Sud Illustre

 


 

Antonio Gramsci

La vita, le opere, il pensiero, l'eredità culturale e spirituale

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso (1)

Antonio Gramsci (Ales 1891 - Roma 1937)

La vita

Antonio Gramsci nacque il 22 gennaio del 1891 ad Ales, in provincia di Cagliari, da Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias. In verità la famiglia del padre Francesco viveva a Gaeta ed era originaria di Plataci, un paese di cultura albanese della Calabria. Era studente in legge quando, per la morte del padre, fu costretto ad interrompere gli studi ed a cercare un lavoro che trovò come impiegato nell'Ufficio del registro di Ghilarza, in Sardegna, dove si trasferì nel 1881. Fu lì che conobbe Peppina (Giuseppina Marcias), che sposò nel 1883. Questa brevissima sintesi genealogica serve a spiegare il motivo per cui abbiamo inserito Antonio Gramsci tra gli autori meridionali.

Tre anni dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a Sòrgono (Nuoro), dove Antonio frequenta un asilo di suore. In seguito ad una caduta si acuisce e si cronicizza una malattia deformante (morbo di Pott) che causa l’incurvamento della spina dorsale. Nel 1897 il padre viene incarcerato per irregolarità amministrative. Tali fatti segneranno Gramsci per tutta la vita. Nel 1902, conseguita la licenza elementare, nonostante le precarie condizioni di salute, è costretto ad affiancare il lavoro allo studio, per aiutare la famiglia, in gravi difficoltà economiche. Nel 1908 si trasferisce a Cagliari per iscriversi al liceo e vive in casa del fratello Gennaro, segretario della sezione locale del Partito Socialista. Questa è la stagione in cui a Cagliari cominciano i primi movimenti sociali, fatto che influisce profondamente sulla sua formazione ideologica. Il giovane Gramsci legge moltissimo e si distingue per i suoi interessi culturali, in particolare è affascinato da Croce e da Salvemini.

Nel 1911 vince una borsa di studio per la Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, dove si trasferisce. Il capoluogo piemontese in quel periodo è in pieno boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia, con i loro stabilimenti, hanno richiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro. Cominciano le lotte di fabbrica e sorgono le prime organizzazioni sindacali. È in questo periodo della sua vita, studiando i processi produttivi nelle fabbriche, che si impegna a far acquisire alla classe operaia «la coscienza e l’orgoglio di produttori». Verso la fine del 1913, sempre più immerso in questo contesto sociale, Gramsci si avvicina alla sezione socialista di Torino, iniziando una attiva collaborazione con il «Grido del popolo». Abbandona quindi gli studi per dedicarsi attivamente alla politica.

Nel 1915 comincia la sua collaborazione con l’«Avanti!», organo ufficiale del Partito Socialista Italiano. È anche l’anno in cui l’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa, e in cui Lenin invita i comunisti a trasformare «la guerra imperialista in guerra civile».

Nel 1917 scoppia la rivoluzione che porterà al potere il Partito bolscevico in Russia.

Intanto Gramsci diventa segretario della sezione esecutiva del Partito socialista piemontese e gli viene affidata la direzione de il «Grido del popolo». Contemporaneamente si occupa della stesura di «La città futura», una rivista a numero unico ideata per educare i giovani socialisti. La situazione si protrae fino al 1918, quando le pubblicazioni del Grido cessano, e nasce la redazione piemontese dell’«Avanti!», a cui Gramsci prende subito parte. Nel 1919 è tra i fondatori dell’«Ordine nuovo», settimanale che si schiera per l’adesione del Psi all’Internaziona-le comunista.

Intanto in Italia comincia quel periodo di disordini, che poi verrà chiamato il “biennio rosso”, durante il quale gli operai manifestano il proprio malcontento, occupando le fabbriche in cui lavorano. In questo periodo, Gramsci si batte per l’affermazione dei consigli di fabbrica, sostenendo che questi debbano essere eletti da tutti i lavoratori, affinché gli operai stessi assumano anche una funzione dirigente. L’iniziativa ottiene il plauso anche di Piero Gobetti [1] e dai suoi neo-liberalisti, ma non viene vista di buon occhio dai massimalisti del Psi.

