Cenni Biografici
Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano, in provincia
di Trapani, il
29 maggio 1875, da Teresa Curti e da Giovanni Gentile. Dopo aver
frequentato il liceo Ximenes a Trapani si laureò in Lettere e
Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
L'esperienza presso l'ateneo pisano influirà in
maniera determinante sul suo pensiero e sulle sue scelte culturali e
politiche. La Scuola Superiore di Pisa infatti, oltre ad essere
l'istituto scientifico più prestigioso del regno, aveva avviato uno
studio filologico e storico sulla letteratura italiana nonché sul
ruolo del pensiero italiano all'interno della filosofia europea;
quest'impostazione era in linea con l'esigenza post unitaria
di cercare di rintracciare storicamente, e quindi costruire, l'unità
della penisola non solo dal punto di vista politico, ma anche
culturale e spirituale. Gentile fece sua questa preoccupazione e
cercò, principalmente nelle opere storiche, di definire e
ricostruire la storia spirituale d'Italia con frequenti richiami
alla continuità storica e politica con il Risorgimento.
Sotto la guida dello storico Alessandro D'Ancona e del
filosofo Donato Jaia, Gentile iniziò a pubblicare i suoi primi
articoli; l'influenza dei due professori fu antitetica: mentre il
primo, seguace del metodo storico, veniva dalla storiografia
positivista e da ambienti liberali, il secondo era un hegeliano
della scuola napoletana, seguace di Spaventa
[1]
Da qui nasce l'attenzione filologica per i documenti e per i testi,
e di contro l'interpretazione spaventiana della filosofia di Hegel.
Oltre all'influenza esercitata dai suoi due maestri, fu determinante
negli anni trascorsi a Pisa, l'incontro con
Benedetto Croce. I due combatterono insieme la stessa guerra
contro il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana;
il loro scopo fu quello di costituire un polo filosofico crescente
per dimensioni e qualità, all'interno della cultura italiana.
Fondarono una rivista, La Critica nel 1903, e lavorarono alla
creazione di nuove collane editoriali e alla pubblicazione delle
loro rispettive opere.
Dopo la laurea, Gentile ottenne una cattedra di storia
della filosofia all'Università di Palermo nel 1906. Malgrado ambisse
ad una cattedra a Napoli, per la vicinanza con Croce e con gli
ambienti culturali napoletani (più vivaci di quelli siciliani),
l'esperienza e l'insegnamento a Palermo furono per lui determinanti.
Nella città siciliana, infatti, cominciò a crearsi intorno alla sua
cattedra e agli incontri del circolo culturale di Giuseppe Pojero
, quella scuola di allievi che contribuirono non poco
alla diffusione della sua filosofia, l'idealismo attuale, che
si arricchì in quegli anni di testi importanti: tra questi L'atto
del pensare come atto puro del 1912 che ne costituirà il
manifesto, e La riforma della dialettica hegeliana del 1913,
che sarà la base di un’opera sistematica dal titolo La teoria
generale dello spirito come atto puro del 1916, una sintesi
delle speculazioni che Gentile sviluppò nella serie di testi,
discorsi e polemiche su argomenti filosofici trattati nei primi anni
della sua carriera universitaria, prima a Palermo e poi a Pisa, e
che è la prima vera sistemazione dei suoi principi e a cui farà
seguito il Sistema di logica come teoria del conoscere del
1917, la sua opera più complessa.
L'insegnamento gli diede l’opportunità di toccare con
mano il disagio della scuola italiana, non adatta a contribuire alla
fortificazione dell'unità nazionale e delle sue basi culturali, e
incapace di formare una nuova classe dirigente capace di traghettare
il paese verso una sorte migliore dopo averlo sanato del degrado
politico e spirituale in cui versava.
L'influenza di Gentile, insieme a quella di
Benedetto Croce,
sulla cultura italiana fu enorme.
