Antonio Gramsci nacque il 22 gennaio del 1891 ad Ales,
in provincia di Cagliari, da Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias.
In verità la famiglia del padre Francesco viveva a Gaeta ed era
originaria di Plataci, un paese di cultura albanese della Calabria.
Era studente in legge quando, per la morte del padre, fu costretto
ad interrompere gli studi ed a cercare un lavoro che trovò come
impiegato nell'Ufficio del registro di Ghilarza, in Sardegna, dove
si trasferì nel 1881. Fu lì che conobbe Peppina (Giuseppina
Marcias), che sposò nel 1883. Questa brevissima sintesi genealogica
serve a spiegare il motivo per cui abbiamo inserito Antonio Gramsci
tra gli autori meridionali.
Tre anni dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a
Sòrgono (Nuoro), dove Antonio frequenta un asilo di suore. In
seguito ad una caduta si acuisce e si cronicizza una malattia
deformante (morbo di Pott) che causa l’incurvamento della spina
dorsale. Nel 1897 il padre viene incarcerato per irregolarità
amministrative. Tali fatti segneranno Gramsci per tutta la vita. Nel
1902, conseguita la licenza elementare, nonostante le precarie
condizioni di salute, è costretto ad affiancare il lavoro allo
studio, per aiutare la famiglia, in gravi difficoltà economiche. Nel
1908 si trasferisce a Cagliari per iscriversi al liceo e vive in
casa del fratello Gennaro, segretario della sezione locale del
Partito Socialista. Questa è la stagione in cui a Cagliari
cominciano i primi movimenti sociali, fatto che influisce
profondamente sulla sua formazione ideologica. Il giovane Gramsci
legge moltissimo e si distingue per i suoi interessi culturali, in
particolare è affascinato da
Croce
e da
Salvemini.
Nel 1911 vince una borsa di studio per la Facoltà di Lettere e
Filosofia di Torino, dove si trasferisce. Il capoluogo piemontese in
quel periodo è in pieno boom economico e industriale. La Fiat
e la Lancia, con i loro stabilimenti, hanno richiamato dal Sud più
di sessantamila immigrati in cerca di lavoro. Cominciano le lotte di
fabbrica e sorgono le prime organizzazioni sindacali. È in questo
periodo della sua vita, studiando i processi produttivi nelle
fabbriche, che si impegna a far acquisire alla classe operaia «la
coscienza e l’orgoglio di produttori». Verso la fine del 1913,
sempre più immerso in questo contesto sociale, Gramsci si avvicina
alla sezione socialista di Torino, iniziando una attiva
collaborazione con il «Grido del popolo». Abbandona quindi gli studi
per dedicarsi attivamente alla politica.
Nel 1915 comincia la sua collaborazione con l’«Avanti!»,
organo ufficiale del Partito Socialista Italiano. È anche l’anno in
cui l’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa, e in cui Lenin
invita i comunisti a trasformare «la guerra imperialista in guerra
civile».
Nel 1917 scoppia la rivoluzione che porterà al potere il
Partito bolscevico in Russia.
Intanto Gramsci diventa segretario della sezione esecutiva del
Partito socialista piemontese e gli viene affidata la direzione de
il «Grido del popolo». Contemporaneamente si occupa della stesura di
«La città futura», una rivista a numero unico ideata per educare i
giovani socialisti. La situazione si protrae fino al 1918, quando le
pubblicazioni del Grido cessano, e nasce la redazione
piemontese dell’«Avanti!», a cui Gramsci prende subito parte. Nel
1919 è tra i fondatori dell’«Ordine nuovo», settimanale che si
schiera per l’adesione del Psi all’Internaziona-le comunista.
Intanto in Italia comincia quel periodo di disordini, che poi
verrà chiamato il “biennio rosso”, durante il quale gli operai
manifestano il proprio malcontento, occupando le fabbriche in cui
lavorano. In questo periodo, Gramsci si batte per l’affermazione dei
consigli di fabbrica, sostenendo che questi debbano essere eletti da
tutti i lavoratori, affinché gli operai stessi assumano anche una
funzione dirigente. L’iniziativa ottiene il plauso anche di Piero
Gobetti
e dai suoi
neo-liberalisti, ma non viene vista di buon occhio dai massimalisti
del Psi.
Gramsci intanto si avvicina all’ala di sinistra del Partito
socialista, guidata da Bordiga.
