Ruggero d’Altavilla, dopo aver definitivamente sconfitto i
musulmani oltre a preoccuparsi di dare stabilità politica alla
Sicilia, aveva anche da risolvere il problema religioso. Poiché la
maggior parte degli abitanti dell'isola erano di religione musulmana
o, in minoranza, cristiana ortodossa, inizialmente la politica degli
Altavilla in Sicilia fu orientata a sostenere la tradizione
greco-basiliana, finanziando con donazioni e rendite la costruzione
di nuovi monasteri ortodossi. Il Conte di Sicilia e di Calabria, per
garantire l'unità del suo nuovo stato, pensò bene di affidare alla
chiesa bizantina il compito di rafforzare e sostenere anche nelle
periferie il potere degli Altavilla anche perché il rito bizantino
prevedeva la possibilità della subordinazione degli istituti
ecclesiastici al sovrano, purché cristiano. Fu così che in quegli
anni i monasteri basiliani in Sicilia, raggiunsero il numero di
circa settanta, alcuni dei quali sopravvivono ancora oggi.
Il furbo Conte Ruggero si era reso conto che il Patriarca di
Costantinopoli, suprema autorità religiosa Bizantina, non solo era
fisicamente più lontano ma soprattutto era meno efficiente del Papa
e sarebbe stato poco invadente nelle questioni religiose della
Sicilia, lasciando mano libera all’autorità laica di controllare i
centri nevralgici della vita ecclesiastica.
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Ruggero I d’Altavilla, Gran Conte di Sicilia |
Il primo arcivescovo di Palermo normanna fu, infatti, un greco
,
e Ruggero determinò l’area ed il numero delle diocesi che sosteneva
con le donazioni del suo tesoro privato. In quello che fu il periodo
storico contrassegnato dalla lotta per le investiture, quando cioè
la Chiesa Romana rifiutava severamente qualsiasi ingerenza del
potere laico nella scelta dei vescovi, Ruggero, nei suoi domini,
sceglieva personalmente i suoi vescovi. E sebbene alcuni territori
siciliani fin dall'età dell'imperatore Giustiniano erano stati per
lungo tempo latifondi della diocesi di Roma e in questi
possedimenti, conosciuti come Siciliae patrimonium ecclesiae,
l’economia era ancora gestita da funzionari e da clero fedeli a Roma
e la popolazione ivi residente seguiva il rito latino, la Curia di
Roma dovette adattarsi alle prerogative dello Stato normanno
sottostando al controllo di Ruggero. Il Papa fu costretto a fare
buon viso a cattivo gioco poiché il papato aveva bisogno
dell’appoggio politico e militare normanno sia per la sua
opposizione ad Enrico IV sia contro Bisanzio.
Per la prima volta la chiesa di Roma era costretta a concedere ad un
sovrano laico molti privilegi amministrativi, fra i quali la
possibilità di gestire le cariche episcopali, il patrimonio
finanziario delle diocesi e l'istituzione di metropoli. Da allora le
arcidiocesi della chiesa romana, in Sicilia, non si posero come
soggetto giuridico indipendente, come nel resto d'Italia ma, alla
maniera di Bisanzio, erano subordinate al potere laico degli
Altavilla, accentrato in Palermo.
Urbano II per trattare con il normanno era venuto personalmente in
Sicilia e grazie alla sua diplomazia ottenne comunque che le nuove
diocesi aderissero a Roma piuttosto che a Bisanzio, ma di lì a poco
commise un imperdonabile errore politico nominando Roberto, vescovo
di Troina e Messina, legato pontificio in Sicilia senza previo
consenso e approvazione del Gran Conte e con l’evidente scopo di
limitare i poteri esercitati in materia ecclesiastica da Ruggero.
La reazione del normanno, a tutela della sua indiscussa autorità,
non si fece attendere: arrestò il vescovo e impose al Papa
l’annullamento della nomina.
Il contrasto fu sanato da un incontro del papa con il conte a
Salerno, che si risolse con l'emanazione della bolla Quia propter
prudentiam tuam del 5 luglio 1098, con la quale
Urbano II disciplinava l'eventuale nomina di altri legati
nell'isola, subordinandola all'accordo del conte e sostanzialmente
riconoscendogli un diritto di veto.
Oltre alla facoltà di intervenire nella nomina dei legati, e quindi
di controllarne indirettamente l'ingresso e l'attività nei suoi
domini, il conte Ruggero ottenne una seconda concessione, con la
quale veniva praticamente riconosciuta la legittimità dell'ingerenza
sua e dei successori negli affari e nella vita della Chiesa, purché
subordinata all'esecuzione delle direttive pontificie e in mancanza
di un legato, il conte avrebbe potuto sostituirlo.
