È la
storia di un amore senza speranza di un giovane per una ragazza
che abita dietro la finestra Vascia (misera, solo perché resta
chiusa), un classico “ammore ‘e vìco” d’altri tempi.
La
canzone originale non ci è pervenuta, abbiamo la trascrizione di
Guglielmo Cottrau, autore ed editore, che si può considerare il
padre della Canzone Napoletana moderna, avendo per primo, dal
1820, curato la trascrizione musicale delle canzoni dei secoli
precedenti, affidandone i testi a poeti locali, tra cui Paolella
e Biscardi, confinati nell’oblio per le note vicende storiche
del 1860.
Affidò questo testo aulico a Giulio Genoino, valente
poeta-letterato di Frattamaggiore, dimenticato dalla
storiografia letteraria italiana e spesso confuso con un omonimo
salernitano del seicento, il consigliere di Masaniello. Il
Genoino riporta fedelmente il testo del 1500, adattandolo alla
lingua parlata nel 1800, anche nei termini in allora disuso o
perfino dimenticati, con un ottimo risultato.
Il
testo è composto di due “ottave siciliane” di endecasillabi, in
rima alternata AB, molto usate da poeti popolari ed aulici, tra
cui il Boccaccio. Ogni ottava svolge un tema diverso, ogni
distico forma una frase compiuta ed indipendente ma collegata
logicamente alle altre.
La
rima, imperfetta nel testo scritto, è perfetta nella dizione
corretta osco-napoletana, dove il finale di parola, pronunciato
sempre “sfumato”, non ne definisce il genere, affidato
all’articolo o aggettivo che la precede. Nella prima strofa, le
parole crudele, cannela e neve, sono in rima se pronunciate con
la “e” finale in francese, sfumandola. Analogamente nella
seconda, per picciuotto, palazzuotte e accorte, per ‘ncoppa
vedi le considerazioni.
La
musica, scritta per il Calascione, tipo di liuto in disuso, con
il mandolino esprime meglio quel timbro partenopeo di sottile ed
indefinibile malinconia.
Il grande
musicista
Franz
Liszt, il celebre compositore ungherese, ha scritto delle variazioni sulla melodia di questa canzone
che aveva sentito a Napoli durante un suo viaggio in Italia.
Il
testo non è facile da tradurre, per la ricercatezza delle parole
(parole accorte) e del fraseggio, tecnica di un poeta colto,
anonimo per convenienza o scelta personale, non di cantastorie,
scritto nel 1500 sotto il Vicereame spagnolo, che causò il
degrado del tessuto umano di Napoli, ancora oggi evidente.
All’epoca e fino al Regno di
Ferdinando
I “o Rre Nasone”, un testo per canzone era ritenuto “roba da
giullare”, non da poeta aulico, per cui si può affermare che il
“signor Anonimo” è l’autore più prolifico e longevo della
letteratura Napoletana e non, avendo firmato quasi tutte le
poesie per canzoni per oltre tre secoli. Ecco questa bella
Poesia con la traduzione quasi letterale.
Fenesta vascia |
Finestra bassa (o misera) |
Fenesta vascia 'e
padrona crudele,
quanta suspire mm'haje
fatto jettare!...
Mm'arde stu core,
comm'a na cannela,
bella, quanno te
sento annommenare!
Oje piglia la 'sperienza
de la neve!
La neve è fredda e se
fa maniare...
e tu comme si' tanta
aspra e crudele?!
Muorto mme vide e nun
mme vuó' ajutare!?...
Vorría addeventare no
picciuotto,
co na langella a
ghire vennenn'acqua,
Pe' mme ne jí da’
chisti palazzuotte:
Belli ffemmene meje,
ah! Chi vó' acqua...
Se vota na nennella
da llá 'ncoppa:
Chi è 'sto ninno ca
va vennenn'acqua?
