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Pio IX |
Durante l’Ultima cena, Gesù diede una grande lezione di umiltà e di
carità lavando i piedi ai dodici Apostoli, cominciando da Simon
Pietro, per dare un ulteriore segno del primato di quest’ultimo fra
gli altri prescelti. La liturgia cristiana riprese questa commovente
cerimonia, celebrandola in occasione di ogni Giovedì santo, sulla
base dell’episodio evangelico.
Ripetendo, infatti, il gesto umile del Salvatore, il pontefice, durante
la celebrazione della Missa in Coena Domini, lava e bacia i piedi
a dodici persone, quanti erano appunto gli Apostoli, ai quali, al
termine della cerimonia, veniva donata, all’inizio, una moneta d’oro,
sostituita, a partire dalla fine del XVI secolo, da due esemplari, uno
d’oro ed uno d’argento, di una particolare medaglia, che prese il nome,
appunto, di “medaglia della Lavanda”. Essa recava, al dritto, il busto
del papa con l’indicazione dell’anno pontificale e, sul rovescio, la
scena di Gesù inginocchiato che lava i piedi a san Pietro seduto su uno
sgabello, alla presenza o meno di altri Apostoli, a seconda della
fantasia dell’artista-medaglista, che era normalmente l’incisore
camerale, colui, cioè, che aveva come compito quello di incidere i coni
di tutte le medaglie ufficiali dei pontefici.
Nel
corso del XIX secolo, alle dodici persone se ne aggiunse una
tredicesima, sulla scorta di una pia leggenda secondo la quale a papa
Gregorio Magno, impegnato nella cerimonia del Giovedì santo, sarebbe
apparso un angelo sotto le spoglie di un pellegrino che si sarebbe unito
all’ultimo momento agli altri cui il papa si apprestava a lavare i
piedi. Pertanto, a partire dal primo ventennio dell’800, si cominciarono
a coniare le medaglie in numero fisso di esemplari: 13 d’oro ed
altrettante d’argento, destinate a ciascuno di coloro cui il papa lavava
i piedi, più altre quattro, due d’oro e due d’argento, destinate al papa
stesso e al tesoriere della Camera apostolica. Altri esemplari, in
genere in bronzo, ma anche in argento e raramente in oro, nei giorni
successivi potevano essere regalati ad importanti personalità presenti
alla cerimonia. Nulla impediva, tuttavia, che, trascorso un certo lasso
di tempo dal Giovedì santo, un qualsiasi privato potesse acquistare
medaglie della Lavanda, che erano in libera vendita presso il Gabinetto
numismatico della zecca di Roma.
Pio IX,
eletto il 1° giugno 1846, all’inizio del suo pontificato aveva suscitato
speranze fra i liberali ed i patrioti italiani; speranze, che ben presto
si erano spente nel corso del 1848, quando il papa aveva ritirato il
proprio appoggio, pur concesso in precedenza, agli indipendentisti in
guerra contro l’Austria. Anzi, spinto dalla piazza che tumultuava in
Roma a favore dell’indipendenza, il papa fu costretto, il 24 novembre
1848, ad abbandonare la Capitale per fuggire con una carrozza,
travestito da semplice prete, a Gaeta, piazzaforte borbonica.
A
Roma, a febbraio del 1849 fu proclamata la Repubblica, che sarebbe
caduta nel luglio successivo, sotto i colpi delle truppe francesi del
generale Oudinot.
Pur
nell’esilio, Pio IX tuttavia non volle rinunciare alle cerimonie
religiose previste di volta in volta dal calendario liturgico, come
quella della Lavanda che celebrò il 5 aprile 1849, anno III di
pontificato, nella fortezza di Gaeta. Autore della relativa medaglia fu,
per quell’occasione, l’artista napoletano Luigi Arnaud. Il 4 settembre,
sconfitti ormai i rivoluzionari romani, Pio IX si trasferì a Portici e
poi a Napoli, con l’intento di rimanere ospite dei Borboni finché la
calma non fosse tornata negli Stati della Chiesa.
Intanto a Roma la vita amministrativa dello Stato aveva ripreso il
normale corso, pur in assenza del papa. Ed il direttore della zecca,
Giuseppe Mazio, fu assai colpito dalla richiesta del cardinale
Antonelli, segretario di Stato, di inviare nel Regno delle Due Sicilie
“il Signor Incisore Camerale…affinché tragga il ritratto del S[ommo]
Pontefice […] per la medaglia destinata agli Apostoli […] nel Giovedì
Santo del corrente anno […] che sarà tratta nella Reggia di Caserta”.