Nel gennaio del
1921 a Livorno, durante i lavori del 17° congresso nazionale del
Psi, è uno dei promotori della scissione del Partito socialista e
della successiva fondazione del "Partito comunista d'Italia" (PCI)
; Gramsci
assume la direzione dell’«Ordine nuovo», che diventa il quotidiano
di informazione del Pcd’I. Dal maggio del 1922 Gramsci comincia a
viaggiare. Prima va a Mosca, come delegato del Partito comunista
d’Italia, dove può studiare da vicino la politica di Lenin e gli
effetti della Dittatura del proletariato. In Russia conosce e si
innamora di Giulia Schudt, che diventerà sua moglie e la madre dei
suoi due figli. Intanto, in Italia, le squadre fasciste guidate da
Benito Mussolini, con la complice indifferenza di Vittorio Emanuele
III, portano a termine la Marcia su Roma.
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Renato Guttuso, Notte |
L’anno successivo Gramsci in novembre, viene invitato a Vienna
per coordinare il lavoro del Pcd’I con quello degli altri partiti
comunisti europei. Nel febbraio 1924 divenuto segretario generale
del Pcd’I fonda il quotidiano "L’Unità" (il cui significativo
sottotitolo era "Quotidiano degli operai e dei contadini"). In
aprile viene eletto deputato per la circoscrizione Veneto. Le
elezioni sono però vinte dai fascisti, grazie ad evidenti brogli
denunciati in Parlamento da Giacomo Matteotti. Come sappiamo,
Matteotti viene messo a tacere secondo le spicce metodologie
fasciste: è assassinato. L’uccisione di Matteotti provoca una
violenta reazione parlamentare, alla quale Gramsci partecipa
attivamente. Il Pcd’I propone un’azione diretta e l’appello alle
masse, ma la sua mozione viene bocciata, il re riconferma la fiducia
a Mussolini ed al fascismo. Le forze di opposizione al fascismo,
guidate da Giovanni Amendola, abbandonano per protesta il
Parlamento.
Nel gennaio del 1926, durante i lavori del III congresso del
Partito comunista d’Italia, tenutosi a Lione per evitare
rappresaglie, Gramsci presenta le Tesi politiche
insieme a
Togliatti, che vengono approvate con il novanta percento delle
preferenze. Dopo pochi mesi però, i suoi rapporti con
l’Internazionale comunista cominciano a deteriorarsi, a causa di una
sua lettera indirizzata al Partito bolscevico, in cui sottolinea la
preoccupazione per le divisioni interne, ed in cui si dissocia sia
dall’opposizione sia dai metodi della maggioranza guidata da Stalin.
Togliatti si rifiuta di inoltrare ufficialmente la lettera, e da ciò
nasce una accesa polemica. Elaborando alcuni dei temi affrontati
nelle Tesi di Lione, nel settembre del ’26, Gramsci inizia a
scrivere un saggio sulla
questione
meridionale dal titolo Alcuni temi sulla quistione
meridionale, in cui analizza il periodo dello sviluppo politico
italiano dal
1894,
anno dei
moti dei
contadini siciliani,
represse a fucilate dal
Crispi, al
1898
anno dell'insurrezione di
Milano
repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la
borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti,
di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini
meridionali e degli operai del Nord, anziché allearsi con le forze
agrarie, con conseguente politica di libero scambio e di bassi
prezzi industriali, ha scelto di favorire il blocco
industriale-operaio, con l’imposizione del
protezionismo
doganale (unitamente alla concessione di alcune libertà sindacali).
Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia,
Giolitti
cerca quindi un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord,
creando di fatto l’alleanza borghesia-contadini. Il problema è
allora, per Gramsci, di perseguire una politica di opposizione, che
rompa quell'alleanza dannosa, facendo convergere le istanze
contadine con quelle della classe operaia.
La società meridionale, vista da Gramsci, era costituita da
tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri,
politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non
lavorano la terra, ma dalla quale ricavano un reddito che permette
loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro
disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da
intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe,
costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta
contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con
personalità del calibro di
Benedetto Croce
e di
Giustino
Fortunato: sono, quelli i principali e più raffinati
sostenitori della conservazione del blocco agrario.
Per poter spezzare il blocco, sostiene Gramsci, è necessaria
la formazione di un ceto di intellettuali medi, che interrompa il
flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così
l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano.
