Le Pagine di Storia

 

“il Vittoriale”

La Massoneria costruì a Roma il suo grande tempio

La macchina da scrivere, … la torta nuziale: questi i soprannomi del mastodontico Vittoriano. Realizzato nel cuore di Roma con palese violenza architettonica e urbanistica, la sua slavata mole appare incongruente rispetto al tono caldo del travertino romano.

È il monumento che i Re piemontesi, laici e massoni, vollero come simbolo della terza Roma, dopo quella dei Cesari e dei Papi, e che poi fatalmente assurse a totem istituzionale per i riti del Palazzo. Tutto cominciò con la morte di Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia. Siamo ai primi di gennaio del 1878, e subito si pensa all'edificazione di un monumento in suo onore. Il più lesto a rilanciare l'idea è il Comune di Roma, che stanzia 100mila lire e lancia una sottoscrizione.

Il Governo, per impulso del ministro dell'Interno Giuseppe Zanardelli, però lo sorpassa in pochi mesi. In maggio viene approvata una legge che prevede la costruzione del monumento alla memoria nella capitale, bandisce un concorso internazionale, fissa una spesa di 8 milioni di lire. Già si capisce che le dimensioni e le ambizioni sono grandiose. Il monumento dovrà essere di una scala paragonabile a quella del Colosseo, costruito dagli antichi Flavi, o a quella della Basilica di San Pietro, il cui colonnato è stato disegnato da Michelangelo.

Tuttavia le idee sono ancora confuse. Non è neanche fissato il luogo di Roma dove realizzare il progetto, per cui i concorrenti si sbizzarriscono su due possibili locazioni: la piazza davanti a Termini e il colle del Campidoglio. Arrivano alla Commissione 300 progetti, molti stranieri, in un guazzabuglio di retorica patria. La circostanza darà lo spunto a Carlo Dossi per scrivere qualche anno dopo un libro di garbata presa in giro: I Mattoidi al I Concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele II, in cui racconta la "sacra pazzia" che contagiò non solo architetti e ingegneri ma anche "maestri di grammatica e di matematica, dottori di medicina e di legge, militari, un impiegato telegrafico, un ragioniere...".

Il francese Henri-Paul Nénot vince il primo premio (pecuniario) ma lo Stato decide di non realizzare il suo progetto. Secondi arrivano Ettore Ferrari e Pio Piacentini che propongono un "Campidoglio italico" da affiancarsi all'Ara Coeli.

È l'idea che alla fine prevale. Così il secondo concorso, siamo già al 1882, è molto più dettagliato e prevede la locazione attuale, l'uso del marmo bresciano (il ministro Zanardelli era di quelle parti), una grande statua equestre del Re, sull'asse di via del Corso, un fondo architettonico di 30 metri di lunghezza e 29 d'altezza sulla quota di Piazza Venezia, per "coprire" (sic!) la vista dell'Ara Coeli e del Campidoglio. Lo vince un giovane architetto marchigiano, Giuseppe Sacconi, che si ispira all'Altare di Pergamo, antichissimo reperto mediorientale ma anche gioiello della Berlino prussiana, in quegli anni capitale del neo classicismo imperiale. Sacconi viene anche nominato direttore dei lavori che viaggiano a tempo di record. Ben presto si imbatte in una sciagurata circostanza: il colle è fatto di argille friabili e non di tufo, come si sperava. Inoltre ai primi scavi vengono alla luce reperti di ogni tipo, che provocano persino un dibattito parlamentare e una certa opposizione del Comune. Ma il governo tira dritto. Vengono distrutte delle antichissime case, il convento dell'Ara Coeli, la torre fatta erigere da Paolo III.

I lavori non si fermano neppure quando si trovano i resti di un elefante preistorico fossilizzato. Sacconi modifica il progetto, consolidando, creando archi e sostegni all'enorme costruzione, non più appoggiata sul colle ma autonoma. Dedica tutta la sua vita alla costruzione dell'enorme edificio (dal 1886 sarà anche deputato del Regno per il collegio di Ascoli Piceno) e combatte una dura battaglia politico-estetica, soprattutto sulle statue e sui vari ornamenti del Vittoriano. È lui a partorire l'idea dell'Altare della Patria, un bassorilievo da ricavare nel sottobasamento della statua del Re, con al centro la Dea Roma.

