Il ritratto
che più ci è noto di Matteo d’Aiello è quello tratteggiato da
Pietro da
Eboli: plebeo, di origini africane, brutto, bigamo, che non
disdegnava pratiche stregonesche, infatti lo raffigura mentre cura la
sua
gotta con le estremità inferiori a bagno in un catino in cui un servo fa
scorrere il sangue di un individuo a cui aveva appena tagliato il capo.
Insomma un essere abietto. Ma Pietro da Eboli era di parte ghibellina,
suo mecenate era Enrico VI di Svevia: non poteva certo parlar bene di
quello che considerava un nemico del suo protettore. Commentò la morte
di d’Aiello con le parole:
Ardeat in
medio vicecancellarius Orco.
Matteo d’Aiello
è un altro dei personaggi che si distinsero nel periodo Normanno-Svevo.
In particolare d’Aiello fu di notevole influenza proprio negli anni che
videro il passaggio del meridione d’Italia dal dominio normanno a quello
svevo.
Nacque a
Salerno da una famiglia non nobile, ma sin da tenera età entrò a corte
distinguendosi per diligenza e perizia, prima come scrivano e poi come
notaio.
La sua
crescita professionale a Palermo avvenne sotto la guida e la protezione
dell’ammiraglio Maione; Matteo fu a capo della segreteria della Corona;
gli furono affidati importanti incarichi tra cui la redazione, nel 1156,
del celebre trattato di Benevento che, grazie alle mediazioni dell’altro
salernitano Romualdo Guarna, finalmente chiudeva il periodo di aspre
incomprensioni tra Guglielmo I e papa Adriano IV.
Il d’Aiello
era assai legato alla famiglia regnante ed a Maione, anch’egli di non
nobili origini. Da questo, però, si distingueva per non averne lo stesso
facile ed affascinate eloquio e per non imitarne la magnificenza ed il
lusso sfrenato che agli occhi del popolo non riuscivano certo graditi.
D’Aiello si mostrò sempre assai democratico ed attento verso il popolo
che lo ricambiò con benevolenza e stima. Nel 1159, in Sicilia e nel
resto del regno, fu alimentata dai nobili, invidiosi del successo del
non aristocratico Maione, una rivolta contro il ministro pugliese. A
Palermo fu ordita una congiura ai danni dell’alto funzionario: d’Aiello
gli rimase vicino, ma non riuscì a difenderlo, lui stesso rimase ferito
e poi imprigionato, mentre Maione fu ucciso. Ma riuscì a fuggire di
prigione mentre il re Guglielmo, che pure era stato preso in ostaggio,
veniva a capo della rivolta. Durante gli incendi ed i saccheggi
provocati dai rivoltosi andarono persi i defectari feudali in cui
erano contenute le consuetudini feudali, ed i terrorum feudorumque
distinctiones ritus et instituta Curiae, cioè il catasto demaniale.
Il Re ritenne adatto alla ricomposizione di quei registri il d’Aiello
per cui lo fece cercare, lo reintegrò a corte e lo nominò protonotaro e
suo familiare.
Matteo si
dimostrò degno amministratore tanto che, quando il Re decise di
ritirarsi dal governo, affidò la conduzione dello Stato a d’Aiello
assieme all’Eletto di Siracusa, Riccardo Palmer, ed al fidato gaito
Pietro. Alla morte di Guglielmo I, d’Aiello fu, per disposizioni
testamentarie, tra coloro che fecero parte del consiglio della reggente
regina Margherita. Questo fu un periodo burrascoso caratterizzato da
discordie ed invidie tra i membri del consiglio e forse agli intrighi
partecipò - o dovette partecipare gioco forza - il d’Aiello, ma più che
per il proprio interesse, probabilmente per l’interesse dello Stato.
