Pensiero Meridiano

 

Il sistema Caltagirone

Dalle sfide al nord industriale alla conquista del sud; dall’acquedotto pugliese ai porti turistici di Sicilia, una storia imprenditoriale emblematica, all’insegna della Roma caput mundi, con tanti lati in ombra.

di Carlo Ruta

Con la sua morte, Gaetano Caltagirone chiude in un certo senso l’album dei ricordi della dinastia romana. Ancora in vita costituiva in effetti l’emblema di un passato, mosso e ingombrante. Altri nomi della famiglia, con strategie affinate, sono entrati in gioco, hanno superato i passaggi più tortuosi del paese, mostrandosi oggi, tanto più oggi, in perfetta linea con i tempi. Con le sue disinvolture, Gaetano ha tracciato probabilmente delle coordinate, forse è stato pure un pioniere, percependo già, per esempio, l’importanza del binomio imprenditoria-giornali. Era tuttavia espressione di un mondo che è andato fuori tempo. Quelli che si sono fatti avanti, durante e dopo, non sono venuti allora a raccoglierne il testimone, ma, soprattutto, a rigettarne l’eredità, dichiarandosi diversi. Ma quanto lo sono nella sostanza? I Caltagirone, lungo i decenni hanno espresso un metodo, che si è tradotto man mano in un sistema di potere, in un ordine di cose. Hanno esercitato un’influenza forte e condizionante sull’informazione, oltre che sulla politica. La loro storia s’intreccia infatti con quella dei tanti giornali che sono finiti nelle loro mani. Hanno fatto quindi scuola. E da tale scuola, forse, ha potuto trarre qualcosa pure Silvio Berlusconi. Oggi fanno capo alla famiglia romana il Messaggero, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia, il Corriere Adriatico, il Nuovo Quotidiano di Puglia, il quotidiano gratuito Leggo, altre testate ancora. I destini degli imprenditori romani restano saldati comunque ai business industriali che più contano, alla finanza, alla borsa, alle sedi del potere reale. E per definirne i modi è il caso di fare, anzitutto, un po’ di storia.

Il passato si è snodato sugli sfondi della prima Repubblica, che i Caltagirone hanno superato abilmente, seppure con qualche danno, legato maggiormente alla vicenda Italcasse: finita, come è noto, con una plenaria assoluzione. Proveniente dalla Sicilia, da Palermo, la dinastia costituiva, già allora, una istituzione della capitale: discretamente protetta dalle circostanze, in grado di contare decisivamente nel teatro dell’economia italiana, e non solo, quando il cemento erompeva su tutte le linee, fino a permeare di sé la finanza e a fare aggio sull’imprenditoria padana del miracolo industriale. Era tuttavia altra cosa, perché del tutto particolare era lo stile, la visione delle cose che animava taluni componenti della famiglia romana, Francesco Gaetano in primo luogo, detto Franco, il quale, cresciuto in relativa sordina nel business delle costruzioni, nei primi anni ottanta ne diventava la mente strategica. L’attenzione mediatica veniva attratta in quegli anni da elementi più mossi della famiglia: da Francesco Bellavista, diviso fra scommesse edilizie e mondanità, come dal più pittoresco Gaetano, pure lui costruttore di rango, su cui circolava un’ampia aneddotica, fino a oggi inesausta. I Caltagirone del tempo, a dispetto delle diversità, che non erano da poco, recavano comunque una comune consuetudine: la contiguità strettissima con il potere politico della capitale, in particolare con la componente democristiana di Giulio Andreotti, che più di ogni altra, in quelle stagioni, andava combinandosi con lo Stato, sullo sfondo di alcuni affari strategici, sui quali aveva peraltro puntato lo sguardo il cronista Mino Pecorelli.

Franco riusciva a fare la differenza in una famiglia che già costituiva un fatto a sé. Volava in effetti là dove solo i più audaci dell’imprenditoria italiana potevano: lungo prospettive capaci di garantire, dopo le disillusioni del decennio settanta, guadagni consolidati, a partire da quelle che combinavano appunto edilizia e finanza. Nei primi anni ottanta, avocava a sé, per farne un ariete a tutto campo, la Vianini Spa, operante su scala globale nel comparto delle grandi infrastrutture. Deciso altresì a giocare risolutivamente la carta di Roma caput mundi, nei primi anni novanta si aggiudicava, in lizza con gli Agnelli, la torinese Cementir, terza società italiana nel settore cementiero. In quella stagione, che vedeva tramontare l’egemonia democristiana sullo Stato, l’imprenditore della capitale entrava quindi, d’impeto, nel top dei potenti del paese, mentre il cugino Gaetano, rientrato in Italia dopo l’assoluzione, riduceva il passo per smarcarsi dalle cronache e da ogni altra possibile attenzione. Per alcuni settori dell’opinione pubblica, serviti dall’informazione amica, o di famiglia, ma non solo, Franco costituiva il Caltagirone migliore. Tale era ritenuto del resto dalla stessa sinistra, quella più istituzionale almeno, per la duttilità e le aperture con cui il costruttore romano si proiettava sul nuovo corso della Repubblica, pure sotto il profilo dell’informazione: offrendo soccorso, per esempio, a giornali di diversa ispirazione, da «Paese sera», contiguo al Pds, al «Sabato», di osservanza andreottiana. Il nuovo re del cemento costituiva in realtà una sfinge, contro la quale perdevano vigore i vecchi paradigmi, giacché dentro le mura di quell’impero, pur con riguardo per la tradizione, andava pianificandosi un futuro di traguardi, di concerto ancora con la politica, ma con approcci differenti.

Come tutta l’imprenditoria del paese, Franco Caltagirone, aveva dovuto fare i conti con una situazione magmatica e imprevista, che aveva finito per sedimentare le politiche berlusconiane. Il suicidio di Raoul Gardini aveva aperto, per certi versi, il rendiconto di un’epoca, che insisteva, un decennio dopo, ancora emblematicamente, con lo scandalo Parmalat di Callisto Tanzi. Venivano incrinati in sostanza miti tenacissimi, a partire da quello che aveva fatto di Milano la capitale morale, oltre che economica, del paese. La cosiddetta seconda Repubblica, nel rimescolare le carte, è divenuta allora lo scenario giusto perché la famiglia romana, pur sempre divisa, potesse consolidare le proprie sfide. Franco Caltagirone non ha fatto partita comune con Berlusconi, né si è posto su quella specie di Aventino che vede arroccati, cauti e dubitanti, alcuni ambiti della finanza e dell’economia reale. Si è mosso nondimeno da protagonista, fedele, ma in modo nuovo appunto, al «rito romano» che la famiglia, per quanto con modalità distinte, aveva sempre osservato. Ha puntato in effetti su una politica duttile, mediana, in grado di spostamenti a tutto campo, ritrovandola infine, nuova di conio ma erede anch’essa di una storia, nel partito di Pierferdinando Casini. Ed è la vicenda di questi anni.

