Le Pagine di Storia

Matteo d’Aiello

di Astrid Filangieri

Tancredi d'Altavilla

Il ritratto che più ci è noto di Matteo d’Aiello è quello tratteggiato da Pietro da Eboli: plebeo, di origini africane, brutto, bigamo [1], che non disdegnava pratiche stregonesche, infatti lo raffigura mentre cura la sua gotta con le estremità inferiori a bagno in un catino in cui un servo fa scorrere il sangue di un individuo a cui aveva appena tagliato il capo. Insomma un essere abietto. Ma Pietro da Eboli era di parte ghibellina,  suo mecenate era  Enrico VI di  Svevia: non poteva certo parlar bene di quello che considerava un nemico del suo protettore. Commentò la morte di d’Aiello con le parole:

Ardeat in medio vicecancellarius Orco.

Matteo d’Aiello è un altro dei personaggi che si distinsero nel periodo Normanno-Svevo. In particolare d’Aiello fu di notevole influenza proprio negli anni che videro il passaggio del meridione d’Italia dal dominio normanno a quello svevo.

Nacque a Salerno da una famiglia non nobile, ma sin da tenera età entrò a corte distinguendosi per diligenza e perizia, prima come scrivano e poi come notaio.

La sua crescita professionale a Palermo avvenne sotto la guida e la protezione dell’ammiraglio Maione; Matteo fu a capo della segreteria della Corona; gli furono affidati importanti incarichi tra cui la redazione, nel 1156, del celebre trattato di Benevento che, grazie alle mediazioni dell’altro salernitano Romualdo Guarna, finalmente chiudeva il periodo di aspre incomprensioni tra Guglielmo I  e papa Adriano IV.

Il d’Aiello era assai  legato alla famiglia regnante ed a Maione, anch’egli di non nobili origini. Da questo, però, si distingueva per non averne lo stesso facile ed affascinate eloquio e per non imitarne la magnificenza ed il lusso sfrenato che agli occhi del popolo non riuscivano certo graditi. D’Aiello si mostrò sempre assai democratico ed attento verso il popolo che lo ricambiò con benevolenza e stima. Nel 1159, in Sicilia e nel resto del regno, fu alimentata dai nobili, invidiosi del successo del non aristocratico Maione, una rivolta contro il ministro pugliese. A Palermo fu ordita una congiura ai danni dell’alto funzionario: d’Aiello gli rimase vicino, ma non riuscì a difenderlo, lui stesso rimase ferito e poi imprigionato, mentre Maione fu ucciso. Ma riuscì a fuggire di prigione mentre il re Guglielmo, che pure era stato preso in ostaggio, veniva a capo della rivolta. Durante  gli incendi ed i saccheggi provocati dai rivoltosi andarono persi i defectari feudali in cui erano contenute le consuetudini feudali, ed i terrorum feudorumque distinctiones ritus et instituta Curiae, cioè il catasto demaniale. Il Re ritenne adatto alla ricomposizione di quei registri il d’Aiello  per cui lo fece cercare, lo reintegrò a corte e lo nominò protonotaro e suo familiare.

Matteo si dimostrò degno amministratore tanto che, quando il Re decise di ritirarsi dal governo, affidò la conduzione dello Stato a d’Aiello assieme all’Eletto di Siracusa, Riccardo Palmer, ed al fidato gaito Pietro. Alla morte di Guglielmo I, d’Aiello fu, per disposizioni testamentarie, tra coloro che fecero parte del consiglio della reggente regina Margherita. Questo fu un periodo burrascoso caratterizzato da discordie ed invidie tra i membri del consiglio e forse agli intrighi partecipò - o dovette partecipare gioco forza -  il d’Aiello, ma più che per il proprio  interesse, probabilmente per l’interesse dello Stato.

