Giovanni (Carmelo Verga Catalano) nacque a Catania
il 2 settembre 1840, alle ore 4, 30. Questo secondo
gli atti ufficiali ma lo stesso Verga ha giocato
sulla sua reale data di nascita collocandola tra il
29 agosto ed il 15 settembre. Di famiglia borghese,
ma che vantava antiche tradizioni nobiliari, fu
allievo di un poeta di gusto romantico, Antonino
Abate, e di Domenico Castorina, che gl’inculcarono
l’amore per le lettere e il sentimento nazionale
italiano. Il loro influsso è evidente nei suoi primi
romanzi, Amore e patria (1857), ambientato
nell’America della rivoluzione ma rimasto inedito, e
I Carbonari della montagna, racconto storico
sul periodo murattiano ambientato nella Calabria del
Murat, fra cospirazioni carbonare, antifrancesi e
antigiacobine.
La famiglia Verga alternava la residenza fra Catania
e Vizzini, ed è proprio nella tenuta vizzinese di
Tébidi, in cui si erano ritirati in occasione
dell’epidemia di colera del 1855, che il Verga, si
dice, conobbe un’educanda che poi gl’ispirò la
Storia di una capinera.
Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza al
Siculorum Gymnasium di Catania ma non conseguì
mai la laurea.
Dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, nel 1860 il
Verga si arruolò nella Guardia Nazionale e fondò il
giornale Roma degli Italiani; l’anno
successivo fondò L’Italia contemporanea e
L’indipendente. Ed è proprio tra il 1860 e il
1861 che uscì il suo romanzo patriottico I
carbonari della montagna che fece pubblicare col
denaro che avrebbe dovuto servire per pagarsi gli
studi. Tra il 1862 e il 1863 pubblicò nel giornale
fiorentino La nuova Europa un romanzo
d'argomento contemporaneo: Sulle lagune,
ambientato fra Venezia e Oderzo, in cui auspicava la
liberazione e annessione del Veneto. Concluso
questo breve periodo giovanile “risorgimentale”,
prima del Verga verista, troviamo un Verga
romantico.
La qualità letteraria delle opere giovanili di Verga
non è di certo quella dei Malavoglia o di
Vita nei campi, eppure sono interessanti per la
loro capacità di documentare il gusto dell’epoca
tardo-romantica.
Dopo un primo viaggio a Firenze (1865), cominciò la
serie dei romanzi passionali con Una peccatrice,
Storia di una capinera (1871), Eva, Tigre
reale, Eros (1875). Del 1876 è la prima raccolta
di novelle, Primavera e altri racconti. Lo
scrittore, ritornato a Firenze nel 1869 vi si
stabilisce fino al 1871. Nel 1869 aveva conosciuto a
Firenze Giselda Foianesi che, pur avendo sposato nel
’72, il poeta catanese
Mario Rapisardi, ebbe in seguito un'intensa
relazione amorosa con Verga.
Nel ’72 si trasferisce a Milano, dove
prevalentemente visse fino al 1893. Il lungo
soggiorno milanese immerse Verga nella problema
artistica e della vita italiana, mettendolo a
stretto contatto con il tardo romanticismo, la
Scapigliatura, la crisi della società
risorgimentale, le suggestioni degli ambienti
mondani. Qui si forma lo stile letterario della sua
prima produzione, cupa e passionale che è insieme
reminiscenza libresca e irrisolto residuo
autobiografico.
Prodromi del Verga verista, poeta della dura e
spesso feroce realtà da affrontare, sono
riconoscibili comunque nell'Erminia di Tigre
reale, e nella protagonista di Eva.
Il Verga seconda maniera, il Verga verista nasce con
le novelle di Vita dei campi (1880),
caratterizzate da un verismo asciutto, rapido,
animato da sentimenti autentici, anche se irrigidito
dall'eccessiva carica dialettale. In Vita dei
Campi è rappresentata una umanità primitiva ed
istintiva, semplice come in Cavalleria rusticana,
più complessa ne La Lupa, in Ieli il
pastore e soprattutto in Rosso Malpelo ma
talora ridotta a osservazione caratteristica e
folcloristica. Talvolta queste novelle, come poi
quelle culminanti dei due maggiori romanzi, sono un
canto desolato, l'interpretazione lirica del pathos
dei derelitti, degli ultimi.