Da quando esordiva come Ccd, l’Unione centrista ha espresso uno stile, con effetti non da poco al sud, dove è riuscita ad esercitare un’influenza di tipo dirigistico su ambiti strategici dell’economia. Facendo tesoro di un certo passato, che non evoca solo l’andreottismo meridionale, ha finito in sostanza per «specializzarsi», investendo con calcolo sui disegni di riequilibrio sollecitati dalla UE, in ambiti come l’acqua, le energie, i rifiuti, le infrastrutture. Ne sono un po’ l’emblema i processi di «modernizzazione» avviati in Sicilia da Salvatore Cuffaro e i grandi appalti che si sono avvicendati in Calabria sotto l’egida di Lorenzo Cesa. Dovrebbero esserne altresì un risvolto, ai livelli più interrati, i business interregionali, garantiti ancora dai contributi UE, testimoniati da Francesco Campanella, già star nascente dell’Unione. Le cronache degli anni zero suggeriscono beninteso che il partito di Casini, nella coalizione di riferimento, ha avuto a che fare con competitori agguerriti, in tutte le aree del Mezzogiorno. La vicenda ondivaga dei Mastella, i tentativi di dar vita a un partito del sud, l’autonomismo di Raffaele Lombardo, dicono quanto sia complessa in realtà la trama degli interessi. A dispetto di alcuni inevitabili rovesci qui e là, come nel caso di Cuffaro, l’Udc regge tuttavia sulle linee essenziali. Avanza altresì nuove pretese. Mentre rilancia infatti, con discrete virtualità, l’idea di un grande centro, non ha esitato a rompere l’accordo con le destre, sempre più ripiegate peraltro, con l’avallo condizionante della Lega, sul dirigismo padano. Franco Caltagirone, mossosi ancora una volta con accortezza, può contare, come è evidente, su un partito sufficientemente romano, che negli attuali frangenti si propone, sotto il profilo degli affari, come un capitale politico fra i più spendibili.

Sollecitato dall’estendersi delle bolle immobiliari, in Italia come altrove, l’imprenditore romano ha percorso l’ultimo decennio con il rovello della diversificazione, che si è tradotta, fra l’altro, in una ulteriore incetta di testate, dal «Messaggero» al «Gazzettino». E in tale quadro gli è venuto naturale rilanciare la sfida al settentrione, con investimenti a tappeto in varie aree, a partire comunque dal nord-est, dove ha trovato un sostenitore veemente nel sindaco di Venezia Massimo Cacciari. Oltre che clamore, gli arrembaggi finanziari alla Bnl e alla Rcs hanno fatto tuttavia la differenza, testimoniando peraltro, di riflesso, quando lo stile del costruttore abbia fatto testo. Più ancora dei cugini, che pure, come nel caso di Francesco Bellavista, non sono rimasti inerti, Franco Caltagirone ha incarnato in effetti il mito della liquidità finanziaria, la forza del contante, del cash, da cui hanno tratto insegnamento, per esempio, quel Danilo Coppola e quello Stefano Ricucci che con pressappochismo hanno condiviso con lui alcuni blitz sulla finanza settentrionale. Gli esiti di quelle vicende, davvero esemplari, sono noti. Se i parvenu non hanno avuto scampo, lasciandosi dietro l’onta del carcere, Francesco Gaetano ha potuto trattare e ottenere, nel 2008, l’ingresso al più potente gruppo di assicurazione in Europa: le Generali. Ha potuto bruciare altresì un ulteriore traguardo, di rilievo non minore, acquisendo una quota di prestigio del Monte dei Paschi, che gli è valsa, in un solo colpo, la vice presidenza del gruppo e la contiguità strategica con alcune multinazionali che, con quote altrettanto significative, recano rappresentanza nel board del medesimo, come, attraverso Axa, la francese Suez Gaz de France, leader mondiale nel business dell’acqua.

L’acqua evidentemente non è un dettaglio. Pure nella vicenda Caltagirone, come è nelle regole di questi tempi, il circuito va chiudendosi con i profitti e le utilities dell’oro blu, giacché proprio questa è la nuova frontiera di Francesco Gaetano, oltre che il punto di ricongiunzione del medesimo con altri esponenti della dinastia. La testa d’ariete è costituita nello specifico dall’Acea, che l’imprenditore romano è riuscito a sottrarre di fatto, con il nulla osta di Alemanno, al controllo del comune di Roma, per farne, appunto, un agile strumento di penetrazione: ben oltre i confini regionali, se si considera che ha già messo radici in Toscana, in Umbria, in Campania, in Puglia. Ma l’Acea non è sola, trovandosi in gioco la Acque Blu Fiorentine, che la famiglia romana controlla tramite la Società italiana per i lavori marittimi, mentre sull’arena del nuovo business, corroborato come è noto da propositi di finanziamenti della UE, che per i prossimi decenni dovrebbero ammontare a circa 50 miliardi di euro, ritorna, con il controllo della storica Acqua Marcia, Francesco Bellavista. Per il gruppo Caltagirone, in particolare per Francesco Gaetano, si profilano allora percorsi di partnership inediti, con risvolti in sede internazionale, mirati comunque a chiudere nel modo più profittevole la corsa alle risorse idriche in Italia, a partire dal centro-sud, dove, ancora, tutto appare in discussione.

La famiglia Caltagirone non poteva pretendere di più, ponendosi in un girone d’affari che insiste a progredire pure in tempi di crisi. Ha dovuto fare i conti beninteso con gli stranieri, che recano motivi per far pesare il loro status in sede internazionale. Ma li ha fatti secondo tradizione. Nel panorama italiano Suez costituisce un fatto consolidato, in competizione con Veolia e la spagnola Aqualia, venute a patti a loro volta con altri protagonisti del cemento: dai Pisante di Puglia, proprietari di Galva, al siciliano Pietro De Vincenzo. In ogni caso, nell’accordarsi, Francesco Gaetano è stato risoluto nel non cedere il passo. Con pienezza riesce a dirigere infatti le politiche di Acea, di cui possiede solo il 7 per cento, quando la multinazionale francese ne detiene una quota di molto superiore. Fedele alla propria storia, Caltagirone propone in realtà strategie di attacco che possono ben meritare la condivisione di Gaz de France, come nel caso di Acquedotto Pugliese, già amministrato dal Tesoro, che il costruttore, proprio attraverso Acea, intende trarre a sé, di concerto con il partito di Casini e alcuni interlocutori forti, divisi fra Pd e Pdl. Si tratta della struttura più grande d’Italia, in grado di rifornire di acqua più regioni. Per guadagnare terreno nel Mezzogiorno l’operazione pugliese, rimasta fino a oggi senza esito per l’opposizione tenace della giunta regionale, può essere assunta quindi come strategica.

Si tratta di una vicenda sintomatica, dei modi in cui i Caltagirone sono andati posizionandosi al sud, in senso lato. È opportuno definire allora, da una prospettiva esemplare, quanto è avvenuto di nuovo e di diverso. Con le politiche di integrazione UE, l’introduzione dell’euro, l’avvicendarsi delle privatizzazioni, con l’avvento infine della crisi globale, che sta influendo non poco sui destini economici del Mediterraneo, pure nell’ambito della famiglia romana si proceduto a sensibili cambi di paradigma. E nel fluire di tali aggiustamenti una considerazione inedita è stata riservata alla Sicilia. È la storia di questi anni, all’insegna di una incalzante occupazione, che è stata pianificata soprattutto, in sintonia con gli spostamenti Franco, da Francesco Bellavista, attraverso il gruppo Acqua Marcia, di cui ha assunto da oltre un decennio la leadership. Il Caltagirone ha fatto business a tutto campo, a partire dall’industria turistica. A Palermo, ha avocato a sé Villa Igea e il Grand Hotel des Palmes. A Taormina ha acquisito il San Domenico. A Catania sta trattando l’acquisizione della Perla Jonica, già proprietà del costruttore Costanzo. Gli affari più vistosi, legati ancora al turismo elitario, riguardano comunque le strutture portuali. Sotto l’egida di Acqua Marcia vanno allestendosi infatti scali turistici a Siracusa, Catania, Mazara del Vallo, in altre località della costa sud. Ma quale è il significato di tali operazioni?