L'adesione al fascismo
All'inizio della prima guerra mondiale Gentile si
schiera a favore della guerra, vedendola come la conclusione del
Risorgimento italiano. In seguito Gentile, che fino ad allora non
aveva mostrato un interesse particolare nei confronti del fascismo
all'insediamento del regime, viene nominato ministro della pubblica
istruzione. E, nel 1923, come ministro attua una significativa
riforma scolastica che era ancora ferma alla riforma della legge
Casati del 1859.
Dopo la crisi del delitto Matteotti
,
date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere
la Commissione dei Quindici, poi divenuta dei Diciotto, per la
riforma dello
Statuto Albertino. La Commissione non concluderà i suoi lavori e
sarà Rocco l'architetto dell'ordinamento giuridico fascista.
La sua adesione al fascismo costituì la molla per la
rottura con
Benedetto Croce (rapporto peraltro già incrinato da una polemica
apparsa sulla Voce dieci anni prima) e gli comportò molte
inimicizie (anche all'interno dello stesso partito fascista) ma,
d'altra parte, gli diede la possibilità di accrescere la sua
influenza sulla cultura italiana, grazie anche ad alcune importanti
iniziative editoriali tra cui L'Enciclopedia Italiana (la famosa
Treccani). Nel suo disegno questa opera in più volumi doveva
costituire un monumento all'unità e alla concordia della cultura
italiana, a cui dovevano contribuire tutti gli studiosi, di
qualsiasi credo politico.
La situazione storica e politica non lo permise, e
Gentile dovette subire diverse sconfitte: la più bruciante fu la
firma del Concordato tra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano nel
1929. Benché Gentile considerasse il cattolicesimo come la forma
storica della spiritualità italiana, il Concordato contraddiceva al
suo disegno di uno Stato etico, garante di una unità divina tra gli
appartenenti e negava perciò ogni Dio indipendente dallo Stato.
La sua fedeltà al partito fascista, in cui vide sempre
la continuità del moto risorgimentale di unità nazionale, lo portò
ad aderire nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana; benché ormai
confinato ad un ruolo politico pressoché nullo, questo non gli evitò
di restare vittima di un attentato il 15 aprile del 1944 sulla
soglia della sua abitazione a Firenze, eseguito da un gruppo di
partigiani.
L’idealismo attualistico di Gentile
La riforma filosofica di Gentile si allaccia alla strada aperta a
Napoli da Bertrando Spaventa (zio di
Benedetto Croce)
che aveva tentato di semplificare e nello stesso tempo di rendere
più rigoroso il sistema hegeliano, cercando di eliminare i residui
realistici e ridurre tutto all’"atto del pensare”. Da qui la
denominazione "attualismo” della sua filosofia. Per Gentile non vi è
niente che sia già e che il pensiero viene a conoscere: tutto ciò
che si può pensare, infatti, presuppone l'atto del pensare.
Tutto ciò che è, quindi, esiste grazie al pensare
stesso. Da qui la nuova "dialettica": non più la dialettica
(dialettica è la scienza delle "relazione" tra concetti) del
"pensato", ma la dialettica del "pensare”.
La maturazione speculativa di Gentile passa (come
quella di Croce) quindi attraverso un serrato confronto con
l'hegelismo. Di Hegel il filosofo siciliano apprezza, a differenza
di Croce, non tanto la prospettiva storicistica quanto l'impianto
più direttamente coscienzialistico-idealistico.