Gramsci intanto si avvicina all’ala di sinistra del Partito socialista, guidata da Bordiga.

Nel gennaio del 1921 a Livorno, durante i lavori del 17° congresso nazionale del Psi, è uno dei promotori della scissione del Partito socialista e della successiva fondazione del "Partito comunista d'Italia" (PCI) [2]; Gramsci assume la direzione dell’«Ordine nuovo», che diventa il quotidiano di informazione del Pcd’I. Dal maggio del 1922 Gramsci comincia a viaggiare. Prima va a Mosca, come delegato del Partito comunista d’Italia, dove può studiare da vicino la politica di Lenin e gli effetti della Dittatura del proletariato. In Russia conosce e si innamora di Giulia Schudt, che diventerà sua moglie e la madre dei suoi due figli. Intanto, in Italia, le squadre fasciste guidate da Benito Mussolini, con la complice indifferenza di Vittorio Emanuele III, portano a termine la Marcia su Roma.

Renato Guttuso, Notte

L’anno successivo Gramsci in novembre, viene invitato a Vienna per coordinare il lavoro del Pcd’I con quello degli altri partiti comunisti europei. Nel febbraio 1924 divenuto segretario generale del Pcd’I fonda il quotidiano "L’Unità" (il cui significativo sottotitolo era "Quotidiano degli operai e dei contadini"). In aprile viene eletto deputato per la circoscrizione Veneto. Le elezioni sono però vinte dai fascisti, grazie ad evidenti brogli denunciati in Parlamento da Giacomo Matteotti. Come sappiamo, Matteotti viene messo a tacere secondo le spicce metodologie fasciste: è assassinato. L’uccisione di Matteotti provoca una violenta reazione parlamentare, alla quale Gramsci partecipa attivamente. Il Pcd’I propone un’azione diretta e l’appello alle masse, ma la sua mozione viene bocciata, il re riconferma la fiducia a Mussolini ed al fascismo. Le forze di opposizione al fascismo, guidate da Giovanni Amendola, abbandonano per protesta il Parlamento.

Nel gennaio del 1926, durante i lavori del III congresso del Partito comunista d’Italia, tenutosi a Lione per evitare rappresaglie, Gramsci presenta le Tesi politiche [3] insieme a Togliatti, che vengono approvate con il novanta percento delle preferenze. Dopo pochi mesi però, i suoi rapporti con l’Internazionale comunista cominciano a deteriorarsi, a causa di una sua lettera indirizzata al Partito bolscevico, in cui sottolinea la preoccupazione per le divisioni interne, ed in cui si dissocia sia dall’opposizione sia dai metodi della maggioranza guidata da Stalin. Togliatti si rifiuta di inoltrare ufficialmente la lettera, e da ciò nasce una accesa polemica. Elaborando alcuni dei temi affrontati nelle Tesi di Lione, nel settembre del ’26, Gramsci inizia a scrivere un saggio sulla questione meridionale dal titolo Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizza il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, represse a fucilate dal Crispi, al 1898 anno dell'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, anziché allearsi con le forze agrarie, con conseguente politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, ha scelto di favorire il blocco industriale-operaio, con l’imposizione del protezionismo doganale (unitamente alla concessione di alcune libertà sindacali).

Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, Giolitti cerca quindi un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord, creando di fatto l’alleanza borghesia-contadini. Il problema è allora, per Gramsci, di perseguire una politica di opposizione, che rompa quell'alleanza dannosa, facendo convergere le istanze contadine con quelle della classe operaia.

La società meridionale, vista da Gramsci, era costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra, ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del calibro di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato: sono, quelli i principali e più raffinati sostenitori della conservazione del blocco agrario.

Per poter spezzare il blocco, sostiene Gramsci, è necessaria la formazione di un ceto di intellettuali medi, che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano.

