È una romanza di autore
anonimo, il testo è in Osco-Napoletano, di una bellezza unica,
preromantica, formata da cinque sestine in endecasillabi, in
rima alternata. La musica è di prima qualità, ricorda la Scuola
Napoletana di fine 1700, composta da un allievo di Nicolò
Zingarelli, Maestro del Conservatorio di San Pietro a Maiella,
attribuita a Vincenzo Bellini. Il soggetto è ancora attuale
“nell’essenza”, anche se, vista in senso “letterale”, sembra una
storia lontana nel tempo. E’ stata scritta da un cantastorie,
forse il protagonista stesso, a metà 1500, narrata da due
personaggi, l’innamorato che ritorna e la sorella che racconta
la triste morte della “Nennella”, che in Napoletano significa
“Mia dolce cara”, “Amore mio”, “Cuore del mio cuore”, ecc., e
non “bambina”, traduzione “letterale”.
Godiamoci questa bella
romanzac- canzone, poesia, o cos’altro ritenete che sia -
“Fenesta ca Lucive”, chiunque sia l’autore e dei versi
struggenti e della musica divina. La traduzione è dello
scrivente, che ha cercato di mantenere la forma ed “il senso” al
testo originario.
Fenesta ca lucive |
Finestra che
splendevi |
Fenesta ca lucive
e mo nun luce...
sign'è ca nénna
mia stace malata...
S'affaccia la
surella e che me dice?
Nennélla toja è
morta e s'è atterrata... Chiagneva sempe ca durmeva
sola,
mo dorme co' li
muorte accompagnata...
"Cara sorella mia,
che me dicite?
Cara sorella mia
che me contate?"
"Guarde 'ncielo si
nun me credite.
Purzi' li stelle
stanno appassiunate.
E' morta nenna
vosta, ah, si chiagnite,
Ca quanto v'aggio
ditto e' beritate!"
"Jate a la Chiesia
e la vedite pure,
Aprite lo tavuto e
che trovate?
Da chella vocca ca
n'ascéano sciure,
mo n'esceno li
vierme...Oh! che piatate!
Zi' parrocchiano
mio, ábbece cura:
na lampa sempe
tienece allummata..."
Ah! nenna mia, si'
morta, puvurella!
Chill'uocchie
chiuse nun l'arape maje!
Ma ancora all'uocchie
mieje tu para bella
Ca sempe t'aggio
amata e mmo cchiu' assaje
Potesse a lo
mmacaro mori' priesto
E m'atterrasse a
lato a tte, nennella!
Addio fenesta,
rèstate 'nzerrata
ca nénna mia mo
nun se pò affacciare...
Io cchiù nun
passarraggio pe' 'sta strata:
vaco a lo
camposanto a passíare!
'Nzino a lo juorno
ca la morte 'ngrata,
mme face nénna mia
ire a trovare!... |
Finestra che
splendeva, adesso è spenta…
È un segno che la
mia bella è ammalata….
S’affaccia la
sorella e cosa mi dice!?
“La tua cara Amata
è morta e sotterrata…
Piangeva sempre
perché dormiva da sola,
ora dorme in
compagnia degli altri morti”.
“Cara sorella mia,
ma cosa dite!?
Cara sorella mia,
cosa mi raccontate!?”
“Guarda in cielo,
se non mi credete
Persino le stelle
sono rattristate!
E’morta la vostra
bella! oh, sì piangete!
Quanto vi ho detto
è la cruda verità!
Recatevi alla
Chiesa e controllate pure,
Aprite la bara, e
cosa troverete?
Da quella bocca da
cui uscivano i fiori.
Ora escono solo
vermi…Oh! Che strazio!
O buon Curato mio,
abbi tanta cura;
per Lei tieni
sempre accesa una lampada”!
Ah! Povera cara
mia, morta così per me!
Questi occhi
chiusi non li riapri mai!
Ma agli occhi miei
tu sei sempre bella!