Per Gentile il massimo merito di Hegel è di aver posto
una Coscienza (un Logos, un Pensiero) a fondamento ed inizio di
tutto il reale, contribuendo con ciò a edificare l'idealismo moderno
nella sua fase più evoluta. Hegel ha anche elaborato una raffinata
logica dialettica. Ma è proprio a proposito di questa dialettica che
Gentile (come anche Croce, seppure per ragioni e in prospettive
diverse) sente di dover muovere critiche radicali al pensiero
hegeliano. In effetti il filosofo tedesco ha confuso due
dialettiche, che invece per Gentile devono restare nettamente
separate. Queste dialettiche non sono (come per Croce) la
"dialettica degli opposti" e la "dialettica dei distinti",
ma sono quelle che Gentile chiama la "dialettica del pensare"
e la "dialettica del pensato". Rispetto all’atto infinito del
pensiero non si può pertanto applicare il sistema dialettico
hegeliano: non ha più senso parlare di una dialettica dell’idea,
della natura e dello spirito soggettivo ed oggettivo. L’unica
dialettica possibile è quella dello spirito assoluto, cioè del
pensiero pienamente consapevole di sé, consapevole di essere una
totalità assoluta in cui si sintetizzavano ed unificavano tutte le
determinazioni logiche ed ontologiche della realtà.
Arte, religione e filosofia
I momenti della dialettica interna del pensiero pensante
furono identificati da Gentile nelle tre posizioni che Hegel aveva
riconosciuto nello spirito assoluto, ossia l’arte come tesi,
la religione come antitesi e la filosofia come
sintesi. Tesi ed antitesi costituivano due momenti astratti, la
sintesi era invece il momento della concretezza, quindi della verità
e della realtà effettiva. In questo schema neoidealistico la scienza
venne considerata un’esperienza conoscitiva “inferiore”: essa si
poneva come conoscenza astratta-dogmatica e naturalistica. Astratta
e dogmatica perché la scienza concepiva la natura come una realtà
indipendente dal pensiero, anteriore ad esso e in grado di limitarlo
e condizionarlo; naturalistica perché la natura così intesa si
presentava come negazione della libertà dello spirito, quindi come
meccanicismo deterministico.
L’arte costituisce il momento della “soggettività” dello
spirito, la religione quello della “oggettività”, la filosofia
quello del sapere assoluto. Nell’arte l’io trascendentale ed
infinito si manifesta nella soggettività del “sentimento”; nel
concepire l’arte come sentimento quasi “ineffabile” ed inesprimibile
dell’io pensante, Gentile si collega a una certa visione del
romanticismo ma con una certa contaminazione razionale. Il rapporto
tra arte e razionalità pensante è complesso: da un lato l’arte
esiste in quanto non è pensiero razionale, dall’altro però essa
tende a trasformarsi in esso; ma l’arte divenuta pensiero nega se
stessa. Quindi l’arte può, secondo gentile, essere vissuta ma non
pensata: se la si pensa essa muore. La religione, come antitesi
dello spirito assoluto, costituisce il passaggio all’oggettività:
essa è data dall’ammissione di una realtà spirituale assoluta
considerata come indipendente dal pensiero che la pensa. In questo
modo la religione annulla la soggettività del pensiero
nell’oggettività della realtà divina, il soggetto pensante,
l’attività pensante deriva da Dio stesso: la religione per questo si
presenta come etero-ctisi, cioè creazione da parte di un
principio esterno, il contrario del processo di autoctisi,
ossia di creazione e rivelazione di sé del pensiero stesso.
Con la filosofia finalmente il pensiero infinito diventa
assoluto, in quanto comprende consapevolmente di essere
autosufficiente ed immanente a se stesso e alla realtà che da esso
deriva: il pensiero filosofico realizza quindi la sintesi di arte e
religione e, come sintesi, le contiene e le supera. Solo la
superiore razionalità filosofica è in grado di svelare che
l’assoluto altro non è che il progressivo ed infinito “farsi del
pensiero pensante” e che tutta la realtà è l’effetto di tale
processo. Da questo punto di vista, come aveva già ritenuto Hegel, i
tanti sistemi filosofici della storia avevano rappresentato la
massima consapevolezza di sé raggiunta dallo spirito nelle diverse
epoche e pertanto la filosofia coincideva con la sua storia poiché
le filosofie del passato confluivano nella filosofia del presente.