Quello stesso anno
1926, a novembre, in
seguito alle leggi speciali emendate dal parlamento fascista contro
le opposizioni, Gramsci viene arrestato. Condannato inizialmente a
cinque anni di confino sull’isola di Ustica, vi passerà solo sei
settimane durante le quali riesce a organizzare una scuola per i
rifugiati politici. Viene pertanto trasferito a San Vittore dove,
mai domo, comincia a preparare un ampio studio sugli intellettuali
italiani. Alla fine di maggio del 1928 viene condannato a vent’anni
quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Nel luglio del 1929
viene trasferito nella colonia penale di Turi, nei pressi di Bari,
per motivi di salute. Qui divide la cella con altri cinque detenuti
politici.
Durante la prigionia, Gramsci riesce a completare i propri
studi ed a partecipare al vivace dibattito sviluppatosi negli anni
'30 all'interno del movimento comunista. Manifesta, in particolare,
le sue riserve sulle posizioni dell'Internazionale Comunista,
secondo cui è imminente la caduta dei regimi capitalistici ed
autoritari (a cominciare dal fascismo), nonché quella delle
socialdemocrazie europee, accusate di "socialfascismo". Gramsci
respinge radicalmente tali valutazioni, ed alla prospettiva di uno
scontro rivoluzionario a breve termine col capitalismo, contrappone
una linea molto più articolata, la cosiddetta "guerra di posizione",
aperta all'accettazione di fasi e modalità di lotta democratica
considerate ineludibili. Queste posizioni, lontane da quelle
dell’Internazionale, gli procurarono non poche inimicizie. Oltre
alle riflessioni politiche, Gramsci non trascura un impegno di
carattere più teorico. Con l’aiuto di alcuni amici, riesce ad avere
libri e riviste, grazie ai quali realizza studi ed indagini di
grande rilievo. Nel 1929 ottiene il permesso di scrivere in cella e
inizia la stesura dei Quaderni dal carcere.
Il 1931 è l’anno in cui le condizioni di Gramsci cominciano a
peggiorare. Viene trasferito in una cella individuale dove continua
a dedicarsi allo studio. Inesorabilmente, continua il peggioramento:
due anni dopo viene trasferito nell’infermeria di Regina Coeli, e
poi da qui in una clinica.
Intanto falliscono i tentativi diplomatici fatti da Mosca per
ottenere la sua liberazione. La vita in carcere è ulteriormente
amareggiata dal deteriorarsi dei rapporti con il Pcd’I e Gramsci si
trova totalmente isolato. Scrive in questo periodo: «Io sono
stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla
fanciullezza, a nascondere i miei stati d'animo dietro una maschera
di durezza o dietro un sorriso ironico».
Nel 1934 ottiene la libertà condizionata per motivi di salute.
Quando però consegue la scarcerazione definitiva, nel 1937, le sue
condizioni fisiche sono oramai troppo compromesse. Morirà il 27
aprile dello stesso anno. Le sue ceneri sono conservate al Cimitero
degli Inglesi, a Roma.
Antonio Gramsci ci ha lasciato innumerevoli scritti di
argomento sia politico che culturale, ancora oggi considerati con
grande attenzione dagli intellettuali italiani appartenenti ad ogni
corrente. I brani considerati più importanti sono quelli prodotti
durante la prigionia. L’opera Quaderni dal carcere è una
raccolta delle pagine scritte dal 1929 al 1935, pubblicate postume
con i titoli: Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce; Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura; Il Risorgimento; Note su Machiavelli,
la politica e lo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale.
Accanto a questi troviamo un’altra raccolta, Lettere dal carcere,
anch’essa pubblicata postuma. Nelle sue lettere ad amici e parenti
possiamo comprendere la parte più privata del pensiero gramsciano,
la sua lotta contro l’abbrutimento del carcere e il suo desiderio di
stare vicino alla famiglia. Oltre a queste due raccolte troviamo una
miriade di altri suoi scritti, alcune lettere, diversi articoli di
giornale e un’intera rivista chiamata «La città futura», che sono
stati raccolti e pubblicati in volumi dopo la caduta del fascismo.