Il Conte ottenne così per sé e per i suoi successori il diritto di
giurisdizione sulle cose ecclesiastiche che veniva esercitato
attraverso il tribunale della “Regia Monarchia” intendendosi,
con tale denominazione, la doppia potestà temporale e spirituale del
sovrano.Tale pretesa,
come quella di vietare la presenza di legati pontifici nei propri
domini, trovava vari riscontri contemporanei, particolarmente negli
altri territori normanni: nella stessa Normandia e nel Regno
d'Inghilterra.
Ruggero ebbe così il pieno potere di nominare i vescovi e di
destituirli. Ottenne anche il diritto di portare l’anello ed il
pastorale, per cui l’unione del potere civile e religioso fece di
lui quasi un “antipapa”.
Questa forza particolare consolidò enormemente il potere dei re di
Sicilia, indebolendo quasi del tutto l’autorità del Papa nell’isola.
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Ruggero II |
Nel 1117, tuttavia papa Pasquale II ,
pur riconfermando il privilegio a
Ruggero II, introdusse una
interpretazione restrittiva. Si ribadì il carattere soltanto
esecutivo della facoltà attribuita al conte di Sicilia di
sostituirsi al legato e si precisò che le direttive, alle quali il
conte avrebbe dovuto attenersi in qualità di legato, potevano essere
trasmesse in Sicilia per mezzo di legati pontifici ex latere.
Ciò avrebbe consentito la reintroduzione in Sicilia dei legati
pontifici, giocando sul fatto che non si sarebbe trattato di
legazioni aventi carattere di stabilità e permanenza, come era stato
il caso del vescovo di Troina.
Altri accordi conclusi a Benevento nel 1156 tra
Guglielmo I e Adriano IV introdussero ulteriori innovazioni. Il papa
confermò al re, per la sola isola di Sicilia, due delle facoltà
attribuite da Urbano II: l'esclusione di legati che non venissero
dietro sua richiesta ( mentre nella parte continentale del Regno
l'invio di legati pontifici era libero) e la facoltà di trattenere
discrezionalmente gli ecclesiastici convocati dal papa. Fu inoltre
esclusa, sempre per la sola isola, la possibilità di appellarsi a
Roma per le cause ecclesiastiche. Ma venne stralciata nell'accordo
beneventano la facoltà di sostituirsi al legato pontificio, che
aveva fino ad allora consentito di parlare di attribuzione della
legazia apostolica.
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Il popolo e i militi del Regno acclamanti
rispettivamente. Tancredi e il conte d’Andria candidati
al trono di Sicilia.
(Pietro da Eboli) |
Un altro concordato concluso a Gravina nel 1192 tra
Celestino III e
Tancredi, in una situazione di particolare debolezza
del Regno, ammise anche per l'isola il libero invio di legati ogni
cinque anni, o più spesso, se necessario o se richiesto dal re, ed
eliminò il divieto di appello a Roma. La Sicilia perdeva così ogni
status speciale. Rimase però prassi che il re di Sicilia
fosse legato apostolico, infatti nella Summa decretorum,
redatta negli ultimi decenni del XII sec. da Uguccione da Pisa,
l'autore, rileva l'esistenza di alcune prassi particolari del
diritto ecclesiastico siciliano e specifica che il re di Sicilia
aveva la qualifica di legatus e godeva di speciali privilegi
iure legationis.
Con un ulteriore concordato dell'ottobre 1198, papa
Innocenzo III strappò all’imperatrice
Costanza la ratifica degli
accordi conclusi a Gravina. L'assimilazione dell'isola al continente
fu così assicurata e fu annullata ogni autonomia ecclesiastica da
Roma, tanto in materia di appelli che di legazioni, e tutto il Regno
finì anzi per essere amministrato dai legati pontifici. Al re
restava soltanto la facoltà di non consentire a elezioni episcopali
liberamente decise dai capitoli, ma il veto regio non bastava,
occorreva anche quello pontificio.
Fu per questo motivo che l'elezione dell'arcivescovo
di Palermo fornì a
Federico II, appena pochi giorni dopo il
raggiungimento della maggiore età e l'assunzione diretta delle
funzioni regali, il primo motivo di contrasto col papa.