Con I Malavoglia Verga dà inizio al ciclo
narrativo de I vinti (inizialmente intitolato
La marea), che doveva svilupparsi in cinque
romanzi: I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La
duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di
lusso. La storia di cinque vite ambiziose e
sfortunate, da quelle della povera gente in cerca
dei mezzi materiali per sostenersi a quelle del
raffinato aristocratico. Ma Verga non andò oltre il
primo capitolo del terzo romanzo, che fu pubblicato
postumo, nel 1922 da Federico De Roberto.
I Malavoglia raccontano
la storia d'una famiglia di poverissimi pescatori
siciliani e la triste sorte di 'Ntoni, l’unico della
famiglia che ha tentato di sottrarsi all'umile,
faticoso e, soprattutto, inappagante lavoro. La
forza poetica del romanzo sta nell'amara
rassegnazione dei "vinti" dinanzi all'accanirsi del
destino e nel rispetto di una legge primitiva e
insopprimibile: l'attaccamento alla famiglia e
all'onestà dettata dalla tradizione.
I Malavoglia
più che un romanzo è un poema; in esso il linguaggio
di Verga si avvicina alla poesia sciorinando al
lettore una ricca sequenza d'immagini, di dialoghi
spezzati e scabri, di toni di colore ora stanchi e
sbiaditi, ora fortemente contrastanti.
Dopo I Malavoglia Verga pubblicò (1882) Il marito
di Elena, che tratta lo stesso tema de I
Malavoglia, inserito però in un ambiente piccolo
borghese in cui si cominciano già a intravedere i
tratti di certe psicologie femminili e la vena
pittoresca che matureranno nel Mastro don
Gesualdo;
Nel 1883 pubblicò le Novelle rusticane che,
come scrive Sarah Zappulla Muscarà, sono "mirabili,
nella loro sofferta, opprimente desolazione,
percorse da un più cupo pessimismo e nessun
spiraglio di luce sembra illuminare i protagonisti
di questa disperata tragedia del vivere".
Quindi pubblica Per le vie (1883), una
raccolta di novelle in cui è ritratta, con
asciuttezza di tono e rapidità di ritmo, la vita dei
bassifondi milanesi e nelle quali Verga abbandona il
regionalismo siciliano per affrontare gli ambienti
caratteristici del realismo internazionale.
Fra regionalismo e realismo stanno le novelle di
Vagabondaggio (1887) e gli ironici I ricordi
del capitano d'Arce (1891).
Ma certo l'opera di maggiore impegno di quegli anni,
come testimonia la sua lunga elaborazione con ben
tre stesure tra il 1884 e il 1889, è il romanzo
Mastro don Gesualdo. Protagonista è un muratore
siciliano, Gesualdo Motta, riuscito a diventare
ricco con grande forza di volontà e sacrifici immani
tra mille avversità e difficoltà, ma circondato
dalla malignità e dall'invidia dei rivali e di
quella dei beneficati, amareggiato anche dalla
indifferenza e dalla lontananza psicologica della
moglie, Bianca Trao, di nobili natali, censualmente
troppo superiore a Gesualdo e infine
dall'indifferenza della figlia. Sconfitto, muore
solo, dopo lunghe sofferenze, nel palazzo dove la
figlia e il genero dilapidano con leggerezza la
ricchezza che egli ha guadagnato con sacrificio.
Negli anni fra il 1881 e il 1889 Verga ha via via
acquisito una tecnica sempre più potente, complessa
ma sensibile. Particolarmente vivido infatti è il
paesaggio in cui si muove il protagonista con la sua
sofferta inquietudine, dai campi alla cittadina
siciliana, popolata da tipi umani diversissimi.
A completamento dell'esperienza letteraria di Verga
vi è una interessante produzione teatrale che con
l’uso di un linguaggio scarno ed essenziale
contribuì a eliminare il residuo sentimentalismo del
teatro borghese del tempo: Cavalleria rusticana
(1884); In portineria (1885); La Lupa (1896); La
caccia al lupo (1902); La caccia alla volpe (1902);
Dal tuo al mio (1903); Rose caduche (composta tra il
1873 e il 1875; pubbl. post., 1928).
Anche nel teatro, l'ispirazione più alta si attua
nel vigoroso racconto di una dolente umanità,
specialmente nell'opera Dal tuo al mio, che
ha il suo centro poetico unitario nell'amara
rappresentazione del crollo di tutto un passato
dinanzi alle leggi brutali della vita.
