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Cucina casareccia in lingua napoletana 1839

di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino

Edizioni il Polifilo

Questo libro di ricette scritto in lingua napoletana, qui accompagnato da una traduzione italiana, fu stampato per la prima volta nel 1839 in appendice alla Cucina teorico-pratica dello stesso autore, con il proposito di raccogliere le ricette tradizionali della cucina napoletana, inserendo nel discorso anche aneddoti che favoriscono un clima adatto per «poterese addivertì dint’a la cucina colle mmane llore». E grazie anche a questo libretto di Ippolito Cavalcanti la cucina napoletana non è una scienza perduta. Come dice La Capria, che chiama in causa anche Ceronetti e Norman Douglas, «ci sono ancora delle isole culinarie dove questa cucina viene risuscitata...Questo intanto avviene in molte case: a casa si cucina, e la cucina a volte - anche quella più povera - dà delle sorprese notevoli. E poi, a parte quei tre o quattro ristoranti napoletani, ci sono alcuni luoghi...dove si può andare alla recherche della cucina perduta...».

Presentazione di Raffaele La Capria, testo italiano a cura di Carmen Perna (pagg. 66, € 20,00)


Uno stralcio della presentazione di Raffaele La Capria, dal "Sole 24 ore", giugno 2005.

"Caro Ceronetti, a Napoli non si mangia male

È vero, come dice Ceronetti, che a Napoli si mangia male? Non è un argomento del tutto secondario se, come alcuni sostengono, dalla cucina si può misurare la civiltà di un popolo. Sarebbe dunque così decaduta la nostra cucina insieme alla nostra civiltà?

Io farei una prima osservazione a Ceronetti: lui che osserva, a quanto pare scrupolosamente, la dieta macrobiotica, come fa a sapere che a Napoli si mangia male? Glielo hanno detto o l'ha sperimentato di persona?

Ma subito aggiungo: si, è vero, a Napoli si mangia male. Non ci sono, tranne due o tre eccezioni, dei ristoranti che meritano questo nome. Quelli che ci sono, sono per gente di bocca buona... e non parliamo del servizio, delle tavole apparecchiate, delle tovaglie eccetera.

Però, però questo non significa che la cucina napoletana sia una scienza perduta, confinata solo nel libro di Ippolito Cavalcanti. Ci sono ancora delle isole culinarie dove questa cucina viene risuscitata... Questo intanto avviene in molte case: a casa si cucina, e la cucina a volte - anche quella più povera - da delle sorprese notevoli. E poi, a parte quei tre o quattro ristoranti napoletani, ci sono alcuni luoghi che i napoletani conoscono, dove si può andare alla ricerca della cucina perduta: per esempio a Nerano, a Ricomone, anche a Capri, a Positano, a Torre del Greco. Insomma una mappa della buona cucina sopravvissuta si potrebbe ancora fare, e come!

Ma che cosa è dovuto questo degrado della cucina che si registra non soltanto a Napoli, ma dovunque? È dovuto innanzitutto alla qualità dell'avventore, che è scaduta col numero. Ci sono troppi clienti di bocca buona in giro. Troppi turisti che si contentano di qualsiasi cosa purché costi poco. Ed è dovuta alla fretta: la cucina richiede tempo, e oggi il tempo non c'è. Tutti hanno fretta.

Comunque, tornando a Ceronetti, se Atene piange Sparta non ride: si mangia male a Napoli, ma, lo scrive lui, si mangia altrettanto male altrove.

A Venezia dove «il trafficante di piatto pieno approfitta con crudeltà dell'onnivorismo acritico del turista».

Nella provincia piemontese: «e qui riso con le rane, piatto bestiale e triste, di una rana spellata viva e scaraventata in una pentola bollente, il balletto non è per sensibili. E al di là delle colline la bagna cauda, e più in su la fonduta, parola quasi innominabile».

A Roma «nelle rosticcerie il nordafricano triste, i gruppi di stupratori e le loro vittime, il militare che si sa inutile squinternano tra le labbra che ignorano il sorriso di una vera parola il pollo arroventato dagl'infrarossi».

Ma per chi, come Coronetti, vede dietro ogni tavola di ristorante: «pezzi di cadaveri congelati» che «viaggiano da un continente all'altro in quantità enormi»; che «forniscono fumanti arrosti nei paioli anneriti e nelle candide porcellane»; e si domanda «è vita quella che ti è fornita da un po' di putredine violacea riscaldata, tirata fuori da spelonche di ghiaccio, in vetro e acciaio, regolate da calcolatori?», e pensa «alle spaventose torture inflitte al bovino, all'equino, al pollo, al maiale, al coniglio».

Per uno come Ceronetti che sente tutto questo, non c'è ristorante o cucina possibili, tranne appunto la macrobiotica."

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