Finché non arrivò in Sicilia Stefano di Perche, parente della Regina della quale conquistò i favori, e venne nominato Cancelliere del regno ed arcivescovo di Palermo. La cosa non piacque al d’Aiello e non piacque ai siciliani per l’atteggiamento che Stefano rivelò quando si sentì sicuro di aver conquistato la fiducia dei regnanti e una forte posizione di potere. Iniziò ad accusare ed a far imprigionare i personaggi più fedeli e vicini alla corona, imputandoli di congiurare contro i sovrani. Anche il d’Aiello fu imprigionato (vedere nota n° 2 nella pagina su R. Guarna), ma, grazie alla sua influenza, anche se in carcere riuscì ad organizzare una rivolta. Nonostante gli sforzi della Regina, Stefano dovette abbandonare l’isola e riparare in Palestina.

Le redini del Regno furono tenute dal governo dei dieci tra cui il Nostro. Raggiunta la maggiore età, Guglielmo II dei dieci consiglieri tenne al governo d’Aiello e il suo precettore Gualtieri d’Offamil.

I due rappresentarono gli elementi portanti della politica e della buona conduzione del regno. Tra loro non correva buon sangue sebbene in pubblico e nelle occasioni speciali dimostrassero accordo. Pare che in realtà si odiassero: l’Offamil, assai devoto a Guglielmo II, non aveva a cuore la popolazione ed il futuro dello stato; forse perché in quella terra era pur sempre  uno straniero. Assai più popolare ed amato era il salernitano che, per le sue origini non aveva mai dimenticato le esigenze e i bisogni del ceto inferiore.

Gli anni di governo di Guglielmo II furono sereni e quindi prosperi. Di quel periodo rimangono poche leggi, tramandateci da Pier delle Vigne, e sono opera proprio di Matteo d’Aiello che in tale esercizio si era rivelato valido sin dai tempi di Guglielmo I.

Il Vice-Cancelliere (Cancelliere a tutti gli effetti, giacché durante il regno di Guglielmo II il cancelliere non fu mai nominato), promosse in tutto il regno opere benefiche e non trascurò certo la sua città di origine ove fece costruire un ospedale civile, il primo nel meridione ad amministrazione autonoma, laica, provvisto di un particolare statuto. A Palermo fece edificare il Monastero cistercense della Santa Trinità, più noto come la Magione; il Monastero femminile di Santa Maria de Latinis; l’Ospedale di Tutti i Santi.

Non avendo Guglielmo il Buono figli, si pose il problema della successione al trono: da una parte si prospettava il pericolo che, senza eredi diretti, l’unità del regno si sfaldasse a causa delle pretese dei feudatari; dall’altra c’erano le mire espansionistiche  di Federico Barbarossa sul Meridione d’Italia.

Su questo fondamentale problema politico il d’Aiello subì una forte sconfitta nonostante si fosse battuto con tutte le sue forze.

L’Imperatore tedesco aveva proposto il matrimonio tra suo figlio Enrico e Costanza d’Altavilla, figlia postuma di Ruggero II e zia di Guglielmo. Ma il papa Lucio III bocciò l’idea del Barbarossa. Non dandosi per vinto, il tedesco mandò ambascerie a Palermo: il vicecancelliere si oppose alla proposta in maniera decisa; l’Offamil si mostrò dichiaratamente favorevole. E qui iniziò un vero e proprio braccio di ferro tra i due funzionari. Ma per il salernitano fu una lotta disperata. L’Offamil prospettava l’unione tra la casa d’Altavilla con la casa Sveva come il male minore a fronte del caos in cui sarebbe precipitato il regno in assenza di un forte e potente successore al trono di Palermo; senza trascurare il fatto che con tale soluzione avrebbe ostacolato,  sconfitto e finalmente messo in ombra il popolare suo rivale. Per Matteo d’Aiello si trattava, invece, di preservare la casa degli Altavilla e le sorti del regno. Il suo interesse era quello che oggi si definirebbe amor patrio, non ne faceva una questione personale. Si batté a lungo contro quella che lui prevedeva come un’invasione di orde barbariche germaniche e che avrebbe trasformato un regno ormai compattato e pacificato in una provincia di un impero lontano. Ma la saggezza e la lungimiranza dell’esperto uomo di stato si dimostrò soprattutto nella previsione che i siciliani male avrebbero sopportato una dominazione straniera. L’amore per il popolo da lui amministrato gli aveva permesso di capirne la fierezza e lo spirito indipendente. Le sue parole si sarebbero rivelate veritiere e le sue ammonizioni sarebbero risuonate profetiche anche nelle vicende politiche dei secoli futuri.