E io responno, co
parole accorte:
Só' lacreme d'ammore
e non è acqua!... |
Finestra bassa di una
padrona crudele,
quanti sospiri mi hai
fatto sprecare!.....
Questo mio cuore arde
come una candela,
bella, se sento il
tuo nome pronunciare!
Orsù prendi esempio
dalla neve!
La neve è fredda ma
si fa accarezzare….
Ma tu sei così aspra
e crudele?!
Mi vedi morire e non
mi vuoi aiutare!?....
Vorrei diventare un
bel garzone,
che con la brocca va
vendendo l’acqua,
e poter gridar tra
questi caseggiati
“Mie belle donne, ah!
chi vuole l’acqua…..”
Si volge una ragazza
in su dall’alto:
“Chi è il bel garzone
che vende l’acqua?”
Le risponderei con
parole dosate:
“Sono lacrime
d’amore, non è acqua!.....” |
Per apprezzare la musicalità del testo occorre la pronuncia
esatta, difficile nella lingua napoletana o campana
priva di chiave di lettura nella grafia italiana. Infatti,
l’interpretazione di canzoni napoletane dei grandi tenori,
così divina per la melodia, è fiaccata dalla dizione. Da
notare la punteggiatura ricercata, o riportata dal testo
originale, o opera di Giulio Genoino, una figura di grande
poeta da rivalutare, come tutti quelli dell’epoca di “Re
Nasone”, il primo ottocento. La cultura del regno d’Italia
ha spinto nell’oblio le intelligenze non allineate al nuovo
corso, anche con disprezzo, come Mariano Paolella,
bistrattato da Salvatore Di Giacomo nel saggio su
“Fenesta ca
lucive”, e in senso lato tutto il Sapere del Regno
di Napoli.
Commento
La
canzone esprime il tormento del protagonista per l’amore non
corrisposto (la finestra chiusa), l’autore non ne indica il
motivo, delega il lettore a trovarlo in base alle esperienze
della sua vita.
La
prima strofa grida lo sdegno per il comportamento della ragazza,
la seconda esprime un’idea per fare affacciare la ragazza e
poterle mostrare le lacrime sprecate e raccolte nella langella.
E' Fenesta vascia 'e padrona crudele, rinfaccia alla
Finestra squallida, perché la padrona è crudele, di avergli
fatto versare, e sprecare, infiniti sospiri o lacrime, quanta
suspire mm'haje fatto jettare! In questi due versi è
espressa tutta la poesia, il tormento, la rabbia ed una lontana
speranza. Il ragazzo chiama la finestra misera o squallida, la
padrona è crudele perché lo ignora, mentre il suo cuore
s’infiamma, come una candela, solo ascoltando il suo nome, anche
se chiamano una omonima Mm'arde stu core, comm'a na cannela,
bella, quanno te sento annommenare! L’immagine esprime bene
l’effetto, la candela scotta immediatamente la mano che la
sfiora, fa trasalire, come sentire il nome della donna
desiderata. La vera poesia nasce per un amore non corrisposto,
un amore realizzato produce la prosa.
Le
consiglia di imitare la neve, che è fredda come lei, ma si fa
plasmare con le mani, Oje piglia la 'sperienza de la neve!
La neve è fredda e se fa maniare. Maniare,
letteralmente maneggiare, si deve tradurre “modellare, plasmare,
accarezzare”, vero significato in Napoletano, è quel che vuole
il ragazzo, poterla accarezzare, plasmarla o crescerla,
espressione usata dai ragazzi napoletani per la fidanzata
bambina, da sposare dopo i 20 anni, per tenerla legata a se ed
al suo mondo.
Il
suggerimento risulta inutile, segue un’amara considerazione, la
ragazza è definita scostante ed insensibile tu comme si'
tanta aspra e crudele?! tanto da non addolcirsi nemmeno
vedendolo spegnersi giorno dopo giorno Muorto mme vide e nun
mme vuó' ajutare!? “Muorto me vide (o vire)”, letteralmente
“mi vedi morto”, tradotto “mi vedrai morire” rende il vero
significato della frase.