Quello stesso anno 1926, a novembre, in seguito alle leggi speciali emendate dal parlamento fascista contro le opposizioni, Gramsci viene arrestato. Condannato inizialmente a cinque anni di confino sull’isola di Ustica, vi passerà solo sei settimane durante le quali riesce a organizzare una scuola per i rifugiati politici. Viene pertanto trasferito a San Vittore dove, mai domo, comincia a preparare un ampio studio sugli intellettuali italiani. Alla fine di maggio del 1928 viene condannato a vent’anni quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Nel luglio del 1929 viene trasferito nella colonia penale di Turi, nei pressi di Bari, per motivi di salute. Qui divide la cella con altri cinque detenuti politici.

Durante la prigionia, Gramsci riesce a completare i propri studi ed a partecipare al vivace dibattito sviluppatosi negli anni '30 all'interno del movimento comunista. Manifesta, in particolare, le sue riserve sulle posizioni dell'Internazionale Comunista, secondo cui è imminente la caduta dei regimi capitalistici ed autoritari (a cominciare dal fascismo), nonché quella delle socialdemocrazie europee, accusate di "socialfascismo". Gramsci respinge radicalmente tali valutazioni, ed alla prospettiva di uno scontro rivoluzionario a breve termine col capitalismo, contrappone una linea molto più articolata, la cosiddetta "guerra di posizione", aperta all'accettazione di fasi e modalità di lotta democratica considerate ineludibili. Queste posizioni, lontane da quelle dell’Internazionale, gli procurarono non poche inimicizie. Oltre alle riflessioni politiche, Gramsci non trascura un impegno di carattere più teorico. Con l’aiuto di alcuni amici, riesce ad avere libri e riviste, grazie ai quali realizza studi ed indagini di grande rilievo. Nel 1929 ottiene il permesso di scrivere in cella e inizia la stesura dei Quaderni dal carcere.

Il 1931 è l’anno in cui le condizioni di Gramsci cominciano a peggiorare. Viene trasferito in una cella individuale dove continua a dedicarsi allo studio. Inesorabilmente, continua il peggioramento: due anni dopo viene trasferito nell’infermeria di Regina Coeli, e poi da qui in una clinica.

Intanto falliscono i tentativi diplomatici fatti da Mosca per ottenere la sua liberazione. La vita in carcere è ulteriormente amareggiata dal deteriorarsi dei rapporti con il Pcd’I e Gramsci si trova totalmente isolato. Scrive in questo periodo: «Io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d'animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico».

Nel 1934 ottiene la libertà condizionata per motivi di salute. Quando però consegue la scarcerazione definitiva, nel 1937, le sue condizioni fisiche sono oramai troppo compromesse. Morirà il 27 aprile dello stesso anno. Le sue ceneri sono conservate al Cimitero degli Inglesi, a Roma.

Le Opere

Antonio Gramsci ci ha lasciato innumerevoli scritti di argomento sia politico che culturale, ancora oggi considerati con grande attenzione dagli intellettuali italiani appartenenti ad ogni corrente. I brani considerati più importanti sono quelli prodotti durante la prigionia. L’opera Quaderni dal carcere è una raccolta delle pagine scritte dal 1929 al 1935, pubblicate postume con i titoli: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura; Il Risorgimento; Note su Machiavelli, la politica e lo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale. Accanto a questi troviamo un’altra raccolta, Lettere dal carcere, anch’essa pubblicata postuma. Nelle sue lettere ad amici e parenti possiamo comprendere la parte più privata del pensiero gramsciano, la sua lotta contro l’abbrutimento del carcere e il suo desiderio di stare vicino alla famiglia. Oltre a queste due raccolte troviamo una miriade di altri suoi scritti, alcune lettere, diversi articoli di giornale e un’intera rivista chiamata «La città futura», che sono stati raccolti e pubblicati in volumi dopo la caduta del fascismo.

Nei Quaderni del carcere Gramsci condensa sotto forma di appunti, pagine sparse e veri e propri saggi riguardanti ambiti culturali diversi, la storia, la filosofia (soprattutto quella idealista e marxista), la teoria politica (con particolare riferimento ai problemi connessi alla rivoluzione socialista), la critica letteraria e della cultura.