L’imprenditore, che, significativamente, è stato insignito dall’ateneo catanese di una laurea honoris causa, ha visto bene, giacché le cose nel Mediterraneo evolvono in modo vertiginoso. Gli accordi che sono seguiti al patto di Barcellona del 1995 hanno modificato gli scenari complessivi, con l’apertura di numerose aree di scambio. Tangeri, sede di una Free Zone fra le più nevralgiche, si appresta a divenire il primo porto d’Europa e uno dei maggiori al mondo. La sponda nordafricana, ancorandosi a India e Cina, ha reagito in modo esemplare ai rovesci finanziari che hanno sconvolto l’Occidente. In gran parte dei paesi del Maghreb, oltre che del Vicino Oriente, ancora dopo i rovesci di Dubai, che pure hanno influito non poco sui trend, il saldo del PIL è rimasto infatti positivo. Le sollecitazioni al protezionismo appaiono in sostanza esigue e sormontabili. Francesco Bellavista ha motivo allora di scommettere su una Sicilia che di qui a pochi anni, a partire soprattutto dalla costa meridionale, potrà essere utilizzata come una straordinaria pedana di lancio in direzione del Nord Africa, in tutti i sensi. Francesco Gaetano, più dotato di senso strategico ma attento all’estro del cugino, per adesso non si esprime, mantenendo nell’isola una presenza sottintesa, che nella vicenda delle acque potrebbe essere rilevabile da alcuni passaggi dell’avvocato Luigi Pelaggi, membro dal 2009 del Cda di Acea, già incaricato dal governo a gestire l’emergenza idrica nelle Eolie. Tutto lascia pensare comunque che pure il Caltagirone più facoltoso e quotato stia disponendosi, come è nel suo stile, a puntate decisive.

Fonte: domani.arcoirs.tv

Recessione e mafie - 3

L’Africa e le vie della droga

di Carlo Ruta

Più di qualsiasi altra parte del globo, l’Africa evoca calamità e regressioni militari, nondimeno costituisce, oggi più che in passato, un mondo eterogeneo, anzitutto sotto il profilo economico. Se l’immensa regione centrale, di cui è emblema Korogocho, la “favela” più popolosa del mondo, rimane infatti irriducibilmente povera, l’intera fascia settentrionale va progredendo, agganciandosi addirittura al trend di paesi come India e Cina, che in questo momento, come detto, fanno argine alla recessione. Tutte le regioni continentali sono comunque accomunate da un fenomeno in crescendo, la domanda di narcotici: dalla cannabis che, secondo l’Unodc, copre il 63 per cento dei consumi continentali di droghe, alla cocaina, che copre in Africa il 20 per cento della domanda globale. Tenuto conto delle enormi sacche di povertà del continente, tutto questo può apparire paradossale. Testimonia comunque quanto il narcotraffico possa discostarsi dalle logiche della normalità economica, in taluni casi fino a sovvertirle, traendo vantaggio da emergenze di ogni tipo.

Nel contesto di una economia globale che ha aperto a inedite e impetuose colonizzazioni, su questo continente il narcotraffico ha puntato in modo strategico. I cartelli sudamericani hanno avocato a sé territori importanti, fino a farne appunto un mercato in crescita. Ma hanno fatto di più, aprendo in Africa un corridoio relativamente sicuro per l’introduzione della coca in Europa. Dalle coste del Brasile, la polvere bianca, proveniente dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia, attraversa l’Atlantico per approdare lungo le coste dalla Guinea Bissau e della Sierra Leone. Dopodiché, fatte salve le partite riservate al consumo continentale, risale lungo varie piste, che possono interessare la Mauritania, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Niger, il Ciad, per raggiungere le coste mediterranee del Nord Africa, dal Marocco alla Tunisia, dove viene imbarcata su navi di piccolo cabotaggio e pescherecci diretti in Spagna, in Italia, in Grecia, nelle coste balcaniche. I numeri che vengono proposti dall’Unodc, ricavati dalla curva dei sequestri nell’ultimo decennio, appaiono già considerevoli. Si ritiene infatti che circa la quarta parte dei carichi di narcotici introdotti in Europa dal Sud America segua la rotta africana. Tale stima, che si fonda appunto su certificazioni territoriali, potrebbe essere tuttavia poco indicativa, per difetto, almeno per due ragioni. La prima è politica. Allo stato delle cose è verosimile che determinati paesi vadano rendendosi permeabili al commercio di droghe. La seconda è di terreno. Le aree desertiche del nord, in cui transitano quantitativi importanti di narcotici, sono troppo estese per poter essere sottoposte, laddove pure si volesse, a controlli significativi.

I narcos non sono stati beninteso i soli a puntare sul continente. Seppure con circospezione, si sono mobilitati pure ambienti dell’oppio del sud-ovest asiatico, ravvisando un terreno idoneo nella regione orientale, ma soprattutto nel Corno d’Africa, con la garanzia di una guerra civile endemica che dal 1993 ha reso l’area fuori controllo. È andata delineandosi così un’attività composita, divisa fra interessi interni ed esterni, che vede in causa boss afgani, reti fondamentaliste, clan militari somali, perfino le piraterie del Golfo di Aden. E tale stato di cose, pure per le saldature che rischia di avere con altre situazioni continentali, lascia prevedere risvolti non da poco. Va considerato peraltro che quasi l’intera Africa brulica di traffici, di affari eterogenei, mentre in diversi paesi si rendono più sostenuti i disegni di far da sé, di realizzare cioè in via del tutto autonoma l’intero ciclo delle droghe, dalla produzione al rifornimento dei mercati, locali e non solo. Si tratta di focalizzare allora tale processo, che reca peraltro una tradizione importante nel Marocco: ancora oggi fra i primi produttori al mondo di cannabis.

Il Rif, regione montuosa del Marocco settentrionale, sin dagli anni settanta costituisce una immensa distesa di canapa indiana, sostenuta soprattutto dalla richiesta europea. Come il Sud America e il Triangolo d’Oro, ha coniugato e insiste a coniugare quindi povertà e ricchezza fino al paradosso. Al livello più basso stanno intere popolazioni contadine, che traggono dalle coltivazioni solo il minimo per sopravvivere. In alto risultano i boss, marocchini, turchi, tunisini, spagnoli, italiani, che muovono l’affare, proiettando l’hashish lungo i continenti che chiudono il Mediterraneo. Negli ultimi tre anni la situazione è mutata. Le leggi del governo di Mohammed VI, indotte dall’Onu, sono divenute più severe. Numerose piantagioni dell’area sono state distrutte. I rilievi ufficiali dell’Unodc stimano addirittura nel 50 per cento la riduzione delle superfici coltivate. Ma tutto questo significa poco. La cannabis viene riconosciuta ancora oggi come la droga più coltivata al mondo, ma soprattutto la più richiesta. In Africa, dove è preponderante l’offerta del Rif, è, come si diceva, allo zenit, coprendo il 63 per cento dei consumi continentali di narcotici. Il dato più rappresentativo continua a venire comunque dalla sponda nord del Mediterraneo. I sequestri effettuati negli ultimi anni in Spagna, Italia, Francia, Grecia, in altri paesi europei, testimoniano infatti che la marijuana prodotta in Marocco, a dispetto degli interventi delle autorità pubbliche, rimane in tali aree la più diffusa.