Nei Quaderni del carcere Gramsci condensa sotto
forma di appunti, pagine sparse e veri e propri saggi riguardanti
ambiti culturali diversi, la storia, la filosofia (soprattutto
quella idealista e marxista), la teoria politica (con particolare
riferimento ai problemi connessi alla rivoluzione socialista), la
critica letteraria e della cultura.
L’intento di Gramsci é quello di individuare le
condizioni per la transizione al comunismo nella specificità della
situazione italiana. In quest’ottica, ipotizzò l'alleanza tra gli
operai del nord e i contadini del sud e, al tempo stesso, la
conquista di un'egemonia sulla società civile, da attuare
attraverso lo studio della storia. La supremazia di una classe
all'interno della società si manifesta, infatti, attraverso la forza
e attraverso la direzione intellettuale e morale. Il momento della
forza appartiene alla società politica, mentre quello del consenso
appartiene alla società civile: gli intellettuali hanno il compito
di creare il consenso, mentre la classe politica ha il compito di
servirsi della forza per raggiungere ciò che non é ottenibile con il
consenso. Quest'ultima ha, dunque, bisogno di intellettuali al suo
servizio. Negli Stati moderni è compito dei partiti, che Gramsci
paragona al Principe di Machiavelli, l'organizzazione all'interno
della società civile delle forze necessarie per conquistare lo
Stato, ma a tale scopo occorre prima ottenere l'egemonia nella
società civile: di qui l'importanza degli intellettuali organici
alla classe, di cui il partito rappresenta la punta avanzata.
L'egemonia politico-culturale, all'interno di una
società, é conseguente alla formazione di quello che Gramsci
definisce blocco storico: in esso le forze materiali sono il
contenuto, mentre le ideologie sono la forma; grazie alle ideologie
le forze materiali possono essere comprese nella loro specificità
storica, mentre, senza forze materiali, le ideologie sarebbero solo
vuote astrazioni. L'elemento popolare, infatti, “sente”, ma
non sempre comprende e sa, l'elemento intellettuale invece, “sa”,
ma non sempre “sente”. L'errore dell'intellettuale sta
infatti nel credere che si possa sapere senza sentire,
cioè nel credere di poter essere un intellettuale staccato dalle
concezioni del mondo e dalle passioni del popolo-nazione.
Se non si collegano le visioni del mondo del popolo
alla visione scientifica, gli intellettuali si trasformano in una
casta sacerdotale; se invece riescono a realizzare un'unità
organica, allora si costituisce una nuova forza sociale, un nuovo
blocco storico. La politica é il momento di saldatura fra la
filosofia, elaborata dagli intellettuali, ed il senso comune del
popolo. La filosofia in grado di fornire la teoria necessaria alla
costituzione del nuovo blocco storico, incentrato sulla classe
operaia e sull'alleanza coi contadini, é la filosofia della
prassi.
La Prassi e il rapporto con Croce |
Il concetto che esprime nel modo più diretto la
prospettiva "umanistica" e "attivistica" della filosofia gramsciana
è quello di "praxis". Gramsci si riallaccia all'opera di
Antonio Labriola, il quale con questa nozione si era
proposto di superare criticamente le concezioni da un lato
idealistiche e coscienzialistiche, dall'altro naturalistiche e
positivistiche dell'umano e del sociale. Gramsci intende sviluppare
e approfondire un programma teorico analogo a quello labriolano.
Egli pensa alla prassi come una mediazione tra gli uomini e
la realtà, in quanto natura ed esperienza ed in quanto complesso di
tradizioni e istituzioni. Attraverso la prassi gli agenti
storico-sociali conoscono e trasformano il mondo, tenendo conto del
contesto concreto in cui operano. È attraverso la prassi che gli
uomini realizzano la loro crescita ed emancipazione sociale, e che
la storia procede nel suo itinerario. In conclusione, l'essenza più
originale e profonda della filosofia gramsciana poggia su quattro
temi: l'assenza di fondamenti trascendenti, l'operare umano (immanentismo),
la necessità di concepire la struttura sociale in modo
storico-concreto (antispeculativismo), la centralità degli
uomini come soggetti, valori e motori del cammino storico (umanesimo)
e la radicale storicità delle situazioni pratiche e delle
dottrine intellettuali (compreso lo stesso marxismo).