Ma il
ragazzo vuole che conosca il suo tormento, la seconda strofa è
un’idea per poter mostrare alla ragazza le lacrime versate,
fingersi venditore di acqua. Su questo personaggio vedi più
avanti.
Vorría addeventare no picciuotto, co na langella a ghire vennenn'acqua,
Vorrei trasformarmi in un garzone del venditore d’acqua, munito
di anfora o “Mummara”, per andare tra i caseggiati e gridare
”Mie belle signore, chi vuole l’acqua fresca e bella” Pe' mme
ne jí da chisti palazzuotte: Belli ffemmene meje, ah! Chi vó'
acqua.
Le
grida dei venditori ambulanti echeggiavano nelle città fino agli
anni sessanta del 900, vedi le canzoni
“A testa aruta”,
versione di Berri, e la genovese “Ciassa Pontexello”.
Lo
scopo è di far aprire la “fenesta vascia” ed affacciare la
ragazza, che chiederà dell’acqua, Se vota na nennella da llá
'ncoppa: Chi è 'sto ninno ca va vennenn'acqua? La ragazza
del suo sogno chiederà chi sia il nuovo venditore d’acqua. “Se
vota”(o “S’avota”), letteralmente “si volta”, va tradotto
“interviene nel discorso”. Vedi il commento nelle
considerazioni.
Il
ragazzo, mostrando l’anfora, le dirà, con parole ben studiate:
“non c’è acqua, ma lacrime versate per la tua indifferenza” E
io responno, co parole accorte: Só' lacreme d'ammore, non è
acqua!
Questo distico ha un’intensità particolare, parla delle parole
accorte, cioè ben pesate e calcolate dall’autore
nel comporre il testo che esprime al meglio il motivo
dell’intera canzone. Nell’anfora, a langella, non c’è acqua
bensì tutti i sospiri e lacrime del secondo verso, le lacrime
versate e anche sprecate (il verbo jettare). Il
finale riprende l’inizio della poesia, il tormento di un amore…
Considerazioni
La
trascrizione del Genoino, da grande letterato, non ha fiaccato
l’intensità dell’intera poesia, che ha due toni diversi,
rabbioso nella prima strofa, dove la ragazza è definita “Padrona
aspra e crudele”, perché esprime una realtà di vita, dolce nella
seconda, dove la ragazza è chiamata “Nennella”, perché esprime
un sogno. L’amore non corrisposto genera la poesia, l’amore
realizzato la prosa. Per meglio capire il testo, l’originale è
del ‘500, analizziamo alcuni termini usati nella poesia.
Fenesta vascia 'e padrona crudele,
la 'e si traduce di o di una,
l’apostrofo sostituisce la d o r, non è e
congiunzione, che si scrive senza apostrofo. Vascia,
letteralmente bassa, in realtà è usata per “misera, squallida o
brutta”, il suo vero significato. Popolo vascio, usato
nella Carmagnola, si traduce “popolo basso” ma effettivamente
significa “proletariato” o anche “sottoproletariato”.