La
filosofia in quanto sapere assoluto è quindi superiore sia alla
scienza sia alla religione. L'esigenza d'identificazione di soggetto
e oggetto è anche a fondamento della filosofia del diritto (Fondamenti
di una filosofia del diritto, 1916; Genesi e struttura della
società, post., 1946). Tutti i rapporti che sono a fondamento
della vita morale e sociale sono risolti nell'interiorità dello
spirito, non sussistendo inter homines, ma in interiore
homine.
Morale e
diritto si basano sulla dialettica di volente e voluto,
corrispondente a quella di pensante e pensato, in quanto l'atto del
pensare puro è anche un atto di volontà. Nella volontà volente si
risolve la moralità che è volontà creatrice del bene. Nel voluto,
che è l'oggettivazione del contenuto dell'atto volente ed è
costituito dall'insieme delle leggi e delle norme che ci obbligano,
si risolve il diritto.
La legge
nella sua normatività e nella sua coattività non è dunque estranea
all'Io, ma a esso interna. Da ciò consegue l'identificazione della
volontà del singolo e dello Stato nell'unità del soggetto assoluto.
Su questo concetto Gentile insiste in Genesi e struttura della
società dove, respingendo l'identificazione di pubblico e
privato, nega l'autonomia dell'individuo di fronte allo Stato alla
cui potenza non si attribuiscono limiti.
Mussolini e Gentile
Gentile aderì immediatamente al fascismo e non ebbe
mai ripensamenti ma nonostante ciò e nonostante fosse stato anche
ministro del governo di Mussolini e che la parte filosofica della
voce "Fascismo" da lui scritta per l'Enciclopedia italiana (e
pubblicata sotto la firma di Mussolini) fosse l'esposizione
ufficiale più autorevole della dottrina filosofica del fascismo,
Gentile non riuscì mai ad ottenere che le sue idee filosofiche
fossero riconosciute come ufficiali dello Stato.
Queste idee infatti erano troppo raffinate, ricercate
e anche paradossali perché la loro influenza si estendesse aldilà
dei circoli intellettuali. Come abbiamo avuto occasione di dire in
altra sede (vedi
Croce) il fascismo non ebbe mai una propria dottrina filosofica
pienamente elaborata. Essa era composta da idee di vario genere,
mutuate da diverse parti. Gli immediati ispiratori dell'eclettica
ideologia fascista vanno cercati in Corradini, D'Annunzio,
Marinetti, Pareto e altri. Il fascismo eserciterà maggiore influenza
sulle masse come dottrina mistica e irrazionale, in cui l'uomo è
visto nel suo immanente rapporto con una "legge superiore", una
"volontà obiettiva".
La Filosofia politica
Nella filosofia giuridica e politica Gentile, seguendo
Hegel, identifica lo Stato, il soggetto universale, con
l’incarnazione della moralità. Stato fu sempre per lui sinonimo
di Stato etico. Nell’opera I Fondamenti della filosofia del
diritto del 1916, come nell'ultimo suo scritto Genesi e
struttura della società pubblicato postumo 1946, Gentile delineò
il suo modello di Stato dove Diritto e morale, Stato e individuo si
identificano nell'atto del volere volente o del soggetto pensante in
cui consiste la loro verità. La struttura dello Stato che Gentile
tracciò nei suoi saggi, rappresenta il momento della sintesi che
risolve in sé l’individualità dei suoi componenti e come tale
elimina la distinzione tra pubblico e privato, nella direzione di un
totalitarismo che paradossalmente garantisce la libertà, la “vera
libertà”, per tutti i cittadini. L’adesione al partito fascista
sembrò a Gentile la scelta eticamente e filosoficamente più
coerente. Ma l’episodio cruciale che gli diede la possibilità di
definire la sua posizione in politica fu la prima guerra mondiale.