Il Pensiero

L’intento di Gramsci é quello di individuare le condizioni per la transizione al comunismo nella specificità della situazione italiana. In quest’ottica, ipotizzò l'alleanza tra gli operai del nord e i contadini del sud e, al tempo stesso, la conquista di un'egemonia sulla società civile, da attuare attraverso lo studio della storia. La supremazia di una classe all'interno della società si manifesta, infatti, attraverso la forza e attraverso la direzione intellettuale e morale. Il momento della forza appartiene alla società politica, mentre quello del consenso appartiene alla società civile: gli intellettuali hanno il compito di creare il consenso, mentre la classe politica ha il compito di servirsi della forza per raggiungere ciò che non é ottenibile con il consenso. Quest'ultima ha, dunque, bisogno di intellettuali al suo servizio. Negli Stati moderni è compito dei partiti, che Gramsci paragona al Principe di Machiavelli, l'organizzazione all'interno della società civile delle forze necessarie per conquistare lo Stato, ma a tale scopo occorre prima ottenere l'egemonia nella società civile: di qui l'importanza degli intellettuali organici alla classe, di cui il partito rappresenta la punta avanzata.

L'egemonia politico-culturale, all'interno di una società, é conseguente alla formazione di quello che Gramsci definisce blocco storico: in esso le forze materiali sono il contenuto, mentre le ideologie sono la forma; grazie alle ideologie le forze materiali possono essere comprese nella loro specificità storica, mentre, senza forze materiali, le ideologie sarebbero solo vuote astrazioni. L'elemento popolare, infatti, “sente”, ma non sempre comprende e sa, l'elemento intellettuale invece, “sa”, ma non sempre “sente”. L'errore dell'intellettuale sta infatti nel credere che si possa sapere senza sentire, cioè nel credere di poter essere un intellettuale staccato dalle concezioni del mondo e dalle passioni del popolo-nazione.

Se non si collegano le visioni del mondo del popolo alla visione scientifica, gli intellettuali si trasformano in una casta sacerdotale; se invece riescono a realizzare un'unità organica, allora si costituisce una nuova forza sociale, un nuovo blocco storico. La politica é il momento di saldatura fra la filosofia, elaborata dagli intellettuali, ed il senso comune del popolo. La filosofia in grado di fornire la teoria necessaria alla costituzione del nuovo blocco storico, incentrato sulla classe operaia e sull'alleanza coi contadini, é la filosofia della prassi.

La Prassi e il rapporto con Croce

Il concetto che esprime nel modo più diretto la prospettiva "umanistica" e "attivistica" della filosofia gramsciana è quello di "praxis". Gramsci si riallaccia all'opera di Antonio Labriola, il quale con questa nozione si era proposto di superare criticamente le concezioni da un lato idealistiche e coscienzialistiche, dall'altro naturalistiche e positivistiche dell'umano e del sociale. Gramsci intende sviluppare e approfondire un programma teorico analogo a quello labriolano. Egli pensa alla prassi come una mediazione tra gli uomini e la realtà, in quanto natura ed esperienza ed in quanto complesso di tradizioni e istituzioni. Attraverso la prassi gli agenti storico-sociali conoscono e trasformano il mondo, tenendo conto del contesto concreto in cui operano. È attraverso la prassi che gli uomini realizzano la loro crescita ed emancipazione sociale, e che la storia procede nel suo itinerario. In conclusione, l'essenza più originale e profonda della filosofia gramsciana poggia su quattro temi: l'assenza di fondamenti trascendenti, l'operare umano (immanentismo), la necessità di concepire la struttura sociale in modo storico-concreto (antispeculativismo), la centralità degli uomini come soggetti, valori e motori del cammino storico (umanesimo) e la radicale storicità delle situazioni pratiche e delle dottrine intellettuali (compreso lo stesso marxismo).