Per Verga il destino esiste, ma è scritto e
determinato dagli uomini, dai loro privilegi di
casta, da una società organizzata appositamente per
annichilire il lavoro dei poveri ed annullare le
speranze di riscatto degli intraprendenti. Un
destino contro cui è possibile lottare, perché non
scolpito sulla pietra, ma che alla fine ti sconfigge
sempre, inesorabilmente, sia per l'assoluta mancanza
di giustizia in coloro (le istituzioni) che
potrebbero fare, ma che non fanno, sia per la
mancanza di umanità e solidarietà che la proprietà
della “roba” instaura negli uomini.
Verga è un "caso" letterario a parte nel vasto mondo
letterario meridionale. Così diverso per esempio da
Matilde Serao, che pur si è battuta per i
lazzari di Napoli. Il Verga dei Malavoglia è
molto diverso dal Cronin che nella Cittadella
descrisse l'orrenda situazione dei minatori inglesi,
o dal francese Hugo ed i suoi Miserabili.
Forse perché la realtà siciliana dell'epoca gli ha
impedito di sognare eroi ed eroine, persone per le
quali il riscatto è possibile. Questa sua diversità
si svela tutta nel suo stile letterario, nudo,
crudo, vero. Uno stile che vuole essere solo
portatore di fatti, cioè di verità. Non c’è spazio
quindi nel mondo dei fatti reali neanche per la
Provvidenza, che infatti appartiene solo al sogno
del trascendente. La rabbia che esprime Verga non
esplode come sentimento romantico, passeggero e
violento, ma si erge a fredda costatazione e diventa
così pura denunzia. In tal modo Verga ha fatto per
la Sicilia molto di più con un solo libro molto di
più di mille generazioni di baroni messe assieme.
La forza di Verga fece sì che ad un certo punto,
mescolando a sproposito come spesso si usa fare
l’arte con la politica, qualche brillante critico
cominciò a chiedersi se Verga fosse di destra o di
sinistra, se la sua opera nascondesse o no un
messaggio politico-sociale. C’è chi lo ha descritto
come un latifondista, reazionario che approvava le
fucilazioni di Bixio contro i poveracci di Bronte,
dimostrando, ovviamente di non aver capito nulla del
genio di Verga. La critica marxista, da parte sua,
ha rimproverato al Verga il fatalismo e la
rassegnazione, pretendendo un Verga rivoluzionario
che postulasse la lotta di classe.
Il Verga, invece, dopo essere stato in gioventù un
fautore dell’unità italiana, come tutti gli
intellettuali dell’epoca, fu sempre apolitico e
“spendibile”, pertanto, in tutte le stagioni:
durante il fascismo Bottai lo definì fascista; nel
secondo dopoguerra Trombadori lo definì socialista,
negli anni ‘50 qualcuno lo definì comunista e
infine, negli anni 80, con la “seconda
restaurazione”, si è ricominciato a parlare di un
Verga conservatore e reazionario.
In realtà per il Verga, secondo i canoni del verismo
esposti nella premessa della novella L’amante di
Gramigna, l’opera d’arte doveva sembrare essersi
fatta da sé e la mano dell’artista restare
assolutamente invisibile. Era il metodo del francese
Emile Zola. Ma il Verga superò questa fase di
“fotografia” del sociale e della natura e nelle sue
opere la mano dell’autore c’è e condivide le pene
dei suoi personaggi. Lui ritenne il fato (quello
sopra descritto) responsabile della vita degli
uomini e per questo egli non propugnò la lotta di
classe, apparentemente facendo propria l’atavica
rassegnazione del popolo siciliano. Ma, come lui
stesso scrisse nella prefazione a Dal tuo al mio,
col descrivere la vita com’è egli ha fatto opera
sociale. Solo confrontandosi fino in fondo con la
nuda verità l’uomo potrà dirimere (e redimere?) se
stesso.
Tornato a Catania alla fine del secolo, si dedicò
alla cura dei suoi interessi economici e dato che,
pur avendo avuto diverse donne (Giselda Foianesi,
moglie di Mario Rapisardi, Dina di Sordevolo,
Paolina Greppi, ecc.) non aveva voluto sposarsi,
trascorse in solitudine i suoi ultimi anni nella sua
casa di Catania, con l’eccezione del suo 80°
compleanno nel 1920, quando fu festeggiato
pubblicamente al teatro “Valle” di Roma e al
“Bellini” di Catania, con interventi di Luigi
Pirandello, Vittorio Emanuele Orlando e
Benedetto Croce.
In questa occasione, su proposta del presidente del
Consiglio dei Ministri Giolitti, Verga fu dal re
Vittorio Emanuele III nominato senatore, titolo
ch’egli accolse con distacco.