T’ho sempre amata
ed ora anche di più!
Magari potessi io
morire al più presto
Ed essere
sotterrato accanto a te, Amore!
Addio finestra,
restatene, pure, chiusa
Ora che il mio
Amore non si affaccerà più!
Mai più io passerò
per questa via:
piuttosto vado a
passeggiare al cimitero!
Fino a quel giorno
che la morte ingrata
Mi farà
ricongiungere alla mia cara. |
Commento
Il tema della canzone è il
ritorno di un giovane innamorato che scopre la morte della sua
amata. Il testo riportato è della seconda metà del 1700, di
anonimo, salvo l’ultima strofa che è posteriore al 1806. La
musica è databile tra il 1822 e 1825 ed attribuita a Vincenzo
Bellini, che l’ha composta ascoltando la romanza eseguita alla
moda dei trovatori.
Rimandando il resto alle
considerazioni, commentiamo
i versi con la traduzione all’impronta. L’inizio ci porta subito
nel vicolo dove il protagonista vede la finestra spenta e pensa
Feneste che lucive e mo nun luce, Sign'e'
ca nenna mia stace malata? Finestra che splendeva
sempre ed ora è spenta, significa che la mia bella è ammalata.
Per l’innamorato è l’unico motivo plausibile per cui la finestra
non è illuminata, non riesce a pensarne altri. Bussa, chiama e
si affaccia la sorella che lo rimprovera della sua lontananza e
lo informa della morte della giovane innamorata,
S'affaccia la sorella e me lu dice:
"Nennella toia e' morta e s' 'e atterrata. Chiagneva sempre ca
durmeva sola; mo dorme co li muorte accompagnata!"
S’affaccia la sorella e me lo dice: “La tua bella è morta e
sotterrata… Piangeva sempre perché dormiva da sola, ora dorme
con tutti i morti, in compagnia”. Il protagonista resta di sasso
e dice: Cara sorella mia, che me dicite?
Cara sorella mia che me contate? “Cara sorella mia,
ma cosa dite!? Cara sorella mia, cosa raccontate?” E’ incredulo,
addolorato, confuso, non crede alle parole della cognata, che
riprende: "Guarde 'ncielo si nun me
credite, Purzi' li stelle stanno appassiunate."
“Guarda in cielo, se non mi credete, persino le stelle ne sono
rattristate!” La morte è stata una tragedia vissuta da tutti nel
quartiere, anche le stelle sembrano tristi in cielo. E continua
"E' morta nenna vosta, ah, si chiagnite,
Ca quanto v'aggio ditto e' beritate!” E’morta la
vostra bella, oh, sì piangete! Quanto vi ho detto è la cruda
verità!” Piangi, povero ragazzo, ormai sapete tutta la verità,
rassegnatevi ed affidatevi a Dio. Quindi prosegue:
"Jate a la Chiesia e la vedite pure,
Aprite lo tavuto e che trovate?" “Andate in Chiesa e
controllate pure, aprite la bara e cosa potete trovare?”
Consiglia di andare nella Chiesa del quartiere, nella cui cripta
si seppellivano i morti, di aprire la bara, non ancora
interrata, ed ecco cosa vedrà "Da
chella vocca che n'asceano sciure, Mo n'esceno li vierme, oh che
piatate!” “Da quella bocca da cui uscivano i fiori.
Ora escono solo vermi, Oh! Che strazio!”, da quella bocca, da
cui uscivano parole dolci e caste, veri fiori, ora escono solo i
segni della morte. Da notare il gusto macabro del 1600 nel
discorso della sorella. Quindi una preghiera
"Zi' Parrocchiano mio, tienece cure, Le
llampe sempre tienece allummate!". “O mio buon
Curato, abbi riguardo; per Lei tieni sempre accesa la lampada”!