Scrive Gramsci "La filosofia della praxis deriva
certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa
in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia
o storicità o a puro umanesimo. Se il concetto di struttura viene
concepito “speculativamente” certo esso diventa un “dio ascoso”; ma
appunto esso non deve essere concepito speculativamente ma
storicamente, come l' insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini
reali si muovono e operano. La filosofia della praxis è la
concezione storicistica della realtà che si è liberata di ogni
residuo di trascendenza e di teologia." (Quaderni del carcere,
IX, 1, VIII).
È opportuno a questo punto analizzare la posizione di
Gramsci nei confronti di
Croce. Per Gramsci il motivo sostanziale della grande
diffusione e popolarità delle concezioni di Croce è “intrinseco
al suo stesso pensiero e al metodo del suo pensare”, ed è da
ricercare “nella maggiore adesione alla vita della filosofia del
Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa”.
Rispetto a quelle dei filosofi "tradizionali",
infatti, le principali caratteristiche della dottrina crociana sono,
secondo Gramsci: “la dissoluzione del concetto di 'sistema'
chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia:
affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il
processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta”. In
questa adesione della filosofia crociana alla vita ed alla storia,
nella sua lotta contro la trascendenza e la teologia, Gramsci
individua il forte influsso esercitato su
Croce
dalla "filosofia della prassi". Non è un caso,
sottolinea Gramsci, che quando andava gettando le basi della propria
concezione, Croce aveva verso il marxismo un atteggiamento
tutt'altro che negativo. Egli aveva scorto in esso, in particolare,
un fecondo canone empirico per l'interpretazione della storia.
Inoltre, aveva giudicato la teoria del valore-lavoro, come il
risultato di un paragone 'ellittico' fra un'astratta società
lavoratrice e la società borghese moderna: ma non aveva negato
qualsiasi valore a quel paragone, ammettendo anzi che costituiva un
notevole contributo ad un'economia sociologica comparata. Infine
aveva ricavato dalla filosofia della prassi alcune tesi di
fondamentale importanza: dalla dottrina dell'origine pratica
dell'errore, alla concezione delle ideologie politiche considerate
costruzioni pratiche e strumenti di direzione politica. Sennonché
Croce, secondo Gramsci, ha poi inserito tutti questi
elementi realistici all'interno di una dottrina 'speculativa' (nel
senso negativo del termine), che costituisce un grave arretramento,
non solo rispetto alla filosofia della prassi, ma anche rispetto
allo stesso hegelismo. Anzi la concezione di
Croce
costituisce per Gramsci una sorta di "hegelismo
mutilato" in quanto stravolge, “addomesticandola” la
dialettica hegeliana (Quaderni del carcere, X, 1, VI)
Contro la tendenza oggettivistica a fare della
dialettica un principio esplicativo sia della natura sia della
storia, Gramsci rivendica l'irriducibilità del sapere sociale a
quello naturale. La prassi comprende sia la globalità dell'azione
umana nel mondo sia la trasformazione rivoluzionaria della realtà.
Proprio la tensione rivoluzionaria permette la comprensione dei
meccanismi di dominio e dei rapporti tra le classi sociali, nella
cui indagine si delinea il pensiero storico e politico di Gramsci.
Questo si concentra nella concezione del partito operaio come
intellettuale collettivo, erede del compito di unificazione
sociale rimasto incompiuto nel Risorgimento.
Nella sua opera Il Risorgimento, vengono
criticamente analizzati i risultati dei moti che portarono all'unità
d'Italia e se ne denunciano i limiti, proprio nella mancata
attuazione dell’unione tra borghesia e proletariato urbano ed i
contadini delle campagne.
|
Renato Guttuso, portella delle Ginestre |
Secondo Gramsci infatti l'egemonia culturale in Italia
é rappresentata dalla filosofia di
Benedetto Croce,
intellettuale organico al blocco storico della borghesia. Nei
confronti di Croce, egli intendeva in qualche modo compiere
l'operazione di rovesciamento compiuta da Marx nei confronti di
Hegel. La differenza, però, sta nel fatto che Croce é venuto dopo
Marx: gran parte della sua filosofia, infatti, non é che un
tentativo, secondo Gramsci, di subordinare il marxismo
all'idealismo. Individuando la centralità della storia
etico-politica, Croce riconosce l'importanza del movimento
sovrastrutturale dell'egemonia e, in questo senso, permette di
sfuggire alle interpretazioni materialistiche, economicistiche e
deterministiche del marxismo.