Finché non
arrivò in Sicilia Stefano di Perche, parente della Regina della quale
conquistò i favori, e venne nominato Cancelliere del regno ed
arcivescovo di Palermo. La cosa non piacque al d’Aiello e non piacque ai
siciliani per l’atteggiamento che Stefano rivelò quando si sentì sicuro
di aver conquistato la fiducia dei regnanti e una forte posizione di
potere. Iniziò ad accusare ed a far imprigionare i personaggi più fedeli
e vicini alla corona, imputandoli di congiurare contro i sovrani. Anche
il d’Aiello fu imprigionato (vedere nota n° 2 nella
pagina su R. Guarna), ma, grazie alla sua influenza, anche se in
carcere riuscì ad organizzare una rivolta. Nonostante gli sforzi della
Regina, Stefano dovette abbandonare l’isola e riparare in Palestina.
Le redini del
Regno furono tenute dal governo dei dieci tra cui il Nostro. Raggiunta
la maggiore età, Guglielmo II dei dieci consiglieri tenne al governo d’Aiello
e il suo precettore Gualtieri d’Offamil.
I due
rappresentarono gli elementi portanti della politica e della buona
conduzione del regno. Tra loro non correva buon sangue sebbene in
pubblico e nelle occasioni speciali dimostrassero accordo. Pare che in
realtà si odiassero: l’Offamil, assai devoto a Guglielmo II, non aveva a
cuore la popolazione ed il futuro dello stato; forse perché in quella
terra era pur sempre uno straniero. Assai più popolare ed amato era il
salernitano che, per le sue origini non aveva mai dimenticato le
esigenze e i bisogni del ceto inferiore.
Gli anni di
governo di Guglielmo II furono sereni e quindi prosperi. Di quel periodo
rimangono poche leggi, tramandateci da Pier delle Vigne, e sono opera
proprio di Matteo d’Aiello che in tale esercizio si era rivelato valido
sin dai tempi di Guglielmo I.
Il
Vice-Cancelliere (Cancelliere a tutti gli effetti, giacché durante il
regno di Guglielmo II il cancelliere non fu mai nominato), promosse in
tutto il regno opere benefiche e non trascurò certo la sua città di
origine ove fece costruire un ospedale civile, il primo nel meridione ad
amministrazione autonoma, laica, provvisto di un particolare statuto. A
Palermo fece edificare il Monastero cistercense della Santa Trinità, più
noto come la Magione; il Monastero femminile di Santa Maria de Latinis;
l’Ospedale di Tutti i Santi.
Non avendo
Guglielmo il Buono figli, si pose il problema della successione al
trono: da una parte si prospettava il pericolo che, senza eredi diretti,
l’unità del regno si sfaldasse a causa delle pretese dei feudatari;
dall’altra c’erano le mire espansionistiche di Federico Barbarossa sul
Meridione d’Italia.
Su questo
fondamentale problema politico il d’Aiello subì una forte sconfitta
nonostante si fosse battuto con tutte le sue forze.
L’Imperatore
tedesco aveva proposto il matrimonio tra suo figlio Enrico e Costanza
d’Altavilla, figlia postuma di Ruggero II e zia di Guglielmo. Ma il papa
Lucio III bocciò l’idea del Barbarossa. Non dandosi per vinto, il
tedesco mandò ambascerie a Palermo: il vicecancelliere si oppose alla
proposta in maniera decisa; l’Offamil si mostrò dichiaratamente
favorevole. E qui iniziò un vero e proprio braccio di ferro tra i due
funzionari. Ma per il salernitano fu una lotta disperata. L’Offamil
prospettava l’unione tra la casa d’Altavilla con la casa Sveva come il
male minore a fronte del caos in cui sarebbe precipitato il regno in
assenza di un forte e potente successore al trono di Palermo; senza
trascurare il fatto che con tale soluzione avrebbe ostacolato,
sconfitto e finalmente messo in ombra il popolare suo rivale. Per Matteo
d’Aiello si trattava, invece, di preservare la casa degli Altavilla e le
sorti del regno. Il suo interesse era quello che oggi si definirebbe
amor patrio, non ne faceva una questione personale. Si batté a lungo
contro quella che lui prevedeva come un’invasione di orde barbariche
germaniche e che avrebbe trasformato un regno ormai compattato e
pacificato in una provincia di un impero lontano. Ma la saggezza e la
lungimiranza dell’esperto uomo di stato si dimostrò soprattutto nella
previsione che i siciliani male avrebbero sopportato una dominazione
straniera. L’amore per il popolo da lui amministrato gli aveva permesso
di capirne la fierezza e lo spirito indipendente. Le sue parole si
sarebbero rivelate veritiere e le sue ammonizioni sarebbero risuonate
profetiche anche nelle vicende politiche dei secoli futuri.