Dopo la morte di Federico, fiero difensore dello Stato laico in
Sicilia, i papi, forti del loro diritto feudale, ripresero la
politica di opposizione alla Corona di Sicilia e tentarono di
vendere il Regno, loro feudo, agli stranieri. Contrattarono infatti
la Corona di Sicilia con gli Inglesi offrendo il Regno prima a
Riccardo di Cornovaglia, fratello del re di Inghilterra, che non
accettò, ritenendo il prezzo della vendita troppo alto, e poi al
figlio di questi, Edmondo di Lancaster, un ragazzo di dieci anni
che, su forte pressione del legato papale, accettò e si fece
chiamare “re di Sicilia per grazia di Dio” ma in seguito
dovette rinunziare al titolo per la forte opposizione dei baroni
inglesi cui non importava nulla, in quel tempo, della Sicilia. Nel
1261 infine, un papa francese, Urbano IV, rinnovò l’offerta a
Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia. Questi accettò
promettendo anche di rinunciare alla Legazia Apostolica, di
sopprimere il tribunale della “Regia Monarchia” e di
esonerare il clero dal pagamento delle imposte. Con queste promesse,
Carlo d’Angiò ottenne l’appoggio della Curia Romana, che bandì una
crociata di cristiani contro altri cristiani, con il sostegno del
Tesoro Pontificio. In tal modo alla morte di
Manfredi, a
Benevento nel 1266, il papa regalò il trono di Sicilia al francese.
In realtà Carlo d’Angiò non mantenne poi la promessa di rinunziare
alla carica di Legato Apostolico, e quando la Sicilia passò in mani
aragonesi, costoro non solo ripudiarono la signoria feudale del
Papa, ma confermarono il proprio diritto al titolo di legato
apostolico con il potere esclusivo di nominare i vescovi e di
sovrintendere alla Chiesa di Sicilia fino a divenire un privilegio
del re di Spagna Filippo II.
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Clemente IV incorona Carlo I d'Angiò |
I re
spagnoli erano considerati sia capi spirituali che temporali tanto
che nelle suppliche il re era appellato come “Santissimo
Padre”
e il prelato spagnolo rappresentante l’autorità ecclesiastica in
Sicilia aveva il potere dell’ultima parola nelle cause
ecclesiastiche. Lo stesso tribunale dell’Inquisizione, braccio
armato della Chiesa, riconosceva l’autorità di Madrid piuttosto che
quella della Curia Romana.
Il
viceré
spagnolo controllava l’operato dei preti, obbligava i cittadini ad
ascoltare la messa domenicale, proibiva ai medici di curare gli
ammalati che avevano rifiutato la confessione ed era particolarmente
esigente nei riguardi dei sudditi marrani o moriscos.
La Chiesa
siciliana era lontana da Roma ma anche da Madrid ed a lungo andare
questa “libertà” comportò un rilassamento nel costume religioso: il
clero divenne ignorante e superstizioso, molti preti convivevano con
le loro donne, come pure molti frati e suore che, tra l’altro,
secondo il costume dell’epoca venivano avviati al monastero o alla
carriera ecclesiastica per rispettare la legge del maggiorascato e
non certo per vocazione, e inoltre si diffuse il malcostume di
vendere i sacramenti.
Tuttavia,
in Sicilia, il conflitto tra Chiesa e Stato non cessò mai. Molti
viceré, assieme a tutti i siciliani, furono scomunicati e nel 1555
papa Paolo IV, durante la sua guerra con Filippo II di Spagna arrivò
al punto di “confiscare”
la Sicilia per cederla a Venezia e alle galere pontificie fu
permessa la “corsa” contro le navi siciliane cariche di
frumento e di sete. La reazione del re di Spagna, a tutela del suo
diritto di legato apostolico, fu durissima: fece affondare numerose
navi del Papa e proibì con pene severissime la diffusione in Sicilia
di tutti gli atti e decisioni della Curia Romana.
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Filippo II |
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Filippo III |
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Filippo IV |
Ovviamente l’alto clero siciliano, per difendere i suoi privilegi,
si schierò dalla parte della Corona di Spagna. Vescovi e abati delle
più importanti diocesi godevano, infatti, di enormi ricchezze,
frutto dei patronati reali: l’arcivescovo di Monreale, ad esempio,
possedeva ben settantadue feudi ed un reddito annuo di 40.000 scudi
d’oro, l’arcivescovo di Palermo e il vescovo di Catania disponevano
di 20.000 scudi all’anno, somme da capogiro ben superiori allo
stipendio del viceré. I beni della Chiesa siciliana godevano infine
della “Manomorta
ecclesiastica”
che sottraeva alla tassazione dello Stato i feudi religiosi, per cui
i lasciti e le donazioni alle chiese e ai conventi erano in
fortissimo aumento.
Questa
situazione rendeva nullo ogni tentativo papale tendente a sopprimere
o minimizzare gli effetti della Legazia Apostolica in Sicilia mentre
si rafforzava il controllo del re sulla Chiesa, inoltre le cariche
ecclesiastiche più importanti vennero concesse con sempre maggiore
frequenza a prelati spagnoli. Fra la fine del ‘600 e gli inizi del
‘700 il clima sull’Apostolica Legazia di Sicilia si fece ancora più
rovente per via di un saggio, il
Tractatus de Monarchia Siciliae,
del cardinale Cesare Baronio
, nel quale si
metteva in discussione l’autenticità della bolla di papa Urbano II,
negando quindi la validità giuridica del tribunale della “Regia
Monarchia”.
