poi fermata d’autorità. I
conti con le fazioni garibaldine e repubblicane
dell’isola venivano saldati comunque, nel medesimo
orizzonte strategico, con l’assassinio del generale
Giovanni Corrao, avvenuto, ancora a Palermo, il 3 agosto
dell’anno successivo. E anche in questo caso le
indagini, che minacciavano di lambire il governo e la
corte sabauda, vennero chiuse anzitempo.
Su quegli sfondi, che nelle grandi città siciliane
ricalcavano, per certi versi, lo Stato di polizia
borbonico, esponenti pubblici di varia estrazione ideale
si ponevano altresì a disposizione di consorterie
vecchie e nuove, le quali, profittando anch’esse del
fossato civile che separava le popolazioni dall’autorità
pubblica e dalle leggi, tanto più si ergevano nei
circondari come potere parallelo. Già adombrato nel 1876
da Raimondo Franchetti, viene ritenuto emblematico il
caso del barone Nicolò Turrisi-Colonna, indipendentista
nel 1848, capo della guardia nazionale e deputato
filo-garibaldino nel 1861, infine, negli anni
successivi, senatore del Regno. Il nobiluomo siciliano
pare che riuscisse a coniugare senza problemi la difesa
teorica dei principi di legalità, con la difesa, sul
terreno, di associazioni propriamente criminali, come
quella, già allora famigerata, che faceva capo a
Antonino Giammona. Lungo gli anni sessanta e settanta,
negli orizzonti di una questione meridionale che
insisteva tragicamente, magistrati, inquirenti
parlamentari, sociologi e cronisti, non soltanto
italiani, scoprivano la mafia.
Fonte: “Left Avvenimenti-L’Isola possibile”
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