Gentile condannò l’attendismo di coloro che, come Croce, temevano
che una guerra pur se vittoriosa sarebbe risultata un disastro per
il giovane Stato italiano, e sostenne con numerosi articoli la tesi
che il conflitto rappresentasse un esame necessario da superare, che
avrebbe unito il popolo italiano e gli avrebbe permesso di
guadagnare credito internazionale. Scontento, come tutti gli
intellettuali, della burocrazia e della politica parlamentare che
etichettò col termine giolittismo vide, nel nuovo partito di
Mussolini prima, e nel regime dopo, lo sviluppo e il compimento di
quel moto storico-ideologico che, dopo aver animato tutto il
Risorgimento italiano, si compiva finalmente nell'avvento di uno
Stato etico forte, garante della libertà dei cittadini ed essenza e
validazione di questa stessa libertà.
In sintesi l'analisi storica di Gentile attesta di
come il fascismo (elemento fondamentale all'interno di quello che
Eric Hobswam ha definito Il Secolo Breve) sia stato il primo
esperimento totalitario nell'Europa occidentale uscita dalla prima
guerra mondiale, con il suo essere nazionalista e rivoluzionario in
chiave totalitarista, chiaramente imperialista e razzista contro il
liberalismo ed il marxismo, al pari dell'ideologia gemella
del nazismo
Come Partito-milizia il fascismo fu sempre proteso ad
annientare i diritti dell’uomo e del cittadino, nel tentativo di
creare una civiltà nuova basata sulla militarizzazione della
politica e sulla sacralità dello Stato nonché sul primato della
nazione intesa come comunità etnicamente omogenea.
La teoria dell'educazione
Per
Gentile pedagogia e filosofia coincidono poiché entrambe hanno la
funzione di rendere l'uomo consapevole di essere unità tra pensiero
e realtà nell'atto del pensare. La pedagogia, per Gentile, si basa
su due principi fondamentali: la realizzazione dell'identità fra
educatore ed educando nell'atto educativo nell'assolutezza dell'Io
trascendentale, il rifiuto di ogni carattere prefissato e astratto
nel contenuto dell'insegnamento e di ogni regola didattica, in
quanto sia il metodo sia la tecnica d'insegnamento sono privi di
senso dal momento che l'educazione è fondamentalmente un atto
spirituale di autoeducazione.
Questi
principi non furono estranei alla riforma della scuola (1923) cui
Gentile attese come ministro della Pubblica Istruzione e che venne
tra l’altro condizionata da altri due aspetti fondamentali
dell’idealismo gentiliano: la concezione della scuola come funzione
della vita dello Stato (da qui nasce l'esigenza dell'esame di Stato
a conclusione degli studi) e il privilegio accordato alla formazione
d'impronta umanistica.
Gentile infatti non riconosce valore formativo alla
scienza, ma alla filosofia. Come conseguenza, nell'ambito culturale
assume particolare importanza il liceo classico (come scuola
destinata alle classi superiori della nazione) e in esso
l'insegnamento della filosofia e della cultura storico- letteraria.
Il sapere tecnico-scientifico, esaltato dal Positivismo, assume
invece un ruolo secondario destinato alle classi inferiori.
Anche l'insegnamento della religione nella scuola
elementare assume una funzione importante poiché aiuta i bambini a
cogliere la dimensione dell'assoluto che sarà fornita
nell'insegnamento successivo della filosofia. Per Gentile studiare
religione era un modo per avviarsi successivamente agli studi
filosofici, e bisognava studiare religione cattolica perché la forma
italiana di religiosità era storicamente cattolica.
Molti erano ostili alla riforma ma quando, con
Mussolini, Gentile divenne ministro, nominò una sorta di stato
maggiore con cui neutralizzare le resistenze degli oppositori. Egli
inoltre poté governare per decreti legge, grazie ai poteri che il
Parlamento aveva concesso a Mussolini, e così la riforma finalmente
venne approvata. All’inizio, per tutti, la scuola elementare
“aderente al sentimento, all’esperienza, alla lingua, ai costumi,
all’anima del popolo religiosa e poetica, legata alle venerande
forme delle credenze tradizionali, ma aperta e pronta alle
ispirazioni e suggestioni della poesia e dell’arte”. Poi
ginnasio o scuole professionali.