Scrive Gramsci "La filosofia della praxis deriva certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo. Se il concetto di struttura viene concepito “speculativamente” certo esso diventa un “dio ascoso”; ma appunto esso non deve essere concepito speculativamente ma storicamente, come l' insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà che si è liberata di ogni residuo di trascendenza e di teologia." (Quaderni del carcere, IX, 1, VIII).

È opportuno a questo punto analizzare la posizione di Gramsci nei confronti di Croce. Per Gramsci il motivo sostanziale della grande diffusione e popolarità delle concezioni di Croce è “intrinseco al suo stesso pensiero e al metodo del suo pensare”, ed è da ricercare “nella maggiore adesione alla vita della filosofia del Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa”.

Rispetto a quelle dei filosofi "tradizionali", infatti, le principali caratteristiche della dottrina crociana sono, secondo Gramsci: “la dissoluzione del concetto di 'sistema' chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia: affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta”. In questa adesione della filosofia crociana alla vita ed alla storia, nella sua lotta contro la trascendenza e la teologia, Gramsci individua il forte influsso esercitato su Croce dalla "filosofia della prassi". Non è un caso, sottolinea Gramsci, che quando andava gettando le basi della propria concezione, Croce aveva verso il marxismo un atteggiamento tutt'altro che negativo. Egli aveva scorto in esso, in particolare, un fecondo canone empirico per l'interpretazione della storia. Inoltre, aveva giudicato la teoria del valore-lavoro, come il risultato di un paragone 'ellittico' fra un'astratta società lavoratrice e la società borghese moderna: ma non aveva negato qualsiasi valore a quel paragone, ammettendo anzi che costituiva un notevole contributo ad un'economia sociologica comparata. Infine aveva ricavato dalla filosofia della prassi alcune tesi di fondamentale importanza: dalla dottrina dell'origine pratica dell'errore, alla concezione delle ideologie politiche considerate costruzioni pratiche e strumenti di direzione politica. Sennonché Croce, secondo Gramsci, ha poi inserito tutti questi elementi realistici all'interno di una dottrina 'speculativa' (nel senso negativo del termine), che costituisce un grave arretramento, non solo rispetto alla filosofia della prassi, ma anche rispetto allo stesso hegelismo. Anzi la concezione di Croce costituisce per Gramsci una sorta di "hegelismo mutilato" in quanto stravolge, “addomesticandola” la dialettica hegeliana (Quaderni del carcere, X, 1, VI)

Contro la tendenza oggettivistica a fare della dialettica un principio esplicativo sia della natura sia della storia, Gramsci rivendica l'irriducibilità del sapere sociale a quello naturale. La prassi comprende sia la globalità dell'azione umana nel mondo sia la trasformazione rivoluzionaria della realtà. Proprio la tensione rivoluzionaria permette la comprensione dei meccanismi di dominio e dei rapporti tra le classi sociali, nella cui indagine si delinea il pensiero storico e politico di Gramsci. Questo si concentra nella concezione del partito operaio come intellettuale collettivo, erede del compito di unificazione sociale rimasto incompiuto nel Risorgimento.

Nella sua opera Il Risorgimento, vengono criticamente analizzati i risultati dei moti che portarono all'unità d'Italia e se ne denunciano i limiti, proprio nella mancata attuazione dell’unione tra borghesia e proletariato urbano ed i contadini delle campagne.

Renato Guttuso, portella delle Ginestre

Secondo Gramsci infatti l'egemonia culturale in Italia é rappresentata dalla filosofia di Benedetto Croce, intellettuale organico al blocco storico della borghesia. Nei confronti di Croce, egli intendeva in qualche modo compiere l'operazione di rovesciamento compiuta da Marx nei confronti di Hegel. La differenza, però, sta nel fatto che Croce é venuto dopo Marx: gran parte della sua filosofia, infatti, non é che un tentativo, secondo Gramsci, di subordinare il marxismo all'idealismo. Individuando la centralità della storia etico-politica, Croce riconosce l'importanza del movimento sovrastrutturale dell'egemonia e, in questo senso, permette di sfuggire alle interpretazioni materialistiche, economicistiche e deterministiche del marxismo.