La lampada è il simbolo dell’anima che vive oltre la morte, la
vita non finisce ma continua in una altra dimensione. E’ il
pensiero sull’aldilà dell’antica cultura greca, ancora
oggi presente in Campania, soprattutto a Napoli, e nelle Regioni
dell’ex Regno di Napoli. Il protagonista si allontana con i suoi
pensieri tristi e parla alla sua Amata, ormai perduta
Ah! nenna mia, si' morta, puvurella!
Chill'uocchie chiuse nun l'arape maje! Ah! Povera
cara mia, morta così per me! Questi occhi chiusi non li riapri
mai! Ma ancora all'uocchie mieje tu
para bella Ca sempe t'aggio amata e mmo cchiu' assaje!
Ma agli occhi miei tu sei sempre bella! T’ho sempre amata ed ora
anche di più! Ora che la sua Amata è morta, i suoi occhi belli
non si apriranno più, la sua bellezza è finita, ma per Lui sarà
sempre bella, l’ha sempre amata con tutto il cuore, ora l’amore
è divenuto immenso, senza limiti. Quindi continua:
Potesse a lo mmacaro mori' priesto E
m'atterrasse a lato a tte, nennella! Magari potessi
io morire presto ed essere sotterrato accanto a te, Dolce Amata!
E’ l’unico futuro che si prospetta, senza la sua amata. Poi un
addio alla “Finestra spenta” Addio,
fenesta; restate nzerrata, Ca nenna mia mo nun se po'
affacciare; Io cchiu' nun passarraggio da sta strata; Vaco a lo
camposanto a passiare Addio finestra, restatene anche
chiusa, ora che la mia Bella non potrà più affacciarsi! Mai più
io passerò per questa strada; piuttosto me vado a passeggiare
nella via del cimitero! La strada che ha percorso tante volte,
anche nel ricordo, quando era lontano, ormai nella sua mente non
esisterà più, tutto è finito! La finestra potrà restare
tranquillamente chiusa, egli non passerà più per vederla, non
rinnoverà il suo dolore immenso, per rallegrarsi, passeggerà
nella strada del cimitero. Nzino a lo
jurno che la morte 'ngrata Mme face nenna mia ire a truvare.
Fino al giorno che la morte ingrata mi farà raggiungere la mia
Cara Amata. Finisce con il pensiero che la sua vita sia inutile,
deserta fino alla sua morte, che sarà un varco di luce verso il
suo perduto amore. Il finale esprime fedelmente cosa possa
pensare una persona che ha perso tutto, il sogno e la speranza,
finiti con la sua Amata.
Considerazioni
Il testo della canzone è
precedente alla musica, datata circa nel 1824, se attribuita al
Bellini nel periodo in cui visse a Napoli quale allievo di
Nicolò Zingarelli.
Il tema della canzone è la
morte di una ragazza ancora nubile, mentre il suo amato promesso
sposo è lontano da molto tempo. E’ un tema antico, caro alla
cultura popolare ed alla Letteratura, il cui testo più antico è
la commedia “La Fanciulla Tosata” di Menandro, del IV secolo a.C.,
in cui c’è il verso “Coloro che gli Dei amano, muoiono giovani”
o, in italiano, “Muore giovane chi al cielo è caro”.
Il testo originale non si
conosce, ma è databile intorno alla metà del 1600. Esistono
molte varianti scritte, che si possono datare in base
all’evoluzione della lingua napoletana, di cui quella riportata in
questo lavoro, quella la cui musica è attribuita alla scuola
Antonio Zingarelli, quasi certamente al Bellini.
La mia convinzione sulla
paternità del Bellini è legata ai ricordi d’infanzia, ricordando
i discorsi di persone già avanti negli anni, veri conoscitori di
musica popolare, nonché sulla data in cui è comparsa la
partitura, che coincide con la presenza del Bellini a Napoli.