La filosofia della prassi, facendo della concezione
crociana della storia etico-politica un canone di ricerca empirica,
può fare storia globale, non solo economica o etico-politica. In
questo modo, essa si può configurare come vero e proprio storicismo,
mentre quello crociano, parlando dello spirito e delle sue attività,
rimane imprigionato nelle maglie del linguaggio speculativo e
teologico. Come storicismo coerente, la filosofia della prassi può
essere essa stessa un momento storico meramente transitorio,
vincolato ad una fase della società, di cui essa esprime
coscientemente le contraddizioni. Col passaggio al regno della
libertà, cioè al comunismo, é prevedibile che anche la filosofia
della prassi arrivi al tramonto, per lasciar spazio a nuove forme di
pensiero, non più originate dalle contraddizioni, inesistenti in una
società comunista caratterizzata dalla libertà e dall'uguaglianza.
Nei Quaderni del carcere Gramsci parla anche di
“cesarismo”
,
riferendosi ad un conflitto in cui le due parti interessate sono in
equilibrio, tanto che la situazione può solo risolversi con una
distruzione reciproca:
“Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze
in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in
modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la
distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la
forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A,
può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino
reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno
assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte
del Magnifico è appunto successo questo, com’era successo nel mondo
antico con le invasioni barbariche. Ma il cesarismo, se esprime
sempre la soluzione "arbitrale", affidata a una grande personalità,
di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio
di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso
significato storico.
Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il
significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi,
può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema
sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento
aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi
compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo
quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva,
anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però
hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel
caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo
progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo. Si
tratta di vedere se nella dialettica rivoluzione-restaurazione è
l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è
certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non
esistono restaurazioni in toto.
Del resto il cesarismo è una formula polemico-ideologica e non un
canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista
anche senza un Cesare, senza una grande personalità "eroica e
rappresentativa". Il sistema parlamentare ha dato anch’esso un
meccanismo per tali soluzioni di compromesso. […]”
( Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, vol. III,
p.1619-1622)
Il vero nemico contro cui muovere guerra diventa
allora l'indifferenza: “l'indifferenza é il peso morto
della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia
inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, é la
palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura
più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce
nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e
qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica “. (La città
Futura, 1917, numero unico)
Il pensiero di Gramsci, dove ideologia, filosofia e
prassi politica trovavano una profonda unità, era volto verso la
comprensione della reale situazione italiana dell'epoca e nella
certezza della possibilità di trasformarla in senso socialista.
Gramsci considerava il fascismo come punto massimo di
crisi della società borghese (massima espressione della dittatura
del capitale), poiché alla classe dominante, priva della egemonia
sociale, intellettuale e morale che cattura il consenso delle masse,
rimaneva solo la forza coercitiva. È da sottolineare, secondo noi,
che sia Gramsci che
Croce in realtà non hanno compreso pienamente il fascismo
che hanno subìto: non hanno considerato, diversamente da Gobetti,
che il fascismo era “l’autobiografia della nazione”, il
rigurgito di tutti i difetti travestiti da virtù.
La valorizzazione del concetto di cultura, non più
vista come fatto aristocratico, ma come mezzo per acquistare
consapevolezza della realtà, portò Gramsci a elaborare la nozione di
“organizzazione della cultura” e quindi la necessità di
rapporti profondi fra organizzazione economico-sociale e visione del
mondo, fra lotta di classe e scoperta scientifica e artistica.
La convinzione che la cultura avesse radici nel
terreno storico-pratico nel quale era contenuta e che quindi vi era
identità tra filosofia e storia, lo portò a polemizzare con
l'idealismo di Croce, visto in funzione ideologica di conservazione
borghese, e a individuare la funzione del nuovo intellettuale nella
società contemporanea come portatore ed elaboratore professionale
dell'ideologia del “blocco storico”.
In campo estetico-letterario, la tesi centrale di
Gramsci è stata l'affermazione del nesso inscindibile che deve unire
lo scrittore al popolo, delle cui esigenze materiali e spirituali
egli deve farsi interprete (concetto di "intellettuale organico").