La filosofia della prassi, facendo della concezione crociana della storia etico-politica un canone di ricerca empirica, può fare storia globale, non solo economica o etico-politica. In questo modo, essa si può configurare come vero e proprio storicismo, mentre quello crociano, parlando dello spirito e delle sue attività, rimane imprigionato nelle maglie del linguaggio speculativo e teologico. Come storicismo coerente, la filosofia della prassi può essere essa stessa un momento storico meramente transitorio, vincolato ad una fase della società, di cui essa esprime coscientemente le contraddizioni. Col passaggio al regno della libertà, cioè al comunismo, é prevedibile che anche la filosofia della prassi arrivi al tramonto, per lasciar spazio a nuove forme di pensiero, non più originate dalle contraddizioni, inesistenti in una società comunista caratterizzata dalla libertà e dall'uguaglianza.

Nei Quaderni del carcere Gramsci parla anche di “cesarismo” [4], riferendosi ad un conflitto in cui le due parti interessate sono in equilibrio, tanto che la situazione può solo risolversi con una distruzione reciproca:

“Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo questo, com’era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche. Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione "arbitrale", affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico.

Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica rivoluzione-restaurazione è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in toto.

Del resto il cesarismo è una formula polemico-ideologica e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità "eroica e rappresentativa". Il sistema parlamentare ha dato anch’esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. […]” ( Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, vol. III, p.1619-1622)

Il vero nemico contro cui muovere guerra diventa allora l'indifferenza: “l'indifferenza é il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, é la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica “. (La città Futura, 1917, numero unico)

Il pensiero di Gramsci, dove ideologia, filosofia e prassi politica trovavano una profonda unità, era volto verso la comprensione della reale situazione italiana dell'epoca e nella certezza della possibilità di trasformarla in senso socialista.

Gramsci considerava il fascismo come punto massimo di crisi della società borghese (massima espressione della dittatura del capitale), poiché alla classe dominante, priva della egemonia sociale, intellettuale e morale che cattura il consenso delle masse, rimaneva solo la forza coercitiva. È da sottolineare, secondo noi, che sia Gramsci che Croce in realtà non hanno compreso pienamente il fascismo che hanno subìto: non hanno considerato, diversamente da Gobetti, che il fascismo era “l’autobiografia della nazione”, il rigurgito di tutti i difetti travestiti da virtù.

La valorizzazione del concetto di cultura, non più vista come fatto aristocratico, ma come mezzo per acquistare consapevolezza della realtà, portò Gramsci a elaborare la nozione di “organizzazione della cultura” e quindi la necessità di rapporti profondi fra organizzazione economico-sociale e visione del mondo, fra lotta di classe e scoperta scientifica e artistica.

La convinzione che la cultura avesse radici nel terreno storico-pratico nel quale era contenuta e che quindi vi era identità tra filosofia e storia, lo portò a polemizzare con l'idealismo di Croce, visto in funzione ideologica di conservazione borghese, e a individuare la funzione del nuovo intellettuale nella società contemporanea come portatore ed elaboratore professionale dell'ideologia del “blocco storico”.

Estetica

In campo estetico-letterario, la tesi centrale di Gramsci è stata l'affermazione del nesso inscindibile che deve unire lo scrittore al popolo, delle cui esigenze materiali e spirituali egli deve farsi interprete (concetto di "intellettuale organico"). Di qui la polemica contro il cosmopolitismo e contro l'apoliticismo e quindi la negazione sia di un'arte cosmica, ispirata ai valori astratti dell'umanità, sia di un'arte pura e individuale. La letteratura, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere nazionale-popolare, cioè operare una sintesi tra la componente culturale (la nazione) e le esigenze di conoscenza che vengono dagli strati subalterni (il "popolo"). In questa prospettiva si colloca l'auspicato ritorno a De Sanctis, che Gramsci considerava come il più valido esponente della cultura della borghesia nazionale nella sua fase progressiva, mentre Benedetto Croce ne rappresentava la fase difensiva e conservatrice. Gramsci scrive: “Il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal de Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo”.