Il presente dell’Africa non è tuttavia la sola tradizione del Rif: che in termini di commercio clandestino risale almeno al secondo dopoguerra. È anche altro. È soprattutto la Nigeria, dove il narcotraffico è gestito da una mafia locale, fortemente connotata in senso etnico, divenuta di fatto la più coesa su scala continentale: in grado di tenere testa quindi a quella turca sulle rotte che si diramano dal Mediterraneo. Particolarmente attivi dagli anni ottanta, quando il paese fu scosso dalla crisi del petrolio, i nigeriani hanno potuto godere nell’ultimo decennio di una rendita strategica. Con l’aprirsi delle rotte africane, il territorio da cui muovono è divenuto infatti un crocevia del narcotraffico globale. Incombe sulla Guinea Bissau, chiudendo il golfo in cui sbarca la coca dei narcos. Occupa lo stesso parallelo del Corno d’Africa, dove transitano gli oppiacei da Oriente. Se nei primi periodi i boss centro-africani si sono limitati allora a chiedere l’obolo o reclamare forme minime di partnership, con il tempo si sono meglio organizzati, elaborando un metodo. Per conto dei sudamericani, controllano oggi il traffico di coca continentale e una parte non indifferente di quello europeo. Hanno dato avvio a coltivazioni di papavero, seppure in una misura discreta, mentre continuano a garantire, ai loro facoltosi contraenti, i percorsi dell’oppio afgano. Infine, là dove è possibile, fanno gioco a sé, incentivando soprattutto la coltivazione e la lavorazione della canapa, tanto da rendere il paese africano, un po’ sulle orme del Marocco, uno fra i maggiori esportatori di marijuana e hashish.

Come interagisce allora la recessione di oggi con tale stato di cose, nel continente? È il caso di esaminare alcuni aspetti generali. La crisi in Africa, come danno conto gli allarmi lanciati da numerose organizzazioni, sta avendo ripercussioni sociali pesantissime. Il 2009 si chiuderà, secondo Jean Ping, presidente dell’Unione Africana, con 27 milioni di nuovi disoccupati. In aggiunta, i prezzi dei beni primari stanno aumentando in modo esorbitante, con l’effetto di una carestia che le popolazioni, già provate da piaghe ataviche, non sono in grado di fronteggiare, tanto più nei paesi sub-sahariani. Vanno accendendosi quindi tensioni che rischiano di alimentare l’instabilità politica, già notevole, e gli scontri fra etnie. Si è entrati insomma nel tunnel di una emergenza che, come denuncia Amnesty International in un rapporto del maggio 2009, rende l’intero continente una polveriera pronta ad esplodere. In questo clima un peso crescente sta assumendo comunque la questione delle droghe. Nessun risultato statistico, beninteso, può attestare che negli ultimi mesi il traffico e il consumo di tali sostanze nel continente siano alimentati dalla crisi. Esistono nondimeno situazioni di cui va preso atto, a partire dalle aree cruciali del narcotraffico, dove proprio in questi frangenti si registrano evoluzioni drammatiche. 

In Guinea Bissau è in atto una strategia di delitti che ha assunto il significato di un golpe. Il 2 marzo 2009 è stato ucciso, per mano militare, il presidente Joao Bernardo Vieira, che aveva guidato il paese per 23 anni. A giugno, poco prima delle elezioni, sono stati assassinati: Baciro Dabo, maggiore candidato alla successione; Helder Proença, già ministro della Difesa e stretto collaboratore di Vieira; Faustino Fudut Imbali, primo ministro dello stato africano dal marzo al dicembre 2001. Un altro candidato alla presidenza è stato indotto invece a ritirarsi, per salvare la vita. Le movenze sono quelle di una guerra intestina sul terreno dei narcotici, su cui, oltre le apparenze, hanno puntato con abbondanza tanto i dignitari di Vieira quanto i militari che adesso tengono il gioco. Tutto richiama quindi i cartelli sudamericani, determinati, con i loro contraenti del Golfo, a bruciare i tempi della conquista continentale. Tale situazione appare altresì coerente con quella della confinante Guinea Conakry, dove il 23 dicembre 2008, dopo l’annuncio della morte del presidente Lansana Conté, che aveva mantenuto il potere per 25 anni, si è insediata una giunta militare golpista, guidata dal capitano Moussa Dadis Camara. Il canovaccio è uguale. Il regime di Conté, come si evince da numerosi rapporti, a partire da quelli della Lega guineense per i diritti umani, era sceso a patti con il narcotraffico. La giunta di Camara fa altrettanto, ma con più metodo, malgrado ostenti di aver dichiarato guerra alle droghe.

Gli effetti della connessione afro-sudamericana si fanno in sostanza sempre più preoccupanti. Se ne trova riscontro quindi nelle prese di posizione che vanno sommandosi a tutti i livelli. Di ritorno dal Golfo, Mary Carlin Yates, direttrice della DEA, l’agenzia antidroga dell’FBI statunitense, ha dichiarato che il traffico di narcotici, già gigantesco, sta crescendo ancora, con il rischio di destabilizzare ulteriormente gli stati della regione. Jean Ping, che esprime per certi versi l’opinione generale del continente, ha aggiunto che il narcotraffico di stanza in Guinea e in Sierra Leone sta mettendo a rischio la pace non solo dell’area, ma dell’Africa intera. E del medesimo avviso, sulla scorta di dati tratti dagli uffici di polizia, è il ministro dell’Interno colombiano Fabio Valencia Cassio, trovando la colonizzazione africana dei narcos in netta progressione. Un dettaglio della situazione sul terreno, dall’epicentro della Guinea Conakry, viene offerto comunque dal capitano Moussa Tiégboro, ministro della giunta militare che dovrebbe combattere i narcos: in tutto il paese, a dispetto dei livelli di povertà, fra i più alti su scala continentale, anche le tossicodipendenze sono in aumento.

In modo ugualmente severo sta evolvendo la situazione del Corno d’Africa. Il consumo di Khat, la cui coltivazione costituisce per gran parte delle famiglie contadine l’unica risorsa per sopravvivere, come del resto in Kenia, in Etiopia e altrove, continua a diffondersi con ritmi ascendenti. Prova ne è che nella sola Somalia tale droga muove un giro d’affari di circa 70 milioni di dollari l’anno, più di quanto ne registrano in bilancio gli stati più poveri della regione. Insieme con l’eroina dell’Afganistan, che viene irradiata appunto in tutto il continente e oltre il Mediterraneo, continua ad alimentare quindi i conflitti territoriali. Le ripercussioni sul terreno sono sempre più devastanti, con saldature tattiche fra clan militari, narcotrafficanti dell’oppio, reti terroristiche islamiche, mentre lo stato di indigenza e i disagi della guerra sempre più vanno traducendosi in progressi dell’Aids e in violenza. Un effetto clamoroso di tale impasto fra guerra, povertà e droghe è la pirateria del Golfo di Aden che, dopo decenni di relativa sordina, si trova in piena recrudescenza. L’esercito dei nuovi bucanieri, impinguatosi di anno in anno, con picchi recenti del 200 per cento, conta oggi su circa 2 mila unità. Ha rinnovato strategie e metodi operativi, traendo quanto gli occorre dai sequestri, ma pure dall’eroina e dal Khat. È andato dotandosi altresì di armi sofisticate, tecnologie, mezzi logistici, mettendo a frutto gli accordi che è riuscito a cucire, lungo gli anni, con i mujahedin e i signori della guerra di Mogadiscio. Si tratta uno scorcio beninteso, sullo sfondo dei conflitti dimenticati e del narcotraffico. Quanto accade nel Golfo esemplifica tuttavia i caratteri di una emergenza che si è resa debordante, a dispetto della decisione dell’Africom, a guida statunitense, di intervenire nell’area. La denuncia che viene da numerose sedi, ufficiali e non solo, è del resto unanime: la faglia del Corno d’Africa rischia oggi di far saltare gli equilibri residui dell’intero continente, al pari di quella delle Guinee ma forse più ancora, perché acutizzata appunto da guerre senza fine.