I
realisti sostenevano il pieno diritto della posizione assunta dalla
Corte, mentre i curialisti difendevano le ragioni della Santa Sede.
Dal piano strettamente giuridico si passò a quello teologico e i
realisti, forti delle dottrine cartesiane e gianseniste,
rivendicarono l’antico ordinamento della Chiesa e l’autonomia delle
diocesi in contrapposizione con il centralismo della Curia Romana.
La Legazia Apostolica veniva vista come un particolare istituto
giuridico – religioso che conferiva piena autonomia alla Chiesa
siciliana.
Il
conflitto sul
tema della Apostolica Legazia di Sicilia tornò prepotentemente di
attualità il 22 gennaio del 1711, ancora in periodo spagnolo, per un
incidente probabilmente voluto dalla curia pontificia, che accadde a
Lipari, unica diocesi siciliana che dipendeva direttamente da Roma,
per una questione originariamente marginale, ma che divenne tema
centrale dello scontro fra Stato e Chiesa, attraversando più
dinastie, e che passò alla storia come la “Controversia
liparitana”.
Fara
Misuraca
Alfonso
Grasso
Gennaio
2011
Note
Ne dà notizia soltanto la cronaca di Goffredo Malaterra, che
termina con il racconto della concessione e il testo della
bolla pontificia.
L'esercizio della legazia apostolica ebbe
definitivamente termine nel 1871 con la promulgazione della
legge delle guarentigie.
Fu consacrato papa, in successione ad Urbano II, il 19
agosto 1099. La sua elezione fu per buona parte dovuta
all'appoggio economico e militare dei Normanni, che
stroncarono il tentativo da parte della nobiltà romana di
eleggere un antipapa (sostenuto anche dal clero tedesco e
dallo scomunicato imperatore Enrico IV), nella persona di
Alberto cardinale di Santa Rufina, dopo la deposizione
dell'Antipapa Teodorico. (da Wikipedia)
Il titolo di legatus Siciliae fu legato dapprima al
titolo di comes Siciliae di Ruggero I, e quindi a
quello di rex Siciliae fino a Carlo d'Angiò, e poi a
quello di rex Trinacriae. Il titolo di legatus
Siciliae rimase identico nei secoli, perciò la corona
siciliana rimase sempre identificata come Regia Monarchia
di Sicilia, benché il titolo della sovranità sull'isola
nella storia sia stata espressa secondo diverse
denominazioni (re di Sicilia, re di Trinacria, vicereame
spagnolo di Sicilia).
Il titolo di Regia Monarchia, fu incluso nel 1508 da
Giovan Luca Barberi nei Capibrevi, raccolta di
documenti commessagli da Ferdinando il Cattolico per
verificare e rivendicare i diritti della Corona siciliana.
Contravvenendo al metodo seguito per gli altri documenti,
Barberi non ne indicò la fonte. Ne dette inoltre una
interpretazione, secondo la quale i re siciliani erano
legati nati de latere, per diritto ereditario e in perpetuo.
La sua teoria della Monarchia, intesa etimologicamente come
unità di potere temporale e spirituale nei re di Sicilia,
poggia sulla prassi consuetudinaria in materia
ecclesiastica, oltre che sulla concessione di Urbano II. (
S. Fodale, Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II a
Giovan Luca Barberi, in Storia della Sicilia, III, Napoli
1980, pp. 575-600.)
Cesare Baronio (Sora, 30 ottobre 1538 – Roma, 30 giugno
1607) è stato uno storico, religioso e cardinale italiano.
Membro degli Oratoriani di San Filippo Neri, nel 1596 papa
Clemente VIII lo innalzò alla dignità cardinalizia: il suo
nome è legato alla redazione dei primi volumi degli Annales
ecclesiastici (storia della Chiesa dalle origini al 1198) e
alla revisione del Martirologio Romano (1586 - 1589).
Partecipò ai conclavi del 1605 (quelli da cui uscirono
eletti Leone XI e Paolo V); il suo nome fu anche indicato
tra quelli dei papabili, ma la sua elezione fu ostacolata
dalla Spagna (Baronio era filo-francese e aveva pubblicato
il Tractatus de Monarchia Siciliae, contro il dominio
spagnolo sull'Italia meridionale). (da Wikipedia)
Bibliografia
-
Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii
Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis
fratris eius, in R.I.S. 2, V,
1, a cura di E. Pontieri, 1925-1928.
-
S. Fodale, Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano
II a Giovan Luca Barberi, in Storia della Sicilia,
III, Napoli 1980, pp. 575-600.
-
F. Mainetti, La Legazia Apostolica in Sicilia,
in Agora X, luglio-Settembre 2002
-
L. Sciascia,
La corda pazza,
Einaudi 1970
Pagine correlate
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