Renato Guttuso, Funerali di Togliatti

Tra le sue tante riflessioni in merito alla letteratura, ci piace ricordare quella su “I promessi sposi” di Manzoni. In Letteratura nazionale (Letteratura e vita nazionale - Quaderni dal carcere, 2005, La Feltrinelli), a proposito del termine umili, Gramsci analizza la posizione del Manzoni nei loro confronti: lo scrittore lombardo ha sempre un atteggiamento di “compatimento” bonario e scherzoso verso di loro, mostrando “condiscendente benevolenza, non medesimezza umana”, diversamente da quanto notiamo in Tolstoij, un senso di distanza e un “distacco sentimentale”. Gli umili non hanno mai una “vita interior”, riservata solo ai potenti, ai colti ed ai ricchi. A fare riflessioni profonde, sono solo personaggi come l’Innominato o Don Rodrigo o fra Cristoforo, mai gli umili come Agnese, Lucia o Perpetua. La sua opera è priva di “ spirito nazional-popolare”, colma di classicismo distaccato e aulico. Il popolo non è voce di Dio, come in Tolstoij, bensì per il cattolico Manzoni è la Chiesa a rappresentare l’unico interprete possibile della parola divina.

L'interpretazione del Risorgimento

Gramsci si è anche dedicato allo studio del processo storico che ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d'azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini ed a Garibaldi) si è rivelato incapace di svolgere un'opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo. Un esempio per tutto: Garibaldi in Sicilia prima distribuì le terre demaniali ai contadini, poi represse nel sangue le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati Cavourriani, il Partito d'Azione avrebbe dovuto “legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino [...] specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base [...] e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori”. Ma non seppero farlo, al contrario dei cavourriani che seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali, che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali, che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali, come i politici che essi rappresentavano.

Le masse popolari restarono passive mentre si raggiungeva il compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. I Piemontesi assunsero la funzione di classe dirigente, perché le altre classi che nel meridione erano favorevoli all'unificazione in realtà “non volevano dirigere nessuno, volevano dominare, volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte”.

Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre espressione gramsciana, una "rivoluzione mancata", e la causa e la natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere sociale. In effetti il limite storico del Partito d' azione va individuato nel fatto che sia rimasto sempre un partito borghese di élite, non disposto e/o non capace di ricercare l'appoggio dei ceti non borghesi. Ma quali erano questi ceti? È qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del marxismo. Nell'Italia dell'Ottocento non c'era un proletariato industriale, né una classe operaia organizzata, ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una trasformazione radicale della società.

Gramsci riteneva però che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Costoro costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all'azione risorgimentale avrebbe dato valore sociale e impulso rinnovatore. Gramsci riteneva che il movimento democratico avrebbe potuto realizzare tale disegno se fosse stato capace di farsi partito giacobino: se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina. Come avevano fatto i giacobini francesi, i quali avevano evitato l'isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. In tal modo essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, ed a sconfiggere le forze della reazione aristocratica.

Inoltre, il nuovo Stato si era costituito su una base sia economico-sociale che politica assai ristretta. Il neonato capitalismo, miopemente concentrato nelle sole regioni settentrionali, non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa del disastro economico della società meridionale, messa in ginocchio dalla sanguinosa guerra di rapina in cui si era trasformato l’ideale risorgimentale. Per un altro verso le masse indigenti e soprattutto i ceti contadini, abbandonati sostanzialmente a loro stesse, non sono riusciti a divenire parte attiva della nuova compagine statuale.

Gramsci, perciò, parla del Risorgimento come della rivoluzione passiva, per il suo moderatismo e per la particolare direzione dall’alto dei suoi processi, senza la partecipazione consapevole e attiva del popolo.

Dittatura ed Egemonia

Quando è lo Stato che si sostituisce ai gruppi sociali nel dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di dominio e non di dirigenza di questi gruppi. Si parla in questo caso di dittatura senza egemonia: questa è solo dominio, quella è capacità di direzione.