Fonte: domani.arcoiris.tv

Recessione e mafie - 2

Le nuove frontiere del narcotraffico

di Carlo Ruta

Fin qui emerge un dato di fondo. In tutti i continenti, negli ultimi decenni le economie di origine illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste, correlandosi alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È andato stabilizzandosi per ciò stesso il raccordo delle mafie con i maggiori business, dalla speculazione immobiliare all’industria dei metalli, dalle energie naturali e rinnovabili all’acqua. Le classifiche di Forbes, che hanno visto scalare un gran numero di magnati dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che autentici gangster, ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire tuttavia scenari nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti nelle economie clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di armi, le tratte degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero essere non da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali traffici su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai governi. A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni sovranazionali, a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni novanta ha sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di sostanze stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù e Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in cambio di aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di crisi? I dati che vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni, a partire appunto dal narcotraffico.

I ritmi di modernizzazione, più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito per incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici. Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con snodi particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano le cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare un capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti i paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire a vari livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per poter comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione del medesimo. Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto concordanti con i numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc, Ufficio dell’Onu che sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono significativi.

Nel Sud America, capoluogo strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita. Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni di persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua però a progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo le Ande vanno estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi. La produzione di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le regioni aumenta infine il consumo di narcotici, mentre migliorano le facoltà di produzione di droghe sintetiche. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nel marzo 2009 dalla Latin American Commission on Drugs and Democracy, diretta da Fernando Cardoso, già presidente del Brasile, César Gaviria, già presidente della Colombia, Ernesto Zedillo, già presidente del Messico. È quanto affiora altresì da ricerche specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico dell’associazione Libera, un team di economisti delle università di Bologna e Trento è intervenuto sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30 mila dati, oggettivi, tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha concluso che nel 2008 sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500 tonnellate di cocaina, a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.

A dare conto delle cose sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute a tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla Colombia grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande, spesso con vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi inauditi, malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza Lula. In Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata registrata nel 2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di droga, mentre in Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi, nello stesso anno, è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore cioè alla media mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha potuto dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più della crisi economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc, Antonio Maria Costa, tali soprassalti di violenza proverebbero che il mercato della cocaina nei paesi latino-americani va contraendosi. In realtà la storia delle mafie, dalla Chicago anni trenta alla Palermo anni settanta, dalla Colombia degli anni ottanta alla Russia degli anni Duemila, indica che gli scoppi di tensione, pur originati da contesti di crisi e di rottura, recano spesso logiche e significati del tutto differenti, correlandosi con poste in gioco che, proprio in determinati frangenti, anziché ridursi, si fanno più attraenti e remunerative.

Alla luce dei fatti, la situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene conto delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi in tante sedi, pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government Accountability Office la guerra ai narcos sudamericani viene presentata come persa, con l’avallo del vice presidente degli Usa Joe Biden, a fronte dei miliardi di dollari che le precedenti amministrazioni hanno erogato ai paesi produttori. L’Office National Drug Control Policy suggerisce quindi svolte radicali, in senso strategico, a dispetto dei freni che permangono negli States. Il convincimento di una partita persa, che un recente sondaggio ha visto condiviso dal 71 per cento degli statunitensi, si fa largo altresì in America Latina, dove con forza sempre maggiore viene reclamata la sostituzione del paradigma, repressivo dalla produzione al consumo, che finora ha ispirato la lotta al narcotraffico. La Commissione di Cardoso, Gaveria e Zedillo ne indica uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di droghe come problema di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi. E su tale linea convergono associazioni e altri alti esponenti della politica, come l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più espressamente, di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non mancano del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato colombiano, con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre insiste nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche, per contrastarne il traffico illegale.

In definitiva, il business delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non si tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi in ogni altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo a imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde, di capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri a dispetto della war on drugs.

La recessione in Asia va esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda, interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni, stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est, dal Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo che ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni in più di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi hanno fatto argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù pure dei cambi monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con una vistosa riduzione dei ritmi di crescita. Eppure le economie della droga, lungo tutto il continente, stanno mostrando di non temere la crisi. Come in America Latina, contano anzitutto sull’abbondanza del prodotto base: nel caso, sulle coltivazioni di papaveri da oppio che ricoprono l’Afghanistan, la Birmania, il Laos, la Thailandia, il Nepal. L’Onu ha conseguito beninteso dei risultati, soprattutto in Laos e in Birmania, dove nel 2008 sono andate distrutte piantagioni per migliaia di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben lontani da annunciare svolte, tanto più se si considera che sono gli stati stessi, interlocutori delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il tornaconto, diretto o indiretto, che recano nel business, dal traffico in senso stretto al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in Birmania sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano comunque di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su scala continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle medesime. Non è poco, evidentemente.

Le amfetamine e le metamfetamine contano oggi su una produzione distribuita in tutti i continenti. E ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode edonistiche, dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal disagio, dal deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici ne sono divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione del prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di consumo nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri un’area di forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata ai gruppi che trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani, cinesi. Lungo tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero territorio del Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono prodotte, in quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di una variante detta ketamina, destinate in buona misura all’estero. Quale può esserne la logica, in una terra che abbonda fino all’inverosimile di papaveri da oppio? Di certo, non è la prova che le droghe tradizionali stiano entrando in crisi, perché il consumo di oppiacei, di eroina in particolare, nei primi mercati al mondo, l’Europa e il Nord America, proprio non demorde. Potrebbe essere invece l’esito di una studiata diversificazione, legata a un orizzonte di domanda che va ampliandosi, con esiti sempre maggiori nei paesi in via di sviluppo, in favore delle droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni caso che le economie degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono essere mosse da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni asiatiche le cose vanno appunto in tale direzione.

Un caso emblematico è quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per gli stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il controllo ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì che i grandi deserti della penisola divenissero corridoi di transito degli oppiacei da Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano l’Afghanistan alla Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia. Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia in modo dirompente. L’Arabia Saudita risulta essere uno dei paesi in cui più vengono prodotti e si consumano droghe sintetiche, soprattutto ecstasy e amfetamine del tipo captagon. Prova ne è che nel 2007 ne sono stati sequestrati quantitativi record, pari a un terzo di quelli scoperti globalmente, a fronte dell’1 per cento registrato lungo il perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma in una misura discreta pure le tradizionali, dal momento che le sfere di produzione e di distribuzione di massima coincidono, stanno intaccando insomma le frontiere più solide dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che vanno emergendo, c’è motivo di ritenere che la recessione, pur trattandosi di aree ben compensate dalle economie del petrolio, stia alimentando tale trend.

Vanno giocandosi in sostanza due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato stabile, che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto più nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto. Il mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe, si manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce, in grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili. Le mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore delle aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione e innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui la coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca un mondo strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano appunto un continuum, un’offerta articolata, convergono, come si è detto, interessi molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani, thailandesi. È decisiva comunque l’influenza delle Triadi cinesi, egemonizzate dalle compagini di Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo gli accordi che le medesime hanno concluso con Khun Sha, che nel Triangolo d’Oro fa ormai da decenni le regole dell’oppio, forte di un esercito personale di 8 mila uomini. Il quadro degli interessi, per quanto diviso sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se i potentati militari del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State Army birmano, usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le linee dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi territoriali, sono in grado di animare scenari ben più ampi.