Fu una riforma “liberale” e “autoritaria” insieme, contraddittoria come la
politica economica del governo Mussolini che si ispirava agli stessi
criteri, e che considerava lo smantellamento di certe sovrastrutture
dello Stato Liberale una tappa fondamentale per la creazione di uno
stato nuovo.
Perché fu assassinato Giovanni Gentile?
L'attentato a Giovanni Gentile di fronte alla villa fiorentina che
lo ospitava, il
15 aprile 1944,
suscitò immediatamente illazioni e sospetti. Il filosofo aveva
aderito al fascismo repubblichino, aveva accettato incarichi innocui
ma simbolici, come la presidenza dell'Accademia d'Italia, aveva
pronunciato discorsi d'intonazione nazional-fascista e aveva fatto
un'affettuosa visita a Mussolini nella sua villa sul Lago di Garda.
Ma si servì anche della sua autorità per deplorare la crudeltà delle
bande fasciste, invocare la pace civile degli italiani e intervenire
presso il prefetto per salvare la vita di persone arrestate e
condannate a morte. Vi era quindi tra i fascisti fiorentini, nelle
settimane che precedettero la sua uccisione, un partito degli
intransigenti per cui il filosofo era diventato un pericoloso
esempio di lassismo morale e ideologico.
Sull'identità e sull'affiliazione politica degli uccisori tuttavia
non ci sono dubbi. L'assassinio fu opera di un Gap fiorentino,
guidato da un ragazzo di 23 anni, Bruno Fanciullacci, che venne
arrestato tre mesi dopo e morì, per non parlare, gettandosi dalla
finestra della villa in cui era stato interrogato e torturato
(Sergio Romano
http://www.corriere.it/romano/08-06-20/01.spm).
Secondo
lo storico Sergio Bertelli, l'ordine sarebbe stato impartito da un
gruppo di intellettuali comunisti fiorentini senza consultare il Cln
della Città. Ma la vicenda non è così semplice, infatti qualche
settimana prima il latinista Concetto Marchesi, partigiano e già
rettore dell'Università di Padova, aveva pubblicato su un giornale
svizzero, dove si era rifugiato, un articolo polemico contro Gentile
e i suoi inviti alla riconciliazione nazionale. L'articolo,
successivamente, apparve anonimo su un giornale clandestino “La
nostra lotta” dei comunisti milanesi e si chiudeva con queste parole
“Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani
fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la
sentenza: MORTE!”. Questa ultima frase non apparteneva al testo
di Marchesi ed era stata aggiunta, pare, da Girolamo Li Causi.
Quando Palmiro Togliatti riprodusse l'articolo su Rinascita del 1°
giugno 1944, lo fece precedere da una nota intitolata “Sentenza di
morte”.
Anche
Luciano Canfora, nel libro "La sentenza" (Sellerio, 1985),
arriva alla conclusione che Concetto Marchesi sarebbe stato il
mandante dell'assassinio di Gentile. Al contrario Ezio Franceschini
(partigiano con Marchesi e poi rettore dell'Università Cattolica) in
un libro dedicato a "Concetto Marchesi" (Padova 1978),
pubblicava la trascrizione della lettera autografa di Marchesi a
Gentile, intitolata "Per la concordia degl'Italiani", del gennaio
1944. La lettera venne però stampata dal giornale “La nostra lotta”
con sostanziali modifiche e sono quelle aggiunte che possono essere
connesse all' assassinio di Gentile, aggiunte di cui Marchesi non fu
responsabile. Con questo documento Franceschini voleva dimostrare
l'estraneità' di Marchesi al fatto (Claudio Leonardi, Università di
Firenze, Dibattito su Gentile: Politica e responsabilità).
Coerenza
o ostinazione?