Il tempo gli darà ragione al punto che oggi il Vittoriano stesso è conosciuto come Altare della Patria, benché si tratti di una metonimia, la parte per il tutto. Un'altra fissa di Sacconi è evitare i personaggi storici che la politica vuole invece consacrare nel monumento, oltre al Re defunto naturalmente. Nel primo elenco ci sono Cavour, Mazzini, Garibaldi... Riesce nel suo intento. Niente uomini ma invece personificazioni di idee immortali, nel più pieno rispetto del credo massonico. Le due quadrighe bronzee sono La Libertà, guardando il monumento a sinistra, e L'Unità a destra.

Accanto alla Dea Roma i bassorilievi rappresentano il Lavoro e l'Amor patrio. Le due Vittorie alate svettano su altrettanti gruppi, marmorei e bronzei, come II Sacrificio, II Diritto, L'Azione, II Pensiero, La Concordia, La Forza. Spazio anche alle terre italiane. Statue raffigurano Torino, Napoli, Urbino, Ferrara, Venezia, Bologna, Ravenna, Palermo, Amalfi, e ci sono personificazioni marmoree anche per le Regioni. Al lato sinistro in basso la fontana del Mare Adriatico, a destra quella del Mar Tirreno. L'inaugurazione solenne avviene nel 1911. Sacconi è morto da sei anni, alla fine il complesso monumentale è costato 30 milioni di lire. Le sue proporzioni non hanno niente da invidiare al Colosseo o al Vaticano, ma non conquista il gusto dei romani e degli italiani. Il mastodonte è sovraccarico di pedagogia laica e risorgimentale, fondamentalmente estraneo al resto della città. Intervenne quindi la Prima Guerra mondiale, “l'inutile strage" per dirla con papa Benedetto XV, che lascia sul terreno 600mila morti italiani. Alla sua fine, 1918, non esiste famiglia che non pianga un congiunto ucciso in guerra. In tutta Europa si piangono milioni di vittime.

A Londra si decide di dedicare una tomba monumentale a “Unknown Soldier”, nell'Abbazia di Westminster. A Parigi il corpo di un soldato reso irriconoscibile dalla più infernale guerra di trincea della storia viene deposto all'interno dell'Are de Triomphe sugli Champs-Élysées. In Italia è il colonnello Giulio Douhet a rilanciare l'idea: "Al soldato", scrive, "bisogna conferire il sommo onore (...) Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re". Il Parlamento vota apposta una legge ma designa il Vittoriano come luogo dove seppellire il "Milite Ignoto".

La data fissata: 4 novembre 1921, da allora Festa della Vittoria, a ricordare il bollettino firmato dal generale Diaz. Il Milite Ignoto viene inumato proprio sotto la Dea Roma, presente Vittorio Emanuele III. Il regime di Mussolini relegherà il Vittoriano a maestosa quinta delle sue adunate. Lo catturerà urbanisticamente, aprendo la "Via dell'Impero", oggi via dei Fori Imperiali, sottraendolo alla sua natura di punto d'arrivo. Saranno la piazza Venezia e lo storico balcone a prevalere nella propaganda, non certo il monumento dei Savoia. Per anni la retorica fascista si sovrappone a quella massone-risorgimentale.

Ce n'è abbastanza perché il dopoguerra dimentichi quasi totalmente il Vittoriano (usato nella II guerra mondiale come rifugio anti-aereo). Il mausoleo bianco di Sacconi perde quasi il contatto con la città. Viene riportato in auge solo nelle ricorrenze: il 2 giugno, il 4 novembre e dal 1955 anche il 25 aprile. Il 12 dicembre del 1969, in concomitanza con il ben più grave attentato di Piazza Fontana a Milano, è oggetto di un attentato dinamitardo.

L'occasione è buona per tirare su definitivamente la cancellata a scomparsa in ferro battuto e chiudere al pubblico il monumento. Del resto gli anni Settanta e Ottanta sono fra i più disinteressati. Sopravvive il rituale delle cerimonie e la fiamma del Milite Ignoto. In questi anni due architetti, Ludovico Quaroni e Carolina Vaccaro, arrivano persino a proporre la demolizione del Vittoriano, immaginando di posizionare altrove la salma del soldato della Grande Guerra. L'attuale Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha voluto fortemente una rivalutazione del Vittoriano.