Non è possibile definire beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione in questo particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici da Oriente appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con guadagni aggiuntivi per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per le mafie potenti che hanno scortato i transiti dell’oppio: da quella russa, che con il narcotraffico ha costruito imperi, oggi stimati e quotati nelle maggiori Borse internazionali, a quella turca, che si potrebbe candidare a nuovi ruoli. È il caso di soffermarsi su questo punto. I boss turchi hanno recato sempre una posizione di prim’ordine lungo le vie dell’eroina che dal sud est asiatico puntano in Europa, attraverso i Balcani. Forti della loro posizione mediana, hanno stretto relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno stabilito basi in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche dell’Asia Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni dell’Asia sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo Persico, mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il Mediterraneo, che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di Ankara in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come, probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è possibile rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle regioni, penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono registrate mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto, facoltà logistiche possano competere con quelle turche.

In definitiva, non sembra che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista, sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno in affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni di conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro cicliche in determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe è invece la capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale inimicizia fra le Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie asiatiche a darne esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una integrazione sufficiente. Va preso atto d’altronde che i signori della droga si sono dimostrati previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi, diversificando, delocalizzando, puntando alla conquista di nuove aree, di produzione e di consumo, stabilizzando infine i mercati fondamentali, con ogni sorta d’incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la conquista, pianificata dai sudamericani e non solo, di un intero continente, che era rimasto a lungo marginale nei traffico di narcotici: l’Africa.

Fonte: domani.arcoiris.tv

Inceneritori di Sicilia. Le oscurità di una società milanese e i danni possibili di un subappalto da record

Rifiuti in Sicilia. Le prospettive di un affare da cinque miliardi di euro.

Logiche di un potere siciliano. L’Arra di Felice Crosta.

Il business del secolo in Sicilia

Acqua, un affare che scotta

Come gruppi economici e consorterie territoriali stanno appropriandosi delle risorse idriche di una regione che possiede tanta acqua mentre, per paradosso, ne patisce endemicamente la mancanza. La presenza discreta della multinazionale spagnola Aqualia. Le strategie della società catanese Acoset. L’anomalia del sudest.

In Sicilia i processi di privatizzazione dell’acqua che vanno dipanandosi negli ultimi anni si raccordano con una tradizione composita. Se si dà uno sguardo alla storia post-unitaria, si constata infatti che l’accaparramento delle fonti, delle favare per usare il termine di derivazione araba, ha scandito con regolarità l’evoluzione legale e illegale dei ceti che hanno esercitato dominio sull’isola. Il controllo delle acque ha consentito di lucrare rendite economiche e posizionali importanti, di capitalizzare, di chiamare a patti le autorità pubbliche, di condizionare quindi gli atti dei municipi, degli enti di bonifica, di altre istituzioni. E il canovaccio di tale affare, di rilievo appunto strategico, ancora oggi rimane tale, benché si faccia uso di strumenti e progettazioni non più a misura di un mondo agrario più o meno statico, ma di una realtà in profonda evoluzione, sullo sfondo delle economie globali. Si tratta di comprendere allora i modi in cui si coniugano oggi i due elementi, innovazione e tradizione, a partire comunque dal dato che anche in Sicilia si vive al riguardo un passaggio epocale, dopo il lungo tragitto delle aziende municipalizzate, che sempre e comunque hanno dovuto fare i conti con i signori delle fonti.

Nel quadro dei processi generali che hanno reso l’acqua una risorsa economica, una merce, che chiama in causa multinazionali potenti come Suez, Vivendi, Impresilo, RWE, la legge Galli del 5 gennaio1994 sugli ambiti territoriali ottimali, ATO, ha segnato una svolta rispetto al passato, puntando a eliminare la frammentazione che fino a quel momento aveva caratterizzato la gestione idrica nel territorio nazionale. Pur sottolineando sin dall’incipit il rilievo dell’acqua quale bene pubblico, ha posto nondimeno le basi per l’irruzione dell’interesse privato nella gestione dei servizi idrici degli ATO, con il ricalcolo di tale risorsa sotto il profilo economico. E tutto questo, se, come si diceva, non poteva non sommuovere, in senso lato, l’interesse della grande finanza, come testimonia negli ultimi anni il coinvolgimento di banche come l’Antonveneta, la Fideruram e altre ancora, ha finito con il sollecitare una pluralità di interessi, con l’esaltare anomalie esistenti e generarne di nuove, specie nel sud della penisola e in Sicilia, dove l’economia più di altrove è inficiata da mali strutturali, dove vigono appunto tradizioni tipiche, che rendono ineludibile l’ipoteca delle consorterie.

La posta in gioco in Italia è ovviamente altissima, potendo comprendere, fra l’altro, gli ingenti finanziamenti a fondo perduto che l’Unione Europea ha destinato a tali ambiti, perché vengano eliminati i gap che interessano il paese. Tanto più lo è comunque in regioni in cui le strutture e gli impianti esistenti scontano deficit strutturali, consolidatisi lungo i decenni. È il caso della Sicilia, dove l’EAS e le municipalizzate hanno gestito regolarmente impianti obsoleti, dove quasi tutti gli invasi recano vistosi segni d’incuria, le infrastrutture restano esigue, le condutture fatiscenti e in una certa misura da rifare. Il progetto di privatizzazione nell’isola ha potuto quindi fregiarsi di un obiettivo seducente, quello della modernizzazione dei servizi idrici che, dopo anni di attesa interlocutoria, è stato agitato come una sorta di rivoluzione dal governo regionale di Salvatore Cuffaro. E dal decisionismo, sufficientemente mirato, del ceto politico di cui l’ex presidente conserva in una certa misura la rappresentatività, corroborato comunque dai trasversalismi che insistono a connotare la vicenda pubblica nella regione, ha preso le mosse, negli ultimi anni, una sorta di caccia all’oro.

L’affare dell’acqua reca in Sicilia dimensioni inedite. Sono in gioco infatti 5,8 miliardi di euro, da amministrare in trenta anni, con interventi a fondo perduto dell’Unione Europea per più di un miliardo di euro. Dopo un primo indugio, dettato presumibilmente da ragioni di cautela, che ha visto comunque diverse gare andare a vuoto, la scena si è quindi movimentata, con l’irruzione di importanti realtà economiche, interne all’isola ed esterne. Una fetta cospicua dell’affare è stata avocata dalla multinazionale francese Vivendi, socia di maggioranza della Sicilacque spa, che, dopo la liquidazione dell’Ente Acquedotti Siciliani, ha ereditato la gestione di 11 acquedotti, 3 invasi artificiali, 175 impianti di pompaggio, 210 serbatoi idrici, circa 1.160 km di condotte e circa 40 km di gallerie. In diverse ATO si è già provveduto, altresì, alle assegnazioni. Nell’area di Caltanissetta si è imposta Caltaqua, guidata dalla spagnola Aqualia. A Palermo e provincia ha vinto il cartello Acque potabili siciliane, di cui è capofila Acque potabili spa, controllata dal gruppo Smat di Torino. Nell’area etnea la guida del Consorzio Ato Acque è stata assunta dalla catanese Acoset. Ad Enna ha vinto Acqua Enna spa, comprendente Enìa, GGR, Sicilia Ambiente e Smeco. A Siracusa vige la gestione mista della Sogeas, che vede presenti, con l’ente municipale, la Crea-Sigesa di Milano e la Saceccav di Desio. Ad Agrigento è risultata aggiudicataria la compagine Agrigento Acque che fa capo ancora ad Acoset. Negli altri ATO le gare rimangono sospese.