A
proposito della valutazione di Gentile, Costanzo Casucci, direttore
della biblioteca Giustino Fortunato, rileva che si compiono almeno
due errori: “si tenta di assolverlo perché grande filosofo, quasi il
grande uomo di cultura sia al di sopra e/o al di fuori dei principi
morali, di più se ne esalta la fedeltà fino alla sua morte alla
causa del fascismo, considerata prova di coerenza. In realtà la
posizione di Gentile fu radicalmente incoerente, in quanto non seppe
reagire alla duplice frattura intervenuta tra la sua filosofia ed il
regime. La prima frattura fu dovuta alla Conciliazione con cui il
fascismo si dissociava dal risorgimentalismo laico, che aveva avuto
in Gentile uno dei suoi massimi esponenti, la seconda alla politica
razziale. L'adesione del movimento fascista alla dottrina razzista,
che esasperando la concezione della nazione come dato negava in
radice quella della nazione come farsi, avrebbe dovuto originare in
Gentile una crisi che invece non ci fu. La fedeltà di Gentile fino
all'ultimo al fascismo può avere una spiegazione di carattere
esistenziale, non già teoretico: non si può confondere l'ostinazione
con la coerenza” (Dibattito su Gentile: Politica e responsabilità)
Simbolo
di un’ideologia nefanda
Personalmente non siamo in grado di dare una soluzione, né vogliamo
darla. Ci limitiamo soltanto a ricordare che in quel periodo
l’Italia era teatro di una feroce guerra civile con più
caratteristiche: da un lato era una guerra ideologica tra due
opposte fazioni, dall’altro era la guerra di un movimento
clandestino che combatteva su due fronti, contro un regime occupante
e contro la RSI alleata degli occupanti. La Resistenza non era in
grado di produrre un capo con una strategia unica.
Era composta da formazioni diverse, alcune avevano organizzazione
militare, altre erano piccole unità per operazioni di commando o
cellule terroristiche ma avevano tutte uno stesso scopo: colpire il
nemico nei suoi punti più esposti per creare paura e sconcerto nelle
file dei tedeschi e dei loro alleati e dimostrare alla grande massa
degli «attendisti», di coloro cioè che non erano impegnati né in un
campo né nell’altro ma semplicemente stavano a guardare pronti ad
aggregarsi al vincitore ( nel più puro dello stile italico!) che una
minoranza di uomini coraggiosi poteva tenere in scacco uno dei più
agguerriti eserciti del mondo e poteva vincere se si fosse
rafforzata. In una guerra civile non basta mettere a segno qualche
colpo fortunato serve soprattutto suscitare adesioni, attrarre nuove
reclute e farsi amica la popolazione. Ogni azione che ha successo
contro il nemico, che abbatte un simbolo, diventa un bando di
reclutamento per nuovi militanti.
Essendoci più gruppi e più strategie, ognuno agiva un
po’ per conto proprio. Ogni partito della Resistenza, anche se
legati dall’antifascismo, aveva il suo programma politico per il
futuro del Paese e agiva in funzione del ruolo che desiderava avere
nella vita politica nazionale dopo la fine del conflitto. Come
avvenne anche in Spagna fra il 1936 e il 1939, la lotta contro il
nemico si accompagna a un'altra lotta interna alla Resistenza stessa
tra forze che sono al tempo stesso alleate contro un nemico comune e
concorrenti tra loro. I comunisti, in questa prospettiva, furono i
più decisi. Capivano che gli attentati contro i tedeschi avrebbero
provocato crudeli rappresaglie e speravano che le reazioni tedesche
avrebbero ridotto il numero degli attendisti. Però non dobbiamo
dimenticare che la guerra civile produce un clima di esaltazione in
cui fioriscono personalità spericolate, ambiziose o fanatiche,
ansiose di agire senza attendere ordini. Le azioni migliori da
compiere per gli esaltati e i fanatici sono quelle che hanno un alto
valore simbolico e toccano maggiormente l’ immaginazione.