L’acquaiuolo
cioè
il venditore d’acqua è una figura popolare distrutta dalla
modernità. Napoli è stata servita da un ottimo acquedotto già
dal 2° secolo A.C., inizialmente alimentato da sorgenti del
Nolano e del Vesuvio, attraversando la pianura su archi presenti
nei toponimi di Pomigliano d’Arco ed altri Casali scomparsi. In
seguito fu alimentato dalla sorgente della Bolla, o Volla, nome
con cui è conosciuto. L’acquedotto alimentava di acqua potabile
e corrente tutte le cisterne dei palazzi, in percorso
sotterraneo, con i pozzi d’ispezione, di cui alcuni hanno
permesso la conquista di Napoli, aggirandone le difese, da parte
di Belisario ed Alfonso d’Aragona, mentre i tentativi di
Annibale e Lautrec fallirono per cause contingenti (ordini
superiori ed epidemie). L’accessibilità alle cisterne poteva
inquinare l’acqua (rifiuti, suicidi, ecc.) per cui in città era
diffusa la vendita di acqua potabile o in chioschi, attivi fino
al 1960, o da ambulanti con orci di creta in varie forme
(Langelle o mummare). L’acqua era attinta da varie
sorgenti, la più famosa era quella del Chiatamone, chiusa
nell’epidemia di colera degli anni ’70, (forse solo per
interesse privato?). Chi ha molte primavere sul groppone ricorda
‘a mummarella ‘e acqua ferrata del Chiatamone e le
fontanelle, da cui si attingeva l’acqua, che si vedevano dai
finestrini dei Tram nr 3, 20 e 28.
Picciuotto
ossia
il giovane garzone è una storpiatura di piccione,
nome che indica il giovane del colombo, esteso anche ai garzoni
di bottega. Il termine nella cultura attuale, purtroppo, indica
solo il garzone di Mafia ed è anche pericoloso usarlo, come i
nomi ed i simboli usati dal Nazifascismo, la svastica ed il
fascio littorio, rispettivamente il simbolo del Sole (il Dio di
tutti noi Indoeuropei) e della giustizia Romana (quando
romano era ogni abitante dell’Impero, dai britannici ai
Persiani).
Se
vota na nennella da llá 'ncoppa,
salta la rima, ma c’è un motivo. Se vota (o s’avota)
è usato per “intervento nel discorso”, la frase completa è “S’avota
‘a ncopp’a mano”, derivata dal gioco delle carte, per
l’intervento attinente all’argomento, quindi al giro di carte o
mano. A mio parere, l’intero verso poteva essere “se vota a
‘ncoppa a mano ‘na picciotta”, quindi in rima, nella
trascrizione il Genoino ha dovuto “riscriverlo” scindendo “se
vota” da “ncoppa” che, isolato, significa “da sopra”, e
modificando picciotta in Nennella, andando così fuori rima. Il
motivo della scelta è il significato dispregiativo dato al
termine Picciotta nell’Ottocento, mentre nel 1500 era usato per
“signorina” o ragazza, il femminile di Picciuotto. Il Genoino
era un profondo conoscitore della lingua, ha sacrificato la rima
per mantenere il significato del termine originario.
Il
termine ne jí da’ significa “dare il grido” (Da’, verbo
dare tronco, jí usata per grì, gridare tronco). I termini
Nennella e Ninno, vezzeggiativi di Figliola,
ragazza, e Guaglione, ragazzo o garzone, erano usati tra
innamorati o persone legate da affetti familiari. Oggi Ninno
è ormai in disuso nel linguaggio comune, il femminile
Nennella, Nenna, o anche Ciarella e
Cicellina, sono usate solo da chi ricorda l’acqua ferrata
del Chiatamone. Oggi sembra più in uso Ciuciù (pronuncia
come in francese chouchoux), che significa “sussurro del bosco”
o zuccherino o il piccolo bignè rotondo, prelibatezza napoletana
simile al beignet francese dei Profiterolle o Saint Honorè. Il
raddoppio del termine Chou enfatizza la prelibatezza e la
dolcezza unica del dolcetto a forma di cavolino. Il termine
Nennella è usato anche in “Te voglie bene assaie” e “Fenesta
ca lucive” del 1825. Questi termini affettuosi sono usati anche
dai genitori versi i figli. Una figlia, anche maggiorenne, è
sempre chiamata Nennella dai genitori, che la considerano
sempre una ragazzina. Credo che per la nuova generazione il
termine sia obsoleto o in totale disuso, per la globalizzazione
delle culture e l’esterofilia, già endemica nel napoletano
medio, ora favorita viepiù dai mezzi di comunicazione. Il
termine come Nennella, invece, denota
l’appartenenza ad una cultura millenaria, ancestrale di un
antico popolo Italico. Una cultura da preservare gelosamente,
pur nel rispetto delle altre culture.
