Gherardo degli Angeli
nacque ad Eboli il 16 dicembre del 1705 da una famiglia originaria
di Capaccio di nome de Angelis marchesi di Trentinara. I suoi
genitori Giovanni ed Anna de Carli si accorsero di
avere un figlio con una memoria straordinaria. A 7 anni traduceva
con grandissima facilità i classici latini. A 10 anni lo mandarono a
studiare a Napoli presso i Padri Gesuiti dove rimase fino all’età di
14 anni. Fin da giovane ebbe la fortuna di avvicinare e conoscere
Giovan Battista Vico, questo grande umanista e filosofo ravvisò
in lui un grande talento tanto da coltivarne lo spirito. Dopo aver
appreso filosofia e matematica si mjse a studiare le leggi romane e
canoniche presso Gaetano Mari nell’Università di Napoli. Qui
si abbandonò alla lettura dei filosofi antichi, dei politici e dei
teologi come Platone, Plutarco, Cicerone, Seneca, Tacito,
Arnaldo, Cartesio e Bacone. Accresciuto e migliorato il suo
spirito studiò Diritto Pubblico e cominciò l’esercizio del Foro
sotto un valente avvocato. All’età di 20 anni diede alle stampe un
tomo di liriche toscane che furono accolte con piacere nei maggiori
circoli letterari del tempo. Il canonico letterato Sostegni, sotto
un ritratto di Gherardo vi pose questo distico:
“Aspice
hunc, quarto vix jam pubescere lustro:
perlege dispeream, ni tibi
nestor erit”. |
Accolto favorevolmente dalla
critica pubblicò altri tre volumi che furono letti con eguale
gradimento; se ne replicarono più edizioni ed in quella del 1763
sotto un altro ritratto si legge questa terzina:
“Lungo il Sile costui già
nacque, e poi
sé l tenne, e crebbe la real
sirena,
e’ l dispose a lodar Divi, ed
eroi ”. |
La fama dei suoi poetici
componimenti, pieni di estro di vivacità e di pensieri felici,
giunse a conoscenza della corte imperiale di Vienna. Nel 1727 fu
inviato nella capitale Asburgica come poeta cesareo. Ma la
provvidenza aveva riservato Gherardo a cose più auguste.
Sbrigatosi con dignità dal cortese, ed onorevole compito affidatogli
diede modo al Metastasio di occuparne il posto ed egli si
rinchiuse nel collegio dei Padri Cinesi fondato e retto dal
conterraneo padre Matteo Ripa. L’anno dopo vestì l’abito dei
Frati Minimi di San Francesco da Paola (1729). Mutato il
corso della sua vita, mutarono anche gli studi. Dalla poesia si
dedicò unicamente all’oratoria e alla lettura dei Padri della storia
ecclesiastica, dei teologi, dei concilii e degli annali del
Baronio. Fu novizio e studente dal 1730 al 1732 e recitò vari
sermoni a Napoli ed Aversa. Passato al convento di Salerno dal 1733
al 1738 continuò lo studio e ad arringare solennemente sul pergamo.