L'assassinio di Gentile aveva tutte queste
caratteristiche. Il filosofo era molto noto, non soltanto nel mondo
culturale e accademico. Aveva pubblicamente aderito al fascismo,
alle leggi razziali, alla Repubblica di Salò, aveva fatto visita a
Mussolini ed era per di più un bersaglio facile non avendo una
scorta e inoltre predicava la riconciliazione nazionale. Era un
bersaglio e un simbolo perfetto.
Ecco perché secondo noi un vecchio filosofo ormai alla
fine della sua carriera e prossimo anche alla fine della sua vita fu
ucciso: era una vittima sacrificale, il simbolo del fascismo da
tirar giù dal piedistallo.
Fara
Misuraca e Alfonso Grasso
Aprile 2009
Giuseppe Amato Pojero (4/1/1863- 30/9/1940) creò un cenacolo
che divenne un centro di dibattito culturale tra scienziati,
letterati, teologi. Il cenacolo si trasformò in Società per
gli studi filosofici ed infine in Biblioteca filosofica di
Palermo. Questa ebbe vita attivissima per circa un
trentennio (dal 1910 al 1937, quando divenne una sezione
dell'Accademia di scienze, lettere e arti) e vide la
partecipazione di eminenti studiosi italiani e stranieri
come Giovanni Gentile, Cosmo Guastella, Francesco Orestano,
Santino Caramella, Vito Fazio Allmayer, padre Agostino
Gemelli, padre Gillet, Franz Brentano. (Archivio biografico
comunale)
Giacomo Matteotti, socialista, fu un convinto sostenitore
della neutralità italiana nella 1° guerra mondiale e questa
sua posizione gli costò l'internamento in Sicilia. Matteotti
fu eletto per la prima volta nel 1919. Nel 1921 pubblicò una
famosa "Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in
Italia", in cui si denunciavano, per la prima volta, le
violenze degli squadristi fascisti durante la campagna
elettorale delle elezioni del 1921. Nel 1924 venne
pubblicato a Londra un suo libro: The fascisti exposed; a
year of fascist domination in cui riportava gli atti di
violenza fascista contro gli oppositori e inoltre osservava
che il miglioramento delle condizioni economiche e
finanziarie del paese, che stava lentamente riprendendosi
dalla guerra non era dovuto all'azione fascista, ma alle
energie popolari, e che a beneficiarne erano solo gli
speculatori e i capitalisti, mentre il ceto medio e dei
lavoratori non ne beneficiavano in proporzione al loro
impegno ed avevano perduto la loro libertà. Il 30 Maggio
1924 Matteotti prese la parola alla Camera per contestare i
risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile.
Matteotti pronunciò un discorso che sarebbe rimasto famoso:
«Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità
delle elezioni della maggioranza. L'elezione secondo noi è
essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in
tutte le circoscrizioni» e continuò denunciando una
serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti
per riuscire a vincere le elezioni. Al termine del discorso,
dopo le congratulazioni dei suoi compagni, rispose loro, con
una quasi profetica premonizione, dicendo: «Io il mio
discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre
per me». In un'altra occasione aveva pronunciato una
frase che si sarebbe rivelata profetica: «Uccidete
pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai».
La proposta di Matteotti di far invalidare l'elezione
almeno di un gruppo di deputati - secondo le sue accuse,
illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli
- venne respinta dalla Camera con 285 voti contro, 57
favorevoli e 42 astenuti. (tratto da
Wikipedia)
Bibliografia
-
Luciano Canfora, La sentenza, Sellerio
-
Renzo De Felice, Breve Storia del Fascismo, Mondadori
(Oscar)
-
Antonio Fede, Giovanni Gentile tra attualità e attualismo,
Edizione Nuove Idee, Roma
-
Aldo Lo schiavo, Introduzione a Gentile, Laterza
-
Myra E. Moss, Gentile e il fascismo, Armando Editore
-
Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli
anni del regime, Rizzoli
-
Alberto Signorini, Giovanni Gentile e la filosofia, Ed.
Le Lettere
Pagine del sito correlate
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