Sembra che il Bellini “avrebbe” composto la melodia, prima di
andarsene da Napoli nel 1825 per causa del mancato matrimonio
con Maddalena Fumaroli, la sua amata napoletana, per il
definitivo rifiuto del padre. Per questo si ritiene
autobiografica l’ultima strofa “Addio,
fenesta; restate nzerrata…nun passarraggio da sta strata”;
tradotta “Addio finestra, restatene chiusa, ora che Maddalena
non si affaccerà più! Mai più io passerò per questa via!” E’ il
grido di dolore dell’Amante rifiutato senza una colpa, è una
sensazione bruciante, dolorosa, che merita una risposta forte,
brutale: Vaco a lo camposanto a
passiare! piuttosto vado a passeggiare al cimitero!
Questo verso fa pensare che
la strofa sia stata aggiunta, o ne è stato modificato il testo
precedente, perché il Cimitero è stato costruito dopo il 1806,
come vedremo dopo. Inoltre, quando era a Milano, il Bellini
litigò con l’editore Di Lucca per la canzone sentita per strada,
suonata e cantata da un cantastorie su una partitura edita dal
Di Lucca.
E’ noto che Nicolò Zingarelli
invogliava gli allievi a comporre anche romanze popolari, ma
questi erano inclini a disconoscerne la paternità, qualora
diventassero canzoni popolari, perchè il comporre una canzone
era ritenuta una cosa non degna per un buon musicista. Questo è
il motivo per cui gli storiografi “campanilisti” negano la
paternità del Bellini.
Altri famosi allievi dello
Zingarelli hanno scritto canzoni, tra cui Donizzetti, al quale
si attribuisce la melodia di “Te voglio bbene assaie”, il cui
testo è posteriore, improvvisato e scritto nel 1835 dall’ottico
Roberto Sacco sulla melodia suonata in una festa in famiglia.
Ritorniamo a parlare solo del
testo della canzone con le seguenti considerazioni.
- E’ invalso l’uso di cantare
solo la prima e la terza strofa, in parte modificata, come in
un’edizione per mandolino o pianoforte dell’editore Bideri, e
più raramente anche l’ultima strofa, tralasciando la seconda e
la quarta.
- Il testo è stato utilizzato
molte volte in opere teatrali e simili, come nel film
l’Accattone di Pasolini, con ottimo effetto, o in sceneggiati
anche TV, con effetto mediocre. Da ricordare un’opera teatrale,
ambientata nel 1911, la guerra di Libia, in cui viene cantata la
canzone, facendo credere che fosse stata scritta per
l’occasione, creando ulteriore confusione nella gente riguardo
alla storia, molto lineare, di questa splendida Romanza.
- E’ stato anche detto che la
canzone (testo e musica) è stata ispirata all’episodio della
Baronessa di Carini, ma non vi è alcun riferimento perché, visto
che i due amanti, la Baronessa ed il Vernagallo, furono uccisi
insieme, l’innamorato non avrebbe mai potuto andare sotto
la finestra dell’Baronessa morta. Inoltre il testo riportato, in
questa tesi, da una verifica linguistica, è databile nella
seconda metà del 1800 (es. starrà invece di stace).
- Il testo della canzone ci
riporta in una epoca ben diversa, quando le notizie di una
persona lontana difficilmente arrivavano, e con forte ritardo,
spesso anche dopo il ritorno della persona stessa. Oggi esiste
una diffusione di notizie impensabile fino al 1830, prima
dell’invenzione del Telegrafo Ottico o a braccia, della Posta ed
il francobollo, del Telegrafo Morse e tutto il resto, per cui è
difficile capire il dramma della Giovane innamorata morta.
All’epoca un marittimo, un soldato andato in guerra, una persona
che partiva per lavoro, se non fosse tornato dopo un certo
tempo, da tre a sei mesi, era considerato morto. Faccio
l’esempio di un Napoletano del 1600 andato a Milano, qualsiasi
sua notizia poteva giungere alla famiglia non prima di 20 giorni
dall’accaduto, sempre se qualcuno la portava.