La prima orazione che pronunziò nel Duomo di Salerno, fu del “sacerdozio
eterno”, la seconda in onore per le nozze di Carlo III
con Maria Walspurga, la terza per la coronazione di
Carlo III. Ritornò a Napoli nel 1738 dove fece sentire la sua
voce dai pulpiti. Orazioni e panegirici che erano il suo forte
furono tenute a Bitonto, Bari Caserta, Nola e Palermo. Fra esse
meritano speciale menzione quella con le quali celebrò le lodi
dell’oratore Cappuccino Bernardo Giacco, del Conte Matteo
Egizio, di FilippoV e di Ferdinando VI re di
Spagna. Nel 1738, 1739 e 1751 recitò nella cappella reale di
Carlo III tre orazioni sul combattimento col demonio, sul male e
sull’amore di Gesù nostro Signore e Maestro. Ma più di tutto si
segnalò nel 1749 nell’orazione: “L’opponimento al sistema del
Padre Francesco Antonio Piro dei Minimi intorno all’origine del male
contro Bayle”. Qui Gherardo fece conoscere quanto la
scienza metafisica andasse avanti. Egli per dimostrare la vera
origine del male produsse un opera col titolo: “Consolazione
della sapienza”. Le sue poesie quanto le Orazioni furono più
volte riprodotte, castigò rigorosamente le liriche giovanili
componendone altre religiose, riprodusse le prescelte in quattro
volumetti dicendo:
“Altri, errando, cantai
negletti versi
in vario stile, a’ quai
pentito dissi:
perché
non siete voi dal mondo spersi”. |
Di questi ve ne sono tre
edizioni, la prima presso “Gessari” (1750); la seconda in tre
Tomi, in VIII presso “Simone” (1763); la terza in quattro
Tomi presso l’officina “Abbaziana” (1780). Le sue Orazioni
vennero date alle stampe sia sciolte che unite. Nelle sue rime si
osserva gravità, sostenutezza e sceltezza di voci pure toscane, con
arte sublimità e maestà, che fa avvicinare la nostra lingua alla
latina (giudizio dato dai maggiori critici del tempo che fu
considerato il secolo dei lumi). Compose eloquenti iscrizioni
lapidarie latine. Inimicissimo di onori giunse a rifiutare il
vescovato di Ugento che gli si offriva. Tenne per una sola volta il
titolo di provinciale del suo ordine. Fu amico di uomini dotti e
tenuto da essi in gran conto, fra gli altri il Vico, il
Giannone, il Capasso, il Principe Galdi, il
Cirillo, il Mazzocchi, il Genovese, il
Martorelli, il Duca Vargas, il Re e la sua Corte. Fu
iscritto in varie accademie della Capitale e in giovinezza nell’Arcadia
Romana. Nella disputa avuta col padre dei RR. Frati Minimi
Francesco Antonio Piro come detto pocanzi,
Gherardo ebbe la seguente risposta dopo l’Orazione tenuta nel
Duomo di Napoli contro l’antimanicheo del sistema sull’origine del
male. “Le difficoltà da voi mosse nell’orazione mandatami contro
il sistema antimanicheo, mi confermano nell’opinione che dà più
tempo porto di voi, che non solo per le vostre onorate fatiche
l’eloquenza sacra sia giunta al più alto segno, ma che potrebbe
altresì esserne illustrata di molto la metafisica, e la teologia; e
mi rallegro con me stesso, che le obiezioni che mi fate, non portano
danno al mio antimanichesimo, non vi saranno altre da dargli scossa.
In un sì intrigato labirinto, qual è quello dell’origine del male,
se voi pensate por piede senza timore di invilupparvi nei suoi tanti
ravvolgimenti, come mi fate sperare con l’ideata vostra Orazione che
porta il titolo “Consolazione della Sapienza” che presto
pubblicherete; io ne sto attendendo la felice riuscita. Frattanto
per ora mi trattengo a comunicarvi senza disagio e danno col
soccorso della virtù, essendo a voi riservata la sapienza”. Con
la sua città non ebbe un buon rapporto, rimase in amicizia con la
famiglia Ripa e la famiglia Pisciotta. Ad una lettera
del Canonico Giuseppe Pisciotta che gli chiedeva di fare
degli elogi ad alcuni uomini illustri ebolitani rispose: “Le
notizie del Padre Benedetto Giuliano da Eboli, della Congregazione
Celestina, le cui sacre ossa dall’antichissimo suo Monastero della
città medesima, in Napoli trasportate, restarono arse, e distrutte
nell’accidentale incendio della sacrestia di San Pietro a Maiella,
mi paiono scarse, e non bastevoli a formare un elogio di un tanto
uomo, procurate dunque con maggior studio di investigarne altre
memorie, e non so, se abbiate letto che la sua stirpe era d’antica
nobiltà romana, e durante in Eboli per più secoli, con le principali
e nobilissime famiglie Clario, Cristofaro, Campagna, Novella,
Concione, Troiano e Martucci s’ imparentò; la quale oggi Donna Diana
madre di Don Gianbattista Cristofaro sol rappresenta. Della progenie
degli Umbriani e Cupiti, che voi mi ricordate gli archivi e i Poemi
del Padre
Agostino dei Cupiti minore osservante grande Oratore che
affascinò quel genio del Panigarola (suo maestro) che lo giudicò il
più grande di tutti, e i versi latini di
Pietro da Eboli
che potrà il nostro don Francesco Pacelli procurarvi, al quale io ho
molta letteraria obbligazione. Mi ricordo altresì che il Re
Ferdinando d’Aragona avesse la famiglia Mirto onorata,
concedendole il Feudo dell’Olmo: Né tralasciarei il ragguagliarmi
intorno a qualche speciale onore delle famiglie Viviani,
Amore e Ferrara, distinta da quella Ferrari.