È la prima fase ovviamente, quella dei grandi appalti, che è preoccupante non solo per la virulenza con cui i poteri economici incalzano e mettono in discussione le istanze della democrazia, degradando un bene comune qual è l’acqua a merce, ma, di già, per i modi in cui evolvono le cose, in ossequio appunto a una data tradizione. In relazione più o meno diretta con grandi società estere e italiane interessate all’affare Sicilia, vanno muovendosi infatti ambienti economici discussi, a partire dai Pisante, le cui imprese risultano inquisite dalle procure di Milano, Monza, Savona e Catania per una varietà di reati: dal pagamento di tangenti all’associazione mafiosa.

Già coinvolta nell’isola in vicende legate agli inceneritori, tale famiglia si è mossa con intenti strategici. Si è inserita, tramite la controllata Galva spa, nel raggruppamento guidato da Aqualia, per la gestione idrica nel Nisseno. Partecipa con un buon 8,4 per cento alla società aggiudicataria nel Palermitano, Acque potabili siciliane spa. Tramite le società Acqua, Emit, e Siba detiene una discreta quota azionaria di Sicilacque che, come detto, ha rilevato dall’EAS il controllo delle grandi risorse idriche regionali. Ancora per mezzo della Galva partecipa altresì alla compagine vincente nell’Agrigentino, Girgenti Acque, di cui è capofila Acoset, che con Aqualia ha concorso in varie province. Ha invece perso nel Catanese, perché, l’AMGA spa, capofila della compagine entro cui correva, in competizione con Acoset, per l’aggiudicazione dell’ATO 2, è stata esclusa dalla gara.

Nelle mappe dell’acqua assumono altresì rilievo due noti imprenditori siciliani: l’ingegnere Pietro Di Vincenzo di Caltanissetta e l’ennese Franco Gulino, che vanno facendo non di rado gioco comune, pure di concerto con i Pisante. Il primo, cui sono stati confiscati beni per circa 300 milioni di euro, ha assunto la gestione dei dissalatori di Trapani, Gela, Porto Empedocle, Lipari e Ustica, indubbiamente strategica. È stato l’unico offerente nella gara per la gestione idrica di Trapani, poi sospesa. In competizione con le imprese di Caltaque, ha corso altresì per l’appalto ATO di Caltanissetta, dentro la compagine NissAmbiente, che comprendeva pure l’Altecoen di Franco Gulino. Quest’ultimo poi. Proprietario di un gruppo di quaranta società operanti in diverse regioni italiane, con interessi pure in Sud America, è stato rinviato a giudizio a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa, per l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, che tramite l’Emit ha coinvolto pure i Pisante. Con l’Altecoen, che la stessa Corte dei Conti siciliana ha definito nell’aprile 2007 un’azienda “infiltrata dalla criminalità mafiosa”, si è introdotto nell’affare dei termovalorizzatori, per uscirne con ingenti guadagni. Ancora tramite l’Altecoen, è stato presente nella Sicil Power di Adrano, insieme con la DB Group, presente nei raggruppamenti guidati dalla catanese Acoset.

Tutto questo definisce evidentemente un ambiente, che fa da sfondo peraltro a fatti e atteggiamenti ancor più preoccupanti. Si tratta del lato più oscuro del processo di privatizzazione, di cui emergono un po’ le coordinate nelle dichiarazioni di un reo confesso, Francesco Campanella, ex presidente del consiglio municipale di Villabate, sulla costituzione del consorzio Metropoli Est, finalizzato al controllo delle acque in alcuni centri del Palermitano. Fatti sintomatici si rilevano comunque in quasi tutte le aree dell’isola: dall’Agrigentino, dove i sindaci di Bivona e Caltavuturo hanno denunciato le logiche dubbie invalse negli appalti di manutenzione, a Ragusa, dove sin dagli inizi della vicenda ATO è stato un crescendo di atti intimidatori. E si è ancora agli esordi.

In linea con le consuetudini, vanno delineandosi in sostanza due livelli: quello della gestione idrica in senso stretto, conteso da multinazionali e grandi società del settore, non prive appunto di oscurità, e quello dell’impiantistica, lasciato in palio alle consorterie territoriali, che recano ragioni aggiuntive, oggi, per porsi all’ombra di poteri estesi e ineffabili. Un quadro definito degli interessi potrà aversi comunque con l’entrata nel vivo degli ammodernamenti, nella danza di bisogni e pretese che sempre più verrà a stabilirsi fra appalti e subappalti. Solo allora l’obolo alla tradizione verrà richiesto con ampiezza: quando in profondo si tratterà di fare i conti con il privato che cova già nei territori, quando si tratterà altresì di saldare i conti con la parte pubblica, in sede municipale, provinciale, regionale.

In questa fase, in cui alcuni raggruppamenti recano caratteri di veri e propri cartelli, la logica prevalente rimane quella delle concertazioni a tutto campo, che traspare, fra l’altro, in certi movimenti mirati, prima e dopo le aggiudicazioni: tali da pregiudicare talora la linearità delle gare. Un caso esemplare, che ha avuto pure risvolti parlamentari, con una interpellanza del deputato Filippo Misuraca, è quello di Caltanissetta, dove la IBI di Pozzuoli, capofila della compagine esclusa dalla gara ATO, ha presentato ricorso contro Caltaqua, per ritirarlo appena avuta l’opportunità di inserirsi, con l’Acoset di Catania che l’affiancava, nel gruppo assegnatario, attraverso l’acquisizione di una quota cospicua dalla Galva del gruppo Pisante. Tutto questo, a dispetto delle leggi e delle direttive comunitarie, che vietano qualsiasi modificazione all’interno delle compagini vincenti.

Il processo di privatizzazione in Sicilia non sta recando comunque un decorso facile. Ha suscitato tensioni politiche, tali da rendere difficoltose le aggiudicazioni, mentre ha agitato la protesta delle popolazioni, allarmate dai rincari dell’acqua che ovunque ne sono derivati. Per tali ragioni a Trapani e Messina le gare rimangono sospese, con rischi di commissariamento dei rispettivi ATO, mentre a Ragusa si è arrivati addirittura a un ripensamento, per certi versi un dietro-front, che ha coinvolto gran parte dei sindaci dell’area. E proprio la vicenda di quest’ultima provincia segna nel processo una vistosa anomalia.

Sotto il profilo economico, il sudest, da Catania alla provincia iblea, reca tratti distinti. È la sede principale delle colture in serra, lungo i percorsi della fascia trasformata. È area d’insediamento di grandi centri commerciali, con poli importanti a Misterbianco, Siracusa, Modica e Ragusa. È territorio di una banca influente, la BAPR, che riesce a collocarsi oggi, per capitalizzazione, fra le prime venticinque banche in Italia. In virtù dell’integrazione cui può godere, sempre più va facendosi altresì un’area di forte interlocuzione economica, a tutti i livelli, con risvolti operativi non da poco. Se ne hanno riscontri nella politica concertata dei poli commerciali, quelli indicati appunto, e tanto più negli accordi strategici che vanno maturando nel mercato immobiliare, nella grande distribuzione alimentare, nel mercato ittico, nella costruzione di opere pubbliche, infine, dopo la svolta della legge Galli e le sollecitazioni dal governo regionale, nello sfruttamento privato delle acque. In quest’ultimo ambito infatti la catanese Acoset, ponendosi a capo di un raggruppamento coeso, ha deciso di guadagnare terreno oltre il territorio etneo, mentre la Sogeas di Siracusa, pur avendo introdotto soci privati, cerca di mantenere, al momento, un contegno più prudente.