I
personaggi.
Il ragazzo è un giovane popolano invaghito di una ragazza, che
la cultura del vicolo non permette di avvicinare, o solo la
paura del diniego della famiglia. In questi casi è interviene la
comare, figura importante nel vicolo, in grado di combinare (più
spesso scombinare) i matrimoni con le ragazze del quartiere,
anche se vi è stato qualche tentativo di approccio, di nascosto.
Nelle famiglie denarose, la ragazza non ha voce in
capitolo, sarà un mediatore, il sensale, a
procurarle un marito, in genere un militare, meglio un
finanziere per motivi “fiscali”, un impiegato a reddito fisso
(un monsieur Travet) o un pari grado “sociale” (piccola
borghesia mercantile).
La
ragazza non è presente, interviene solo nella seconda strofa,
nel contesto di un sogno, il sogno di un innamorato. Ricordo
molti ragazzi come quello della canzone negli anni …, bah!
qualche anno fa e le canzoni
“Voce ‘e notte” di Nicolardi e “Oilì Oilà” di Salvatore
Di Giacomo.
La
finestra simboleggia gli occhi della casa, se chiusa è un
simbolo d’isolamento o di negatività. La finestra è presente in
“Fenesta ca lucive”, “Marechiaro”, “O sole mio” (2ª strofa)
ecc., o “Chiudi la tua finestra” del 1968, un invito alla
ragazza di troncare ogni rapporto con l’amante deluso.
La scena della Poesia è un
posto qualsiasi nei quartieri storici di Napoli, dove Giulio
Genoino ha operato prima di tornare a Frattamaggiore, dove
riposa nella chiesa dell’Ingenito. E’ un mondo a sé, unità base
della struttura sociale della città, dopo la famiglia, con leggi
non scritte ma seguite, antiche come le città osce. Da quel
mondo si fugge per cercar fortuna altrove, ma resta sempre nei
sentimenti, anche se la distanza è nell’ordine dei tre zeri ed
il viaggio sarà senza ritorno.
Questa canzone mi ha sempre
affascinato, ricordo l’interpretazione di Massimo Ranieri,
ragazzo del Chiatamone. Ho fatto questo lavoro, la traduzione è
mia personale, per far comprendere bene il testo e ricordare
l’autore della versione del 1825, Giulio Genoino, eccellente
poeta letterato, se lo merita! (spero di esserci riuscito almeno
in parte), lo dedico a Concetta Spena, la cognata mancata anni
fa, che gradiva molto questa canzone, in particolare l’ultimo
verso Só' lacreme d'ammore e non è acqua. I motivi
non me li ha mai rivelati, restano nei suoi ricordi.
La canzone è citata nel
Romanzo “Senza Famiglia” di Ector Malot, dove era cantata dal
girovago Vitali, cognome diffuso nel Napoletano, nei momenti
particolari del racconto.
Nota a
piede
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Esempio di Fenesta
Vascia, brutta a vedersi. Questa, tappata alla meglio
con legno ormai fradicio, è quanto rimane della
biglietteria della prima stazione, della prima ferrovia
in assoluto in Italia, la Napoli – Portici del 1838.
Fenesta vascia indica anche “la finestra di un
basso”, alloggio livello stradale, con accesso
dall’interno di un palazzo. Questo tipo di basso è più
raro, normalmente il “basso” è di un solo vano, anche
con soppalco, con accesso diretto dalla via. Tutta la
zona antica ne è costellata, li ricordo molto bene nei
vicoli del Pendino, San Lorenzo e Porto, anche quello
con la finestra bassa di una padrona crudele, con
malinconia, sperando che questo piccolo mondo “umano”
non sia andato perso. |
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