Di qui la polemica contro il cosmopolitismo e contro l'apoliticismo
e quindi la negazione sia di un'arte cosmica, ispirata ai valori
astratti dell'umanità, sia di un'arte pura e individuale. La
letteratura, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere
nazionale-popolare, cioè operare una sintesi tra la componente
culturale (la nazione) e le esigenze di conoscenza che vengono dagli
strati subalterni (il "popolo"). In questa prospettiva si colloca
l'auspicato ritorno a
De Sanctis, che Gramsci considerava come il più valido
esponente della cultura della borghesia nazionale nella sua fase
progressiva, mentre
Benedetto Croce ne rappresentava la fase difensiva e conservatrice.
Gramsci scrive: “Il tipo di critica letteraria propria della
filosofia della prassi è offerto dal
de Sanctis, non dal
Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve
fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo,
la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo,
con la critica estetica o puramente artistica nel fervore
appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo”.
|
Renato Guttuso, Funerali di Togliatti |
Tra le sue tante riflessioni in merito alla
letteratura, ci piace ricordare quella su “I promessi sposi” di
Manzoni. In Letteratura nazionale (Letteratura
e vita nazionale - Quaderni dal carcere, 2005, La
Feltrinelli),
a proposito del termine umili, Gramsci analizza la posizione
del Manzoni nei loro confronti: lo scrittore lombardo ha sempre un
atteggiamento di “compatimento” bonario e scherzoso verso di loro,
mostrando “condiscendente benevolenza, non medesimezza umana”,
diversamente da quanto notiamo in Tolstoij, un senso di distanza
e un “distacco sentimentale”. Gli umili non hanno mai una “vita
interior”, riservata solo ai potenti, ai colti ed ai ricchi. A
fare riflessioni profonde, sono solo personaggi come l’Innominato o
Don Rodrigo o fra Cristoforo, mai gli umili come Agnese, Lucia o
Perpetua. La sua opera è priva di “ spirito nazional-popolare”,
colma di classicismo distaccato e aulico. Il popolo non è voce di
Dio, come in Tolstoij, bensì per il cattolico Manzoni è la Chiesa a
rappresentare l’unico interprete possibile della parola divina.
L'interpretazione del Risorgimento |
Gramsci si è anche dedicato allo studio del processo storico
che ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano
unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto
fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d'azione
(cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in
parte a Mazzini ed a Garibaldi) si è rivelato incapace di svolgere
un'opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto
politico del tempo. Un esempio per tutto: Garibaldi in Sicilia prima
distribuì le terre demaniali ai contadini, poi represse nel sangue
le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare
l'egemonia contro i moderati Cavourriani, il Partito d'Azione
avrebbe dovuto “legarsi alle masse rurali, specialmente
meridionali, essere giacobino [...] specialmente per il contenuto
economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che
si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti
intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per
addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si
faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone
le rivendicazione di base [...] e sugli intellettuali degli strati
medi e inferiori”. Ma non seppero farlo, al contrario dei
cavourriani che seppero mettersi alla testa della rivoluzione
borghese, assorbendo tanto i radicali, che una parte dei loro stessi
avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un
rapporto organico con i loro intellettuali, che erano proprietari
terrieri e dirigenti industriali, come i politici che essi
rappresentavano.
Le masse popolari restarono passive mentre si raggiungeva il
compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. I
Piemontesi assunsero la funzione di classe dirigente, perché le
altre classi che nel meridione erano favorevoli all'unificazione in
realtà “non volevano dirigere nessuno, volevano dominare,
volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e
condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il
Piemonte”.
Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre
espressione gramsciana, una "rivoluzione mancata", e la causa e la
natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere
sociale. In effetti il limite storico del Partito d' azione va
individuato nel fatto che sia rimasto sempre un partito borghese di
élite, non disposto e/o non capace di ricercare l'appoggio dei ceti
non borghesi. Ma quali erano questi ceti? È qui che Gramsci mostra
la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del
marxismo. Nell'Italia dell'Ottocento non c'era un proletariato
industriale, né una classe operaia organizzata, ossia il solo
soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di
promuovere una trasformazione radicale della società.
Gramsci riteneva però che il risorgimento avrebbe
potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario,
acquisendo il consenso dei contadini. Costoro costituivano, infatti,
quella massa popolare la cui partecipazione all'azione
risorgimentale avrebbe dato valore sociale e impulso rinnovatore.
Gramsci riteneva che il movimento democratico avrebbe potuto
realizzare tale disegno se fosse stato capace di farsi partito
giacobino: se avesse saputo far propri gli interessi e le
esigenze della classe contadina. Come avevano fatto i giacobini
francesi, i quali avevano evitato l'isolamento delle città e
convertito le campagne alla rivoluzione. In tal modo essi erano
riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si
erano trovati inizialmente, ed a sconfiggere le forze della reazione
aristocratica.