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Arrigo di Svevia
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Per il bene
del popolo arrivò a pregare l’Offamill di desistere dal quel progetto
matrimoniale; si umiliò sino ad inginocchiarsi ai piedi
dell’irremovibile suo nemico, scongiurandolo di pensare non ai loro
personali dissidi, ma al bene ed al futuro della Sicilia.
Alla fine
Guglielmo acconsentì alla soluzione del matrimonio tra Costanza e lo
Svevo ed indisse a Troia un parlamento in cui fece giurare ai feudatari
fedeltà alla zia Costanza quale erede designata al trono di Sicilia. Nel
1186 Costanza sposò Enrico, ma quelle nozze, celebrate dal patriarca di
Aquileia, non erano approvate neppure dal nuovo papa.
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Le nozze di Arrigo e Costanza
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Negli anni
successivi, il d’Aiello, anziano e malato - soprattutto di gotta -
chiese al suo sovrano di potersi ritirare in un monastero basiliano di
Messina in qualità di oblato.
Morto
Guglielmo (1189) tutti i timori del vecchio cancelliere si avverarono e
fu richiamato ad occuparsi nuovamente di politica. Le lotte tra fazioni
infiammarono tutto il regno e l’opera di d’Aiello e della sua famiglia
furono atte a sostenere Tancredi d’Altavilla che fu incoronato in
Palermo con il benestare pontificio. Ma i disordini da domare, oltre
alle pretese sul regno di Sicilia cui far fronte, cercando di
accontentare gli altri pretendenti, furono tanti. Nel 1191 Enrico VI
venne in Italia. In tutto il regno si rianimarono le fazioni pro-Enrico
o a sostegno di Tancredi. A Salerno a capo del partito degli Altavilla
era Niccolò d’Aiello, figlio di Matteo, e successore di Romualdo II
Guarna alla cattedra arcivescovile. Fu proprio Niccolò tra i più audaci
e valorosi organizzatori della disperata resistenza di Napoli agli
assalti di Enrico VI.
Enrico,
ammalatosi per una pestilenza che aveva colpito le sue truppe, e curato
dal Maestro salernitano Girardo, dovette tornare in Germania a sedare i
disordini sorti a seguito della diffusione della falsa notizia della sua
morte. Rimase impegnato in patria alcuni anni, mentre il partito di
Tancredi riprendeva forza.
Il vecchio
cancelliere morì nel 1193 prima che gli eventi precipitassero.Prima
morì il giovane Ruggero, che il padre Tancredi aveva associato al trono
come Ruggero III, e poi morì lo stesso re.
Rimase sul
trono l’altro suo figlio, il piccolo Guglielmo d’Altavilla, sotto la
reggenza della madre Sibilla. La Regina ed il piccolo Guglielmo III
rimasero soli, pochissimi fedeli restarono loro accanto. Con la famiglia
Altavilla condivisero la sorte della fuga e della resistenza nel
castello di Caltabellotta, poi l’inganno di Enrico VI, il vecchio e
fidato Ammiraglio Margaritone, e i fratelli d’Aiello: Niccolò, presule
di Salerno, il conte Riccardo, che forse in quel periodo era
cancelliere come lo era stato suo padre, e Giovanni. Questi sono anche i
personaggi rappresentati attorno alla regina Sibilla in una delle
miniature che illustrano il poema di Pietro da Eboli.
Astrid Filangieri
Bibliografia
-
Carlo
Carucci; La provincia di Salerno dai tempi più remoti al
tramonto della fortuna normanna; Biblosteca
-
Romualdo
II Guarna; Chronicon. a cura di Cinzia Bonetti; Avagliano
Editore
-
Gallo-
Troisi; Salerno, profilo storico-cronologico; Palladio
-
Errico Cuozzo; Federico
II di Svevia e il Regnum Siciliae; Gentile Editore
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