In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è stata ed è parziale: chi più di tutti ha contribuito alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa cattolica, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in grado di sanare, ma solo di controllare: “La Chiesa romana è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici”.

Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche crociane e gentiliane, non ha “saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali”, non ha nemmeno “tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile” e pur essendo non religiosi, non confessionali o atei “concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica”. Si utilizza la religione proprio perché non ci si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, si intende mantenerle in una posizione di subalternità.

Un patrimonio inestimabile

“Bisogna impedire a questo cervello di funzionare” aveva detto Mussolini a proposito di Gramsci e ne aveva ordinato l’arresto e la reclusione; ma con i 32 Quaderni del carcere (fortunosamente salvati dalla cognata Tatiana Schucht), con le sue Lettere, con i suoi appunti, Gramsci ci ha lasciato una straordinaria testimonianza di consapevolezza storica e di forza morale, un inestimabile patrimonio culturale e spirituale.

Mussolini ha fallito anche in questo. In carcere il cervello di Gramsci funzionò e come se funzionò! La straordinaria varietà dei suoi interessi e l’acutezza delle analisi ha fatto sì che nel pensiero gramsciano si racchiudesse gran parte della problematica politico-culturale del secondo dopoguerra ad oggi.

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

Giugno 2009


Note

[1] Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l'intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini. Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel 1922 promuove la nascita della rivista Rivoluzione Liberale che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.
Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista e la sua rivista ripetutamente sequestrata. Nel settembre del '25 è duramente picchiato a Torino da una squadraccia fascista e lasciato esanime sulla porta di casa, con gravi ferite invalidanti. Fugge in Francia, ma morirà per le ferite riportate nel febbraio del 1926. Aveva appena 25 anni. Autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all'estero è simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici.

[2] Purtroppo la divisione interna alla sinistra avviene nel momento di maggiore crescita del movimento fascista e nelle elezioni che seguiranno i partiti di ispirazione socialista, indeboliti dalla divisione, perdono voti in favore del Movimento dei fasci, a cui si è rivolta la borghesia spaventata dalle richieste operaie e come sempre orientata a mantenere i propri piccoli o grandi privilegi.

[3] Nelle Tesi si sosteneva che con un capitalismo debole e l'agricoltura alla base dell'economia nazionale, in Italia si assisteva al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, come l'unico elemento che abbia una funzione unificatrice di tutta la società. Secondo Gramsci, inoltre il fascismo non era, come riteneva Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma il prodotto politico della piccola borghesia urbana e agraria che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza all’imperialismo è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» . Il fascismo, per la sua natura oppressiva e reazionaria, consente una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche e le forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno.

[4] Il cesarismo è la categoria in cui Max Weber ed Antonio Gramsci facevano ricadere le dittature del loro tempo. Questi regimi non si basano solo su strumenti di repressione, ma anche sul consenso. Sono incentrati sulla figura di un capo carismatico e su un forte apparato statale. All’ideologia si sostituisce il carisma del capo. Specifica di questa dittatura è la mediazione tra interessi contrastanti. Il termine deriva dalla dittatura di Cesare nell’antica Roma. In base all'ideologia si parla di sultanismo (cesarismo reazionario), peronismo (cesarismo apolitico, ma la definizione è ambigua), bonapartismo (cesarismo rivoluzionario, quello di Napoleone I e Napoleone III).


Bibliografia

  • Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche http://www.emsf.rai.it/brani/brani.-asp?d=109

  • Burgio, A. Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni dal carcere", Bari 2005

  • Antonio Gramsci http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Gramsci

  • Gramsci A.,Gli intellettuali, ed.Riuniti,Roma,1976

  • Gramsci, A, Quaderni del carcere, Il Risorgimento

  • Gramsci, A. Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce

  • Gramsci A. La questione meridionale, Roma 2005

  • Lettere dal carcere, a cura di A. Santucci, Palermo 1996

  • Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 1975


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