Desidero ancora la copia degli epitaffi nella chiesa dei PP.
Conventuali, uno dei quali è un monumento chiarissimo della gente
Cristofaro e l’altro riguarda, secondo voi stesso mi avvisaste, la
gente Troiano, dei Baroni della Quaglietta, oggi col nostro
don Gio. Antonio Ferrari imparentata. E’ necessario ancora,
che trascriviate la iscrizione dentro la Chiesa Maggiore, che i
signori Carovita riguarda, i quali memoria molto d’onore all’antica
Eboli lasciarono. E necessariamente si deve registrar l’altra
speciosa famiglia Paladino. Ma dove lascio la casa dei Galardi, e
quella dei Perretti, ultimamente del P. Maestro Felice, Minore
Conventuale, illustrata? Or a voi tocca di apparecchiarmi il
materiale delle notizie più sincere, e sarà mia cura soltanto di
ordinarle con qualche ornamento di stile. Mi piace, che abbiate voi
rischiarata la vostra origine lontana dalla città di Controne; io
non lascio però colla fraterna mia confidenza e d’amore di
ricordarvi, quello dovessi più nobil’albero riputare, che migliori
frutti produce. Con stima e affetto Padre G.d.A.”.
Speciale fu il rapporto di Gherardo con il più grande italiano di
quel tempo il sommo Givanbattista Vico il quale fu largo di
precetti e incoraggiamenti nei suoi confronti, egli lo guidò nella
formazione letteraria fin da quando leggendone i primi componimenti
poetici, ne valutò l’ingegno e, trovatolo nella conversazione
fecondo di idee e ricco d’eloquio, presagì che sarebbe divenuto un
grande oratore. E tale divenne, pur non tralasciando di poetare fino
al quinto lustro, allorché mutò vita abbracciando lo stato
religioso. Questo cambiamento provocò un forte contrasto col
padre che voleva farne un avvocato, professione assai lucrosa in
quel secolo. Il giovane invece aveva grande predisposizione verso le
lettere e la filosofia . Questo conflitto col genitore afflisse il
suo animo sensibile, ma egli trovò conforto nell’amicizia e nel
paterno affetto del Vico, di cui, come affermò Benedetto
Croce, divenne “discepolo benamato”. Per breve tempo
ritornò ad Eboli, dai suoi concittadini si aspettava apprezzamenti,
ma essi si dimostrarono freddi ed indifferenti. Nel breve soggiorno
nel paese nativo scrisse questo bel sonetto:
“Guari non fia il mio vario
destino
Seguendo, io lasciar debba il
molle aprico
Natio terreno, onde al
sentiero antico
Ritorni, di che fui sempre
indovino.
Bramolo, perché voi vedrò
vicino,
O mio magno maestro, eterno
Vico,
Del cui sermon l’ardente anima
nutrico
Pur come d’immortal cibo e
divino (…)”. |
Da Eboli inviò al Maestro
alcuni sonetti e un Capitolo, che il Vico dopo averli letti
cosi gli rispose: “Ella è un giovanetto di natura poetica degna
dei tempi di Dante”. Al suo abbandono della poesia esprime così
il suo mutamento spirituale dedicando un sonetto per l’Assunzione di
Maria, nella seconda terzina dice:
“Io mi ricovro sotto al tuo
bel manto
O del mondo e del ciel Somma
Reina
Fa che al peccato mio scenda
ampio perdono”. |
E non molto dopo gli scrupoli
ebbero il loro sopravvento: “Altri errando cantai negletti versi
/ In vario stile, ai quali pentito io dissi: / Perché non siete voi
del mondo spersi?”. Intanto il Vico gli scriveva:
“… ma non è perciò che contengono cose le quali sconvengono al
suo presente più degno stato: e pochissimi componimenti fatti nella
più fervida etade, pur da sensi onestissimi sono arrivati”.