- La mancanza di notizie del
promesso sposo lo hanno fatto ritenere morto, e la morte della
sua promessa sposa è attribuita al dolore per la morte presunta
dell’amato lontano. Non si sa il motivo della morte della
ragazza. Potrebbe essere stata una banale febbre o una malattia
seria ma, per l’immaginario del quartiere, la causa della morte
è solo il dolore per la mancanza di notizie
dell’innamorato lontano. E’ difficile per tutti accettare la
fine di una giovane vita, per cui si attribuisce la morte a
motivi irrazionali, quali il malocchio, il volere della
Divinità, la pena d’amore per il promesso sposo sempre lontano,
ecc. Questa è la mentalità del popolo, fatalista e privo di una
razionalità culturale.
- Le parole della sorella "Jate
a la Chiesia e la vedite pure, Aprite lo tavuto..”
"Recatevi in alla Chiesa e controllate anche, Aprite la bara….”
A noi del 2000 porta a pensare che sia morta da qualche giorno e
non ancora seppellita, ma le cose non stanno così. I cimiteri
che conosciamo sono stati costruiti dopo il 1806, a seguito
dell’Editto di Saint Cloud, emesso da Napoleone nel 1804, che
vietava le sepolture nelle Chiese e dentro la cinta delle mura
di una città o altro centro urbano. Prima del 1804 i morti in
grazia di Dio, cioè i cattolici non suicidi, venivano seppelliti
nelle cripte della Chiesa del quartiere, ancora oggi visitate
dalle donne devote, il lunedì. Basta andare alla Chiesa del
Purgatorio ad Arco in via Tribunali e verificare. La Chiesa è
bene individuabile perché, all’ingresso delle due scale
laterali, sui mezzi pilastri vi è un teschio con le tibie, in
ottone brunito, in vera arte napoletana del 1700. Nella Cripta,
che ben conosco, vi sono le sepolture citate nella canzone ed i
colombari a vista, in cui sono deposti scheletri ed ossa, tra
cui un teschio attribuito alla “Sposa”,
una giovane promessa sposa morta prima delle nozze, che le donne
devote del quartiere S. Lorenzo ritengono
santa, le tengono accese “’na lampa”, o “’na
vampa”, e le rivolgono anche preghiere per ottenere una grazia.
Sarà questa la fanciulla di “Feneste ca lucive”? Le parole della
sorella lo invitano a verificare che la “Nennella” è morta e
sotterrata, poi può aprire la cassa (lu tavuto), perché
la sepoltura avveniva in posizione fetale, cioè rannicchiata e
verticale, per ottenere una rapida decomposizione e poter
deporre lo scheletro nei colombari comuni e, quindi, liberare la
tomba che occorreva per altri morti. Nella cripta vi erano anche
tombe singole per le famiglie abbienti.
- Da notare la descrizione
della sepoltura, il gusto macabro del 1600, ricorda i quadri del
Caravaggio, tornato poi di moda nel periodo preromantico tra
fine 1700 ed inizio 1800. - Strana, invece, è la vita
dell’autore, il Bellini, una continua fuga in cerca di un amore.
Nato a Catania, ove iniziò a studiare musica, si spostò a Napoli
per studiare da Nicolò Zingarelli. A Napoli visse quattro anni
felici, anche per l’amore di Maddalena Fumaroli, poi, dopo il
rifiuto del padre alle loro nozze, si trasferì a Milano, poi a
Londra ed a Parigi, dove morì all’età di 34 anni. Napoli è stata
la sua vera patria, lo ha accolto bene e lo ha sempre stimato,
gli ha dedicato una Piazza, con Monumento di fronte al
Conservatorio e vicino agli scavi greco-osci, una bella via ed
un Teatro importante. Ho abitato da ragazzo a Piazza Bellini, a
poca distanza dal Teatro e dalla via omonima, ne ho sempre
sentito parlar bene, tanto che ero convinto che fosse del
quartiere, poi studiando musica scoprii, con un po’ di
delusione, che era nato a Catania, che gli ha tributato onori,
ma solo postumi, purtroppo! Bellini non è mai stato un mito, un
simbolo, malgrado le sue opere meravigliose, tra cui la Norma e
la Sonnambula, in cui ritroviamo la melodia di questa canzone.