Una nuova immagine di questo luogo c'è stata con la recente cerimonia funebre per i militari e i civili italiani uccisi nell'attentato di Nassiriya in Iraq. Come per la cerimonia del 1921, la gente si è stretta attorno ai caduti, portando per giorni e giorni fiori e preghiere che sono stati deposti ai piedi del Milite Ignoto. Per la seconda volta un rito funebre collettivo ha fatto del Vittoriano un luogo per la gente.

Alcuni altri monumenti romani di ispirazione massonica

Nella Roma postunitaria, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele furono i personaggi più "monumentati". Il nizzardo ebbe la sua statua equestre ad opera dello scultore Emilio Gallori. Simbolicamente, per l'ubicazione, fu scelto il colle del Gianicolo e lo sguardo del cavaliere fu metaforicamente rivolto verso il "fosco Vaticano"; così Carducci aveva definito il centro del Cattolicesimo.

Alla nuova Roma, secondo la volontà governativa, doveva essere demandato il ruolo di città delle arti. Così nel 1911, in occasione del Cinquantenario dell'unità, l'architetto Cesare Bazzani fu incaricato dell'edificazione nella conca di Valle Giulia del Palazzo delle Belle Arti (oggi sede della Galleria Nazionale d'Arte Moderna) allo scopo di "raccogliere i lavori eccellenti in pittura, scultura, disegno e incisione di artisti viventi e, in casi eccezionali, di artisti morti nell'ultimo trentennio".

Del resto, già nel 1882, l'architetto Pio Piacentini aveva progettato, lungo via Nazionale, il Palazzo per l'Esposizione Internazionale delle Belle Arti (l'attuale Palazzo delle Esposizioni). Inaugurato l'anno seguente, l'edificio - il cui frontone fu decorato con il monumentale gruppo marmoreo eseguito da Adalberto Concetti e raffigurante "L'arte trionfante tra lo studio e la pace" - fu simbolicamente destinato ad accogliere le esposizioni annuali della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti, l'associazione fondata nel 1829 da Pio Vili allo scopo d'incrementare la produzione artistica.

Sul finire dell'Ottocento, però, venute meno le tensioni che avevano alimentato il Risorgimento, si fecero strada nuovi segnali d'inquietudine che invasero anche il campo delle arti e di cui, tra gli altri, si rese sferzante testimone Carlo Carrà quando, esprimendosi in merito alla scultura celebrativa, arrivò a definirla "un'idea grottesca che ha fiorito sul terreno putrido della fatuità moderna". Nel 1902 allo scultore Ettore Ferrari - il cui padre aveva combattuto al fianco di Garibaldi durante la Repubblica Romana nel 1849 - fu affidata la realizzazione, sul colle Aventino, del monumento a Giuseppe Mazzini. Presidente della commissione incaricata fu Pasquale Villari, al quale toccò il delicato compito di filtrare le contrastanti scelte iconografiche che furono oggetto, addirittura in Parlamento, di accese polemiche, poi abilmente ricomposte da Francesco Crispi. Lo scultore - che intanto nel 1889 aveva scoperto il suo monumento a Giordano Bruno a Campo de' Fiori - mise in scena un complesso sistema di altorilievi marmorei disposti intorno al monumentale basamento e incentrati sui temi della "Rivoluzione" e del "Dispotismo smascherato".

L'ambiguità politica e contenutistica dei rilievi - per i quali Ernesto Nathan, entusiasta, aveva parlato di "torrente che tutto travolge in un'onda gigante di entusiasmo e calpesta le bieche figure e le insegne delle tirannidi" - non ne permise l'esecuzione fino al 1949, quando ormai, morto Ferrari e stemperato l'evidente messaggio anticlericale e massonico, l'opera poté essere eseguita con sostanziali, e "normalizzanti", mutamenti rispetto al progetto originario.


Informazioni, liberamente tratte, da Ulisse Rivista di Bordo dell'Alitalia, gennaio 2004 (articoli di Alessandro Banfi e Francesco Leone)

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