Intanto era diventato figlio di S. Francesco di Paola si
quietò con le “Rime scelte” date alla stampa nel 1730 con la
data di Firenze e la prefazione del Vico che, fra l’altro
scrive: “Il signor De Angelis quattro suoi canzonieri, che a lui
giovinetto avevano conciliato la stima di dotti uomini, ha in buona
parte soppressi, ed in poca rimasta ha migliorato e contornati ad
una forma più luminosa”. Anche se bruciò i suoi versi scritti in
giovane età per fortuna delle lettere sono rimasti intatti nelle
varie raccolte, pur abbracciando lo stato religioso non vennero meno
i suoi rapporti con i letterati del tempo. Era sempre viva
l’ammirazione per il Vico che nelle rime giovanili aveva
celebrato con un magnifico sonetto.
“O divin Uomo? O glorioso, e
grande luogo,
ov’ei nacque! O fortuna e
d’oro
Presente etade! O di quanti
unqua foro
Saggi, il primiero in tante
opere ammirande!
Com’è vivesse in fin da che
acqua e ghiande
Fu cibo al mondo, è spiega in
suo lavoro
Le Nazioni, e i necessari loro
Costumi, e un mar di sapienza
spande.
Qual forza or non dovrebbe ad
onorarlo
Muover genti dall’ultimo
oceano!
Ecco al saver chi stese altri
confini,
E via più quanto studio in
esaltarlo
Mostrar dovrian con lingue, e
pronta mano
Questi d’Italia Popoli vicini!”. |
Il Vico continuò ad amarlo
come quando lo aveva salutato nei due sonetti, l’uno che comincia
col verso: “Garzon sublime e pien di anima grande…”, l’altro
che comincia: “Quell’ardente desio, alto, immortale…”, e
all’altro:
“Veggio la fama tua, che il
mondo ha pieno
D’altere laudi, a tue virtude
uguali;
Che non è mai chi poggi ove tu
Sali
Pronto, e leggier di vera
gloria in seno.
E ben l’invidia il suo crudo
veleno
Depose, e non tardò le tue
destr’ali,
Onde ad onor si eccelsi ed
immortali
Vico, t’alzasti, e splendi
alto, e sereno”. |
E rimasta celebre la lettera del
Vico del natale 1725 a Gherardo degli Angeli:
Sopra l’indole della vera Poesia, che diede, “…nuovo e più
fecondo avvio alla critica dantesca” in essa il Vico si
congratula col discepolo, “… venuto in età della qui tra noi
rifiorente toscana Poesia”. Ma ‘un tanto beneficio’ deve
il giovine “…al tempo da cui è stato senza guida altrui, menato a
leggere Dante, Petrarca, Bembo, Ariosto, ed altri poeti
eroici del cinquecento; poiché sovratutti, ma non per altrui avviso
fattone accordo, egli per il suo senso poetico, si compiace di
Dante, contro il corso naturale dei giovani, i quali per il sangue
che ride loro nelle vene, si dilettano di fiori, di acconcezze di
amenità”. Nel 1811 il Manzoni in uno scritto diretto
all’amico Fauriel voleva sapere dove trovare “Une fameusa
piecess” lavoro che il Fauriel stava conducendo su
Dante e le origini della lingua e della letteratura italiana: un
lavoro del quale non ci manca di parlare del Vico, “Ce
n’est-soggiungeva il Manzoni, vien moin qu’une lettre de Vico
su Dante”. Alludeva certamente a quella diretta a Gherardo
degli Angeli. A noi non resta che dire che il nostro Poeta ebbe
a numi tutelari Dante e Vico. Non mancano nella
produzione poetica canzoni e sonetti d’imitazione “petrarchesca”
e tra i primi componimenti c’è anche un lavoro drammatico su S.