Conclusioni
La
“Finestra”, parola usata in letteratura, ha il
significato di “Mezzo di comunicazione”. Nelle Città l’individuo
è relegato nella sua abitazione, il suo nido, come si dice in
Ligure- Genovese. I rapporti con gli altri abitanti del
“popolato deserto che è Parigi”, la città come è definita nella
Traviata, avviene per strada e frettolosamente, quasi mai in
casa. La finestra aperta è il segnale della disponibilità a
comunicare, la finestra chiusa è un segnale negativo, indica
l’assenza del padrone, non necessariamente fisica, ma morale. La
finestra è presente in tante poesie e canzoni, ricordiamo
“Fenesta Vascia” del 1500, la famosa “Fenestella ‘e Marechiaro”,
nei titoli, o altre come un elemento determinante, come in “Voce
‘e notte”. E quante finestre troviamo delle ballate di Fabrizio
De Andrè! Il lettore può aumentare l’elenco, tranquillamente,
basta ricordare romanze e poesie.
La
Giovane morta prima delle nozze, la Vergine o
Illibata, è un simbolo di una Divinità benefica, nella cultura
dei popoli indo-europei, gruppo a cui apparteniamo. Nel
Cristianesimo Il culto della Madonna, assente nell’Ebraismo da
cui deriva. è nato per adattarlo alla nostra cultura. La cosa
vale anche per le Sante, quasi sempre vergini. Nella Religione
degli antichi popoli esiste il culto della Luna, la Dea Diana,
la Casta Diva dei Celti, la Regina della Notte o la Vergine
Cacciatrice degli Italici. Anche il nome di Napoli, Partenope,
può derivare da un tempio dedicato a Diana, più che a Minerva,
altra Dea Vergine, il cui culto è di matrice Italiota, cioè
greca. La fantasia popolare idealizza la Vergine, morta “ante
diem” prima delle nozze, è l’idea eterna e “Crepuscolare” delle
“cose che potevano essere e non sono state”. Per le devote del
quartiere, la Sposa della
chiesa del Purgatorio ad Arco è una santa, senza dubbio. Per
memoria, si ricorda che la Donna Sposata, fatta santa, ci
riporta al culto della “Dea Madre” la “Maimona” della
Preistoria, della Cerere romana e, nel Cristianesimo, delle
Madonne Nere, i cui santuari sono sempre su una collina o un
monte.
Appendice
Per chi vuole approfondire,
riporto il testo delle due strofe normalmente cantate, con le
modifiche rispetto al testo originale di cinque strofe, più una
terza, cantata più raramente. Da notare in quest’ultima strofa,
con modificata, le differenze linguistiche (lo anziché lu) che
fanno pensare ad un’aggiunta del primo ottocento.
Fenesta ca lucive e mo nun
luce...
sign'è ca nénna mia stace malata...
S'affaccia la surella e mme lu dice:
Nennélla toja è morta e s'è atterrata...
Chiagneva sempe ca durmeva sola,
mo dorme co' li muorte accompagnata...
Va' dint''a cchiesa, e scuopre lu tavuto:
vide nennélla toja comm'è tornata...
Da chella vocca ca n'ascéano sciure,
mo n'esceno li vierme...Oh! che piatate!
Zi' parrocchiano mio, ábbece cura:
na lampa sempe tienece allummata...
Addio fenesta, rèstate 'nzerrata
ca nénna mia mo nun se pò affacciare...
Io cchiù nun passarraggio pe' 'sta strata:
vaco a lo camposanto a passíare!
'Nzino a lo juorno ca la morte 'ngrata,
mme face nénna mia ire a trovare!...
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