Arrigo di Svevia

Per il bene del popolo arrivò a pregare l’Offamill di desistere dal quel progetto matrimoniale; si umiliò sino ad  inginocchiarsi ai piedi dell’irremovibile suo nemico, scongiurandolo di pensare non ai loro personali dissidi, ma al bene ed al futuro della Sicilia.

Alla fine Guglielmo acconsentì alla soluzione del matrimonio tra Costanza e lo Svevo ed indisse a Troia un parlamento in cui fece giurare ai feudatari fedeltà alla zia Costanza quale erede designata al trono di Sicilia. Nel 1186 Costanza sposò Enrico, ma quelle nozze, celebrate dal patriarca di Aquileia, non erano approvate neppure dal nuovo papa.

Le nozze di Arrigo e Costanza

Negli anni successivi, il d’Aiello, anziano e malato - soprattutto di gotta - chiese al suo sovrano di potersi ritirare in un monastero basiliano di Messina in qualità di oblato.

Morto Guglielmo (1189) tutti i timori del vecchio cancelliere si avverarono e fu richiamato ad occuparsi nuovamente di politica. Le lotte tra fazioni infiammarono tutto il regno e l’opera di d’Aiello e della sua famiglia furono atte a sostenere Tancredi d’Altavilla che fu incoronato in Palermo con il benestare pontificio. Ma i disordini da domare, oltre alle pretese sul regno di Sicilia cui far fronte, cercando di accontentare gli altri pretendenti,  furono tanti. Nel 1191 Enrico VI venne in Italia. In tutto il regno si rianimarono le fazioni pro-Enrico o a sostegno di Tancredi. A Salerno a capo del partito degli Altavilla era Niccolò d’Aiello, figlio di Matteo, e successore di Romualdo II Guarna alla cattedra arcivescovile. Fu proprio Niccolò tra i più audaci e valorosi organizzatori della disperata resistenza di Napoli agli assalti di Enrico VI.

Enrico, ammalatosi per una pestilenza che aveva colpito le sue truppe, e curato dal Maestro salernitano Girardo, dovette tornare in Germania a sedare i disordini sorti a seguito della diffusione della falsa notizia della sua morte. Rimase impegnato in patria alcuni anni, mentre il partito di Tancredi riprendeva forza.

Il vecchio cancelliere morì nel 1193 prima che gli eventi precipitassero.Prima morì il giovane Ruggero, che il padre Tancredi aveva associato al trono come Ruggero III, e poi morì lo stesso re.

Rimase sul trono l’altro suo figlio, il piccolo Guglielmo d’Altavilla, sotto la reggenza della madre Sibilla. La Regina ed il piccolo Guglielmo III rimasero soli, pochissimi fedeli restarono loro accanto. Con la famiglia Altavilla condivisero la sorte della fuga e della resistenza nel castello di Caltabellotta,  poi l’inganno di Enrico VI, il vecchio e  fidato Ammiraglio  Margaritone, e i fratelli d’Aiello: Niccolò, presule di Salerno, il conte Riccardo, che forse in quel periodo era  cancelliere come lo era stato suo padre, e Giovanni. Questi sono anche i personaggi rappresentati attorno alla regina Sibilla in una delle miniature che illustrano il poema di Pietro da Eboli.

Astrid Filangieri


Bibliografia

  • Carlo Carucci; La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna; Biblosteca

  • Romualdo II Guarna; Chronicon. a cura di Cinzia Bonetti; Avagliano Editore

  • Gallo- Troisi; Salerno, profilo storico-cronologico; Palladio

  • Errico Cuozzo; Federico II di Svevia e il Regnum Siciliae; Gentile Editore


Note

[1]  E’ una delle tante malignità di Pietro. In verità Matteo d’Aiello non era bigamo perché si risposò qualche anno dopo essere rimasto vedovo della prima moglie.

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino- il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2006: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato