Francesco
Scandone,
nella sua monumentale opera “Cronache del Giacobinismo Irpino”, e in
riferimento a Montecalvo, ascrive al 1791 la prima notizia ufficiale
dell’esistenza del Giacobinismo a Montecalvo, tra i primissimi e
rari esempi nel Regno ed a pochi mesi dalla Rivoluzione Francese del
1789:
1791 – D.
Gaetano Rendesi, D. Felice Caccese e Vincenzo Bocchicchio,
costituiscono un Club Giacobino.
A metà
del '700, nel Reame di Napoli, influenzato dalla cultura inglese,
sorretta e incrementata dal
ministro
Acton, arriva la Massoneria, un modo concreto e
moderno di concepire la fede cristiana, fondata sulla fede vissuta
nella fratellanza e nelle opere di carità. Divenne di moda farne
parte, per quella ritualità e gerarchia quasi ecclesiale, che
consentiva ai laici di perseguire gli ideali cristiani, scevri dal
controllo della Chiesa Ufficiale e senza dover far voti di
ubbidienza. (cfr. Congregazioni)
L’adesione di numerosi nobili e ricchi borghesi (Principe Carafa,
Il Marchese di Sangro ecc.) e di molti preti, spinse
il Papa a
scomunicare la “Setta”, avendo compreso il
pericoloso attivismo di un movimento che poteva anziché sorreggere,
porsi in concorrenza con gli organismi ufficiali della Chiesa di
Roma.
Tra i
primi Sovrani ad assecondare l’anatema del Papa, fu il re di Napoli
(Carlo di Borbone),
che provvide a perseguitare e di poi a chiudere le Associazioni
dei “Liberi Muratori”. La persecuzione, si sa, genera i martiri, e
quello che doveva essere uno sfogo eccentrico ed anche ridicolo, di
qualche nobile annoiato e di qualche borghese arricchito, si rivestì
di connotati rivoluzionari.
La
Massoneria
si trasformò (come sempre accade nel Meridione) in Accademia, in
Società Patriottica, in Carboneria (“cambiar tutto per non cambiar
niente” - cfr.Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), e quel che
doveva essere un club di snob napoletani, scimmiottanti la nobiltà
inglese, assunse le caratteristiche di un Club di pericolosi
attentatori all’ordine costituito.
Il
1793, regnante
Ferdinando di Borbone, rappresenta bene questo salto di qualità:
la neonata Società Patriottica, trova in Carlo Laubergh,
scolopio come San Pompilio Maria Pirrotti, il propugnatore
della trasformazione della società, innestata sul tronco della
Massoneria, in Club Giacobino. I club, nati a Napoli,
proliferarono, ed è proprio a Montecalvo che se ne forma uno dei
primi e più importanti. Un certo Giuseppe Boccassi, in data
15 Giugno 1793, denunzia l’esistenza di una setta in Montecalvo,
dedita alla sedizione e al dispotismo. Il 9 Novembre 1793, la Giunta
di Stato dispone l’incarcerazione degli affiliati, tra cui:
Gaetano
Rendesi,
ufficiale di dogana, studente in Giurisprudenza;
Felice
Caccese,
guardiano di vigne;
Vincenzo
Bocchicchio,
commesso di dogana, agli ordini del Rendesi.
Dalla
denuncia, che fa nascere la setta nel 1791, si conosce che i tre
arrestati ricoprivano la carica rispettiva di Presidente, deputato e
segretario e che, sentendosi nuovi Apostoli di un nuovo Vangelo,
avevano preso i nomi di Apostolo Pietro, Apostolo Paolo e
Barnaba. Vennero ascritti come volteriani di religione e
roussoniani di politica.
Dagli
incartamenti, che lo Scandone, cita e riporta, vengono fuori fatti e
situazioni, evidentemente surreali, che però segneranno la vita di
queste persone, anche perché la congiura del marzo 1794, costringerà
il potere centrale a esercitare il pugno di ferro nei confronti di
un movimento che stava crescendo e di cui non si conoscevano i
contorni organizzativi e logistici. Ma, come spesso accade nella
storia italica, si sa che solo il Bocchicchio fu processato,
e condannato nel 1798, degli altri 2 non si ha notizia, forse perché
deceduti in carcere o costretti all’esilio.
Il dato
straordinario che si ricava dall’avvenimento è che l’attività del
Club di Montecalvo risultò autonomo dalla congiura del 1794 e
che scaturisse da fattori politici “…quella popolazione (di
Montecalvo) scotesse ogni subordinazione, e si
lamentasse delle contribuzioni ai pubblici pesi”.
Il
malcontento per il peso fiscale, venne considerato pericoloso
strumento di azione politica, fatto che desterà non poche
preoccupazioni alle autorità. A Montecalvo, il movimento
rivoluzionario era fondato non solo su questioni filosofiche e di
governo, ma su situazioni concrete e su disagi veri della
popolazione, che cominciò, seppur segretamente, a simpatizzare con i
Giacobini.
Le
autorità, al fine di evitare che alcune situazioni di favore
potessero innescare la miccia della rivolta popolare, attuarono
attenti controlli sulla fiscalità e sulla correttezza di tenuta del
Catasto onciario. L’arresto di numerosi borghesi e di alcuni nobili
di rango, suscitò un grosso scalpore nel Regno: i popolani, allorché
compresero che i nobili ed i ricchi attentavano alla monarchia, in
nome della libertà e dell’eguaglianza, si trovarono frustrati e
sbandati, non sapendo più a chi credere, convinti che spettasse a
loro invocare condizioni di vita migliore e non a chi già ne
usufruiva. Per questi motivi la Rivoluzione borghesizzata, non
affascinò il popolo, che nelle novità vedeva un sempre maggior
carico di fatiche e tribolazioni. Il popolo restò realista, legato a
quel Re che sebbene facesse ben poco per la loro condizione
miserrima, restava unico baluardo ed unico riferimento politico, ad
una classe borghese arrembante e spavalda e ad una nobiltà di paese
decadente e nostalgica dei privilegi feudali.
Altri
montecalvesi furono arrestati e processati, sebbene residenti e/o
dimoranti in altri Comuni Irpini:
Michele e
Salvatore Bozzuti
di Casalbore; Sebastiano Di Rubbo.
Ma è a
Napoli [v. monografie
"1798, La fine
del sogno illuminista" e
"1799, la
Repubblica Napoletana e il primo soggiorno a Palermo di Ferdinando
III", N.d.R.] che accadono i fatti salienti delle vicende
Giacobine, nella capitale del Regno tra i più importanti e ricchi
d’Europa, dove gli Irpini e i Montecalvesi, ancora una volta,
saranno in prima linea, tra i capi e gli organizzatori. Così scrive
lo Scandone citando il Sansone:
“Si sa
che, anche prima dell’entrata dei Francesi in Napoli, gli studenti
di Medicina, il
15
Gennaio 1799, armatisi, avevano fatte delle ronde per la città,
uscendo dall’Ospedale degli Incurabili.Tra essi, come studente, era
il sacerdote Domenico Stiscia, di Montecalvo.Il giorno 22, formata
una compagnia di più di 30 persone andarono nel Largo delle Pigne,
per far fuoco contro il popolo…….;essi medicavano i feriti francesi,
e davano morte ai feriti del popolo.Poi contribuirono a far cadere
nelle mani dei nemici il Castel S.Elmo; alla fine, innalzato nel
cortile dell’ospedale l’Albero della Libertà, vi danzarono intorno”.
Presente
e partecipe fu il Direttore dell’Ospedale D. Ferdinando Pennetti,
mentre tra i capi degli studenti, furono annoverati il Clerico
Michele Lambarelli di Casalbore e Luigi Greco di
Avellino.
I fatti
furono poi riportati dalla storiografia ufficiale borbonica, tesa a
dimostrare, ovviamente, la ignominia della rivoluzione e gli aspetti
negativi della stessa. Ma è indubbio, come recita lo Scandone,
che la partecipazione di massa della intellighenzia e della nobiltà
irpina porterà “In conclusione, si può dire che la nobiltà
feudale, pur sapendo a quali peripezie sarebbero andati incontro
i loro privilegi, abbracciò, quasi in massa, il Partito Repubblicano”.
Montecalvo entra, seppur indirettamente, nel governo provvisorio,
grazie alla fede dei suoi giovani e alla presenza dei suoi nobili (Raffaele
Coscia, Duca di Paduli e signore di Montecalvo e di
Grottaminarda, e di Tommaso Susanna, ministro della Guerra).
A capo della Censura nazionale viene nominato Marcello Luparelli(a)
di Ariano ma originario di Montecalvo.
La fine
della Repubblica Partenopea è legata al mancato coinvolgimento del
popolo ed è ancora lo Scandone, che con sagacia ne delinea i
termini:
“Il
popolo, nella sua gran maggioranza, odiava i Francesi per istinto,
come stranieri ed invasori, più che come nemici del re e della
religione.E poi, il favore che le loro teorie godevano presso i
nobili, presso i signori feudali, e i galantuomini in generale, era
da solo sufficiente a suscitare diffidenza e sospetto sulla specie
di-Libertà ed Uguaglianza, ch’essi vantavansi di apportare”.
Il 14
giugno 1799
finisce la Repubblica Partenopea: il Cardinale Fabrizio
Ruffo, a capo di un esercito di popolani, ma anche di briganti e
malfattori, entra trionfante in Napoli e restaura la Monarchia
Borbonica (restaurazione di breve durata, in quanto sarà di nuovo
travolta da Napoleone nel 1806. Alla fine del periodo napoleonico,
nel 1815, i Borbone verranno di nuovo reinsediati sul trono.
Attueranno quindi una politica di diffidente autarchia, restando
incapaci di promuovere la convivenza civile, divenendo essi stessi
artefici della propria fine dinastica e della dissoluzione del
Regno).
Ma che
cosa è accaduto a Montecalvo in questi pochi mesi di Repubblica?
I
numerosi fatti sono stati ben narrati e raccolti nel bellissimo
libro di Vittorio Caruso “La repubblica partenopea del
1799...” che invito a leggere, per la capacità di sintesi
storiografica e per la documentale ricerca storica, condizioni
imprescindibili di una saggistica moderna. Non è mia intenzione
“saccheggiare” il libro, citando i fatti ivi narrati, frutto di
paziente ricerca, ma voglio stuzzicare il lettore e l’appassionato
di storia, riferendo che nel suddetto libro vengono riportati gran
parte degli atti giudiziari e degli avvenimenti della Montecalvo
Repubblicana, con dovizia di nomi e famiglie ancor oggi presenti e
prosperanti.
Il
ritorno del Re e della Monarchia nel 1799 non fu indolore, anche
perché i traditori erano stati proprio coloro (I nobili) che
avrebbero dovuto avere maggior interesse a conservare lo status quo.
La vendetta perciò si dimostrò più cruenta che mai, anche perché i
popolani chiedevano vendetta, vogliosi di ripagare i soprusi di una
classe di comando feudalizzata e bigotta.
Avvenne
nel reame di Napoli, l’esatto contrario di quel che avvenne nella
Rivoluzione Francese: qui da noi, il Popolo, per il tramite del re,
perseguitò i ricchi borghesi e i nobili traditori. Molte furono le
vite stroncate, spesso le migliori ed i migliori ingegni. Si sa che
ogni grande ideale comporta grandi sacrifici e fu per questo che
subito dopo la capitolazione repubblicana, centinaia di
intellettuali, di veri nobili, di veri preti e di giovani liberali,
vennero stroncati nell’esistenza ma non negli ideali, che anzi si
rafforzarono e si cementarono nel tessuto della società civile.
I
Montecalvesi
non subirono particolari condanne, il paese seppe ritrovare la
propria armonia, e con l’aiuto dei tanti realisti e sanfedisti e la
disponibilità dei notai del tempo, si ebbero attestate testimonianze
di leali sudditi, che mitigarono le responsabilità dei
rivoluzionari. Fu smorzata sul nascere qualsiasi voglia di vendetta,
che si consumò con alcune denunzie fatte, però, fuori comune, ma
prontamente smentite da una saggia interazione tra la ricca
Borghesia e la potente classe clericale, che contava papali
collegamenti e intrecci familiari degni del miglior ducato
rinascimentale. Non poteva perdere la vita chi si era limitato a
piantare qualche albero della libertà nel Febbraio del 1799 (alberi
prontamente estirpati col cambio di governo), né tantomeno chi si
era macchiato di crimini ideologici, senza però far del male a
nessuno, né attentare alla vita di alcuno. Potevano mai essere
condannati i repubblicani Acquanetta e Lorenzi?