Un aspetto poco noto di Giovanni Verga è la sua
passione per la fotografia contagiatagli dagli amici
Capuana e De Roberto. Amante della fotografia
proprio come Émile Zola in Francia o Jack London in
Inghilterra, Verga ribadisce anche nella scelta
delle immagini e nella crudezza dell’inquadratura,
lo stretto rapporto che lega il suo genere
letterario e la fotografia. Nonostante la scoperta e
la pubblicazione delle lastre su cui lo scrittore
siciliano aveva impresso le sue immagini risalga
all’ormai lontano 1970, la conoscenza della sua
produzione fotografica è ancora poco nota presso il
grande pubblico.
Nelle sue fotografie Verga interpreta e fissa sulla
lastra il paesaggio umano: moltissimi sono i
ritratti di parenti e amici ma altrettanto numerose
le immagini di una umanità che popola la provincia
siciliana non aristocratica: fattori, contadini,
massari, camerieri, uomini e donne, ripresi nella
loro semplicità o complessità, nel loro ambiente
quotidiano. Le posture, gli abiti, lo stile di
ripresa comunicano fortemente lo stile di vita,
l’estetica e il sociale di quel tempo.
Verga realizza anche scatti di paesaggi non solo
siciliani ma anche dei laghi lombardi o di Bormio e
dei suoi dintorni, che conobbe durante il suo lungo
soggiorno milanese.
Giovanni Verga fotografa l’uomo e i paesaggi con lo
stesso stile dei suoi romanzi. Verismo scritto e
verismo per immagini. Senza pietà o indulgenza: Il
vero.
Morì a casa sua per un colpo apoplettico il 27
gennaio 1922 e fu sepolto nel viale degli uomini
illustri del cimitero di Catania. Questa sepoltura
ha dato luogo a lunghi dibattiti sulla stampa:
perché negare al Verga la sepoltura nella cattedrale
di Catania, dove si trova la salma di
Vincenzo Bellini. Sembra che l’ostilità delle
autorità ecclesiastiche sia stata dovuta a certi
racconti del Verga come Papa Sisto e Il
reverendo, in cui lo scrittore presenta dei
preti avidi di potere e di ricchezze, al suo
scetticismo religioso, infatti non andava a messa e
aveva relazioni amorose irregolari e, inoltre non di
rado, sembra irridere alla Provvidenza, confinandola
nel nome d’una barca che, regolarmente, affonda.
La grandezza del Verga non fu compresa durante la
sua vita e lo scrittore si lamentò più volte del
fatto che il suo verismo non venissero compresi. Al
pubblico borghese, infatti, ripugnavano non poco
quegli ambienti e modi rustici, quelle usanze
“selvagge”, quel parlare e scrivere poco ortodosso.
La lingua, poi, era ostacolo ad una valutazione
positiva. Alessio Di Giovanni, siciliano, gli
consigliava di riscrivere I Malavoglia in
dialetto siciliano e Giorgio Petrocchi, toscano, di
farsi correggere le bozze da un toscano. Non avevano
capito che la lingua del Verga non era il prodotto
d’un semianalfabeta sgrammaticato, ma quello d’un
artista capace di coniare un linguaggio diverso,
nuovo che non è né dialetto siciliano né italiano
ortodosso, con cui intendeva, riuscendoci, esprimere
il primitivismo dei suoi personaggi, la limitatezza
del loro orizzonte, la loro sintassi istintiva. La
lingua del Verga, infatti, presenta il lessico
italiano e la struttura sintattica siciliana. Verga
infatti usò rarissime parole dialettali siciliane e
alcune sue opere come La lupa furono poi
tradotte da altri in siciliano. In tempi moderni ha
avuto più fortuna Andrea Camilleri che ha imposto
con successo il suo linguaggio.
Ma poi i tempi cambiarono e critici come
Benedetto Croce e Luigi Russo e poi molti altri
ne sottolinearono il genio e l’assoluta originalità
che ne fanno una delle figure di spicco nel panorama
letterario di sempre.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Maggio 2013
Bibliografia
-
Verga, Giovanni, Enciclopedia dell'Italiano
(2011) di Gabriella Alfieri
-
Verga Fotografo, Giovanni Garra Agosta con
scritti di Vincenzo Consolo e P. Mario Sipala (http://www.maimone.it/schedadinam1.asp?CodLib=19907)
-
Sarah Zappulla Muscarà, Invito alla lettura di
Giovanni Verga, Mursia, Milano, 1984