Casimiro principe di Polonia. Questo prova che Gherardo
fu un ingegno multiforme, trattò vari generi letterari. Sicchè il
suo nome corse i vari Cenacoli delle più grandi Metropoli d’Italia
conquistando grande estimazione dei contemporanei. Oggi le sue
Poesie meriterebbero di essere studiate nelle scuole per farle
conoscere alle attuali e future generazioni. Carico di fatiche morì
a Napoli nel giugno del 1783 nel convento dei minimi della Stella
ove è sepolto, lasciando un vivo ricordo di se. Nell’assemblea degli
Arcadi Sebezi per onorarne la memoria gli ‘accademici
sinceri’ cosi si pronunciarono: Il presidente Agosto Nemeo
al secolo Abate Giovanni Sarcinelli apri l’udienza degli
Arcadi con questo discorso: “Ornatissimi ed Eruditissimi
siamo qui riuniti per solennizzare gli ultimi Uffici al famoso Padre
Gherardo degli Angeli. Prima che termina il Secolo che ce lo lodano
le di lui virtù, cantiamo degnamente le sue lodi; ergiamogli a
perpetua emulazione dei futuri tempi un saldo monumento, le cui basi
non vacillano, nemmai dall’ingiurie e dall’Età restino scosse. Prove
innegabili del suo vero ingegno, della sua dottrina, del purgato suo
discernimento ai vari estimatori del sapere, son le belle di lui
poesie della giovanile ed anche di matura età, non che le sue
inimitabili Sacre Orazioni, e Prose, che lo fan riporre tra gli
Uomini più segnalati della nostra Nazione. Appena uscito di vita il
buon “Raccolto” ( nome di Gherardo nell’Arcadia Sebezia
), l’immortal Principe della nostra Reale Accademia Eumelio
Fenicio ( al secolo Cav. Don Vincenzo Ambrogio
Galdi Conte del Galdo e di Belforte, Patrizio di Reggio,
Avvocato Fiscale per la Corona di Sua Maestà Ferdinando IV ),
nel far chiudere pietosamente i resti in Santa Maria della
Stella gli eresse una marmorea tavola, per mantenerlo sempre
ricordato alle future generazioni. L’elogio sulla tavola
marmorea cosi recita:
DOM
ALL’ETERNA MEMORIA
DEL PADRE GHERARDO DEGLI ANGELI
NATURALE DI EBOLI
NELLA PROVINCIA DI LUCANIA
CHE DAI TUMULTUOSI ROSTRI
DE’ NAPOLETANI SENATI
FRA I QUALI DISTINGUER FACEASI
PER LE TOSCANE SUE LIRICHE
POESIE
SUL SEVERO GUSTO
DEGL’ITALICI PIÙ ANTICHI
RIMATORI
PASSATO NELL’ETA’ DI XXV ANNI
A PROFESSARE IL REGOLARE
INSTITUTO DI S. FRANCESCO DA PAOLA
IN QUESTA COSPIQUA DOMINANTE
SI OCCUPO’ CON L’AQUISTO
DI NUOVE ALTISSIME FACOLTA’
E CON L’ESTREMO SFORZO DELL’ARTE
A RESTAURAR TALMENTE LA SACRA
ELOQUENZA CHE RECO’ STUPORE AD
OGNIUNO
CON LE PROPRIE GRAVISSIME
ORAZIONI
SINO AD ESSERNE DA TUTTI
RIPUTATO IL VERO MAESTRO
NON CHE L’INIMITABILE MODELLO
E LA NORMA;
GLI ACCADEMICI SINCERI
DELLA SEBEZIA REALE ARCADIA
BEN RAMMENDANDOSI DI AVERLO
TENUTO
FRA I PRIMI LORO IMMATURI
ARROLATO UN TEMPO E DESCRITTO
CON SERENISSIMA POMPA
DI SOLE SCIENTIFICHE LAUDAZIONI
QUALE A UN GRANDE UOMO DI
LETTERE
GIUSTAMENTE CONVIENSI
E CON LA FREQUENZA DEGLI INGEGNI
PIÙ NOBILI
DELLA CITTA’ DEL REGNO
CELEBRANO GLI ULTIMI UFIZI
ED IL NOME ALL’IMMORTALITÀ
NE CONSACRANO
MDCCXCVIII. |
Mariano
Pastore
Pagina
realizzata con testo ed immagini trasmessici dall'autore, dicembre
2010 |