Un solo
Montecalvese rischiò veramente la vita, quel giovane studente di
medicina, nonché prete - Domenico Stiscia - che con i
colleghi Pucci e Grossi, si era reso protagonista
dell’avvenimento-scintilla della Repubblica Napoletana: la presa di
Castel Sant’Elmo, l’impianto del primo albero della libertà e la
distruzione dei ritratti dei sovrani, in nome della libertà ed
uguaglianza tra gli uomini. Pucci e Grossi furono condannati
a morte, il prete Domenico Stiscia, Egidio Damiani e
altri, condannati all’esilio perpetuo, sotto pena di morte in caso
di ritorno. Particolarità del provvedimento reale del
12
Febbraio 1800,
è la descrizione precisa e particolareggiata di questo montecalvese
mio antenato, di anni 38, figlio di Alessandro… che riuscì a salvar
la pelle perché prete e forse per intercessione del Santo Padre su
quel Cardinal Ruffo, arbitro dei destini del regno. Questo giovane
prete troverà rifugio in Francia, ritornando sotto mentite spoglie
solo nel 1805, con
Napoleone imperatore e con un Regno (quello di Napoli) che
stava per cambiare dinastia.
Il tempo
si sa, è la miglior medicina, e gli indulti reali, sempre più
generali e sempre più ampi, agevolarono il ritorno del nostro
concittadino alla vita frenetica e irrequieta a cui era abituato.
Riprese gli studi di grammatica e drammaturgia, riaprendo la scuola
pubblica, senza tralasciare lo studio dell’organo, di cui ha
lasciato alcune composizioni. Continuò, soprattutto a propugnare le
sue idee, divenne naturalmente carbonaro e Maestro Venerabile della
Loggia Massonica Montecalvese, che lontana dall’anticlericalismo, si
connotò di uno spirito diverso, tant’è che si ascrive a questo
periodo il portale del Palazzo Stiscia, ricco di fregi massonici, in
aperta sfida al potere costituito e forse come segnale di una
visione nuova del mondo, in un sano equilibrio collaborativo tra lo
Stato e la Chiesa.(cfr. Vincenzo Gioberti). Ritroviamo Don
Domenico, protagonista nei moti del ’21, con quel Morelli
e con con quel Generale Pepe, legati alla storia di questo
nostro paesello, per poi rivederlo presente e operante nel ’49,
artefice nella Repubblica Romana, per i cui meriti (?), fu nominato
segretario di camera di S.S. Pio IX.
Come
accennato, di lì a pochi anni Napoleone, a capo di un
fortissimo esercito, sbaragliò le monarchie assolute europee,
portando i semi della libertà della rivoluzione francese. Il Re
Borbone cercò di frenare il popolo, per frenare Napoleone,
pensando così di salvarsi da una nuova invasione. Ma allorché il
Corso divenne Imperatore, si capì che Napoli sarebbe ridiventata
francese. Nel 1806 infatti, l’esercito francese investì nuovamente
il Regno, Ferdinando si rifugiò per la seconda volta in Sicilia [v.
monografia
"1806, l'esilio siciliano di Ferdinando III", N.d.R.]. Prima
Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat vennero incoronati Re di
Napoli.
Con
Murat, i
repubblicani veraci, pur turandosi il naso, non disdegnarono la
collaborazione.
La recente tendenza storiografica, a livello
comprensoriale e provinciale, sembra più intenzionata ad
alimentare un turismo predatorio e sensazionalistico,
che a conservare e consultare le fonti, rischiando così
di privare i nostri paesi di una serie innumerevoli di
testimonianze, che invece andrebbero recuperate e
trasmesse ai giovani studenti, consolidando ed
alimentando la diga della nostra millenaria cultura,
unica fonte all’arrembante aridità dell’uomo moderno. |
Montecalvo Irpino, Ottobre 2005
Dott. Antonio Stiscia
Pubblicazione Internet de Il Portale del Sud,
settembre
2009
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