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Si
trattava, naturalmente, della medaglia della Lavanda del 1850, anno
IV di pontificato; il bello è che d’incisori camerali in carica in
quell’anno ce n’erano due: Giuseppe Cerbara e Giuseppe Girometti!
Infatti, nel lontano 1822, i due incisori avevano vinto ex aequo
il concorso per ricoprire tale carica e la commissione aveva deciso
salomonicamente che avrebbero ricoperto tale ruolo ad anni alterni.
L’estrazione a sorte aveva quindi stabilito che il primo ad entrare
in carica, dal 31 marzo del 1823 al 30 marzo dell’anno successivo,
sarebbe stato il Cerbara. Così tutte le medaglie, dal penultimo anno
di regno di Pio VII, erano state incise alternativamente, un anno
dal Cerbara ed un anno dal Girometti. Purtroppo, della medaglia
annuale del 29 giugno 1849, anno IV di pontificato, la cui fattura
sarebbe spettata al Girometti, non ci fu emissione; mentre quella
della Lavanda di quello stesso 1849, ma ancora anno III di
pontificato, che in base all’alternanza, avrebbe dovuto essere opera
del Cerbara, venne affidata, come detto, all’Arnaud. Alla data del
Giovedì santo del 1850, il 28 marzo, in carica sarebbe risultato,
ancora per appena due giorni, il Girometti.
Sfruttando questo cavillo burocratico, il Mazio, dunque, affidò a
quest’ultimo l’incarico di recarsi a Portici per riprendere dal vivo il
busto del Pontefice per l’esecuzione della medaglia della Lavanda. Ed il
Cerbara naturalmente se ne adontò.
Girometti partì da Roma il 16 marzo e, dopo due giorni, arrivò a
Portici: il Pio IX posò per lui soltanto un paio d’ore. Ci vollero altri
tre giorni, prima che l’incisore rientrasse in città. I torchi della
zecca si arroventarono per coniare in una sola notte gli esemplari della
medaglia della Lavanda richiesti dal maggiordomo pontificio. Il
Girometti aveva sì inciso ex novo il dritto con il busto del
papa; ma per il rovescio si era limitato a riciclare, con poche
varianti, il rovescio inciso per la cerimonia della Lavanda dell’anno I
di pontificato dello stesso Pio IX, cerimonia svoltasi il primo aprile
1847. L’unica significativa novità fu la leggenda alludente al fatto
che, in quell’occasione, la cerimonia della Lavanda si sarebbe svolta
nella cappella all’interno della reggia di Caserta: CASERTAE IN COENA
DOMINI A MDCCCL.
Il 26
marzo, una staffetta veloce partì a spron battuto dal Quirinale: recava
con sé 57 esemplari in oro e 75 in argento della suddetta medaglia.
Altri 102 in bronzo sarebbero partiti al tramonto. L’alto numero di
pezzi coniati derivava dal fatto che Pio IX, oltre ai tredici destinati
a coloro cui sarebbero stati lavati i piedi ed a quelli riservati a sé
ed al tesoriere, ne aveva richiesti altri da donare ai reali di Napoli
ed ai membri della loro famiglia, agli ambasciatori del corpo
diplomatico che l’avevano seguito, nonché ad altri personaggi.
Quando
il Mazio lesse quanto doveva pagare all’incisore per la fattura dei coni
della medaglia, gli venne un colpo. Infatti, il Girometti aveva stilato
un lungo elenco di spese sostenute. Oltre ai 200 scudi che gli
spettavano per i coni, infatti, aveva pure indicato nella lista tutte le
spese sostenute nella trasferta napoletana. Perfino i 36 baiocchi per il
vino di Velletri che aveva dovuto offrire al vetturino per sollecitarne
l’andatura! E poi, i pranzi e le cene, le nottate nella locanda,
finanche i “6 baiocchi per l’acquisto di un bulino da modellare,
essendosi reso inutilizzabile quello che il richiedente avea portato
seco dalla Dominante”.
Insomma, la cifra richiesta dall’incisore ammontava ad oltre 800 scudi:
troppo, per le magre finanze della zecca che aveva dovuto già anticipare
il denaro per l’acquisto dell’oro e dell’argento necessari per le
medaglie.
Dopo
un lungo contenzioso fra il Mazio ed il Girometti, i due raggiunsero
finalmente un accordo: l’uno depennò gran parte delle spese, ritenendole
“non congrue”; l’altro ottenne di poter incidere i coni della medaglia
annuale del 29 giugno 1850, che, a rigor di logica e di contratto,
sarebbe spettata allo sfortunato Giuseppe Cerbara!