Inoltre, il nuovo Stato si era costituito su una base
sia economico-sociale che politica assai ristretta. Il neonato
capitalismo, miopemente concentrato nelle sole regioni
settentrionali, non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i
suoi prodotti, a causa del disastro economico della società
meridionale, messa in ginocchio dalla sanguinosa guerra di rapina in
cui si era trasformato l’ideale risorgimentale. Per un altro verso
le masse indigenti e soprattutto i ceti contadini, abbandonati
sostanzialmente a loro stesse, non sono riusciti a divenire parte
attiva della nuova compagine statuale.
Gramsci, perciò, parla del Risorgimento come della
rivoluzione passiva, per il suo moderatismo e per la particolare
direzione dall’alto dei suoi processi, senza la partecipazione
consapevole e attiva del popolo.
Quando è lo Stato che si sostituisce ai gruppi sociali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la
funzione di dominio e non di dirigenza di questi
gruppi. Si parla in questo caso di dittatura senza egemonia: questa
è solo dominio, quella è capacità di direzione.
In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi
dominanti è stata ed è parziale: chi più di tutti ha contribuito
alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa cattolica, che
si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e
incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e
dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia
esistono e che essa non è in grado di sanare, ma solo di
controllare: “La Chiesa romana è sempre stata la più tenace nella
lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni,
quella degli intellettuali e quella delle anime semplici”.
Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata
dalle scuole filosofiche crociane e
gentiliane, non ha “saputo creare una unità ideologica tra il
basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali”, non ha
nemmeno “tentato di costruire una concezione che potesse
sostituire la religione nell'educazione infantile” e pur essendo
non religiosi, non confessionali o atei “concedono l'insegnamento
della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia
dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica”.
Si utilizza la religione proprio perché non ci si pone il problema
di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al
contrario, si intende mantenerle in una posizione di subalternità.
Un patrimonio inestimabile |
“Bisogna impedire a questo cervello di funzionare” aveva detto Mussolini a proposito di Gramsci e ne
aveva ordinato l’arresto e la reclusione; ma con i 32 Quaderni del
carcere (fortunosamente salvati dalla cognata Tatiana Schucht), con
le sue Lettere, con i suoi appunti, Gramsci ci ha lasciato una
straordinaria testimonianza di consapevolezza storica e di forza
morale, un inestimabile patrimonio culturale e spirituale.
Mussolini ha fallito anche in questo. In carcere il
cervello di Gramsci funzionò e come se funzionò! La straordinaria
varietà dei suoi interessi e l’acutezza delle analisi ha fatto sì
che nel pensiero gramsciano si racchiudesse gran parte della
problematica politico-culturale del secondo dopoguerra ad oggi.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Giugno 2009
Il cesarismo è la categoria in cui Max
Weber ed Antonio Gramsci facevano ricadere le dittature del
loro tempo. Questi regimi non si basano solo su strumenti di
repressione, ma anche sul consenso. Sono incentrati sulla
figura di un capo carismatico e su un forte apparato
statale. All’ideologia si sostituisce il carisma del capo.
Specifica di questa dittatura è la mediazione tra interessi
contrastanti. Il termine deriva dalla dittatura di Cesare
nell’antica Roma. In base all'ideologia si parla di
sultanismo (cesarismo reazionario), peronismo (cesarismo
apolitico, ma la definizione è ambigua), bonapartismo
(cesarismo rivoluzionario, quello di Napoleone I e Napoleone
III).
-
Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche
http://www.emsf.rai.it/brani/brani.-asp?d=109
-
Burgio, A. Gramsci storico. Una lettura dei
"Quaderni dal carcere", Bari 2005
-
Antonio Gramsci
http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Gramsci
-
Gramsci A.,Gli intellettuali, ed.Riuniti,Roma,1976
-
Gramsci, A, Quaderni del carcere, Il Risorgimento
-
Gramsci, A. Quaderni del carcere, Il materialismo
storico e la filosofia di Benedetto Croce
-
Gramsci A. La questione meridionale, Roma 2005
-
Lettere dal carcere, a cura di A. Santucci, Palermo
1996
-
Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino
1975
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