Negli ultimi anni la società catanese è stata al centro di numerose contestazioni, da parte di enti e comitati di cittadini che ne hanno denunciato, oltre che i canoni esosi, le carenze di controllo. Il caso più clamoroso è emerso nel 2006 quando nell’acqua da essa erogata in diversi centri sono state rilevate concentrazioni di vanadio nocive alla salute. La Confesercenti di Catania è intervenuta con esposti ad autorità competenti e al Ministero della Salute. Il comune di Mascalucia ha aperto in quei frangenti un contenzioso, negando la potabilità dell’acqua. Per la mancata erogazione in alcuni centri, l’azienda è stata inoltre censurata dal Codacons e, in un caso almeno, è stata indagata dalla magistratura etnea. A dispetto comunque di simili “incidenti”, che definiscono il piglio dell’azienda mentre incrinano, in senso lato, le sicurezze sulle qualità del servizio privato, l’Acoset, potendo contare su alleati idonei, ha assunto i toni e le pretese di un potere forte.

Nata nel 1999 come azienda speciale, che ai fini della gestione idrica consorziava venti comuni pedemontani, l’impresa presieduta dal geometra Giuseppe Giuffrida si è trasformata nel 2003 in società per azioni, con capitale pubblico e privato. Nello slanciarsi lungo la Sicilia, ha stabilito rapporti con ambienti economici mossi. Nella compagine di Girgenti Acque, di cui è capofila, ha associato la Galva del gruppo Pisante e una società che fa capo alla famiglia Campione, discussa per vicende che ne hanno riguardato un componente. Nel medesimo tempo, con le movenze tenui che accomunano tante imprese dell’est siciliano, l’Acoset è riuscita ad aver voce negli ambiti decisionali che più contano nell’isola. Un test viene ancora dall’Agrigentino, dove, malgrado l’opposizione di ventuno sindaci, che avevano chiesto l’annullamento dell’aggiudicazione, la società catanese è riuscita a mettere le mani comunque sull’affare idrico, con la condivisione forte del presidente provinciale degli industriali, Giuseppe Catanzaro, del direttore generale in Sicilia dell’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque, Felice Crosta, del presidente della regione Cuffaro.

Pure i numeri sono quindi divenuti quelli di un potere in evoluzione. Quale socio privato dell’ATO 2 di Catania, l’impresa eroga l’acqua a 20 comuni etnei, per circa 400 mila abitanti. Da capofila della società Girgenti Acque ha sbaragliato potenti società italiane ed estere, come Aqualia appunto, aggiudicandosi un affare che le farà affluire in trenta anni 600 milioni di euro, di cui circa 100 milioni dall’Unione Europea. Con una quota minima, ceduta dalla Galva dei Pisante, risulta presente nel gruppo Caltaqua, aggiudicatario della gestione idrica del Nisseno. Sin da quando si è profilato il business della privatizzazione, con un raggruppamento d’imprese che comprende pure la BAPR, ha deciso di puntare altresì a sud, gareggiando ancora con la multinazionale iberica, per assicurarsi la gestione dei servizi idrici di Ragusa, che recano una posta di oltre mezzo miliardo di euro, di cui circa 100 mila della UE. Se avesse centrato tale obiettivo oggi avrebbe in pugno un quinto circa dell’intero affare siciliano.

I giochi apparivano fatti. Delle tre società concorrenti, Saceccav, Aqualia e Acoset, la prima, che concorreva già per insediarsi all’ATO di Siracusa, è stata esclusa dalla gara per motivi che sono apparsi sospetti, tali da indurre uno dei commissari, il prof. Francesco Patania, a dimettersi e presentare un esposto alla procura di Ragusa. La seconda, che di lì a poco avrebbe avocato a sé la gestione idrica del Nisseno, per certi versi si è ritirata perché non ha risposto all’invito della commissione di dichiarare se persisteva il suo interesse alla gara. La compagine di Acoset, che al medesimo invito ha risposto affermativamente, aveva quindi ragione di sentirsi vincitrice. Le cose sono andate tuttavia in modo imprevisto. La maggioranza dei sindaci, che nel giugno 2006 si erano espressi a favore della gestione mista, pubblico-privata, nella seduta del 26 febbraio 2007 hanno deciso di avviare infatti la procedura di annullamento della gara perché difforme alle direttive dell’Unione Europea. E il 2 ottobre del medesimo anno la gara è stata annullata. Ma perché è avvenuto tale ripensamento e, soprattutto, quali giochi reggevano, e reggono tutt’ora, l’affare acqua del sud-est?

Lo schieramento di Acoset per l’ATO di Ragusa reca conferme di rilievo e qualche accesso. Rimane forte la presenza catanese, con Acque di Carcaci, Acque di Casalotto e la COESI Costruzioni Generali. Con opportuni scambi posizionali vengono altresì confermate, perché strategiche, due presenze: la IBI di Pozzuoli, con cui nel Nisseno la società catanese ha condotto l’operazione di trasbordo in Caltaqua, che ha suscitato allarme nella Sicilia tutta e prese di posizione parlamentari; la DB Group che, tramite la Sicil Power, costituisce un punto di contatto fra l’Acoset e il gruppo di imprese che fa capo alla famiglia Pisante. Inedita è invece, ma pure sintomatica, la partecipazione della BAPR, che meglio di ogni altra realtà compendia il potere finanziario del sudest. La banca iblea ha fatto una scelta anomala, per certi versi controcorrente, dal momento che nessun altro istituto di credito dell’isola ha deciso di porsi in campo. Ma l’ha fatta a ragion veduta.

Nel quadro degli scambi che vigono nell’est siciliano, la BAPR costituisce una presenza di peso, in grado di interloquire con tutte le economie, a partire comunque da quelle legate all’edilizia e all’innovazione agricola. Reca una dirigenza solida, attenta alla tradizione, non priva tuttavia di impeti modernistici, che tanto più si avvertono nell’attivismo di Santo Cutrone, consigliere di amministrazione, costruttore, componente della giunta CCIIA di Ragusa, vice presidente siciliano dell’ANCE. Forte dei ruoli rivestiti, Cutrone ha potuto stabilire relazioni da vicino con l’imprendtoria catanese, inclusa quella legata all’acqua. Con la CG Costruzioni, di cui è proprietario, ha fatto affari comuni con l’ingegnere Di Vincenzo, con la costituzione di una ATI, associazione temporanea d'impresa, che ha concorso in numerose gare, dal comune Misterbianco al porto di Pozzallo. Quale presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Costruttori si è esposto in favore della privatizzazione dell’acqua a Ragusa, mentre, a chiusura del circolo, ha sostenuto nell’intimo della BAPR le ragioni, infine vincenti, della scesa in campo con Acoset.

In considerazione di tutto questo, i conti dell’acqua, nella declinazione del sudest, tornano con pienezza. La società guidata da Giuseppe Giuffrida, che ha accettato la sfida dei giganti europei, ha avuto buone ragioni per imbarcare la banca siciliana, ravvisando nel prestigio e nell’influenza della medesima una carta spendibile ai fini dell’aggiudicazione del mezzo miliardo di euro in palio. Dal canto suo la BAPR, sospinta dal protagonismo di Cutrone, si è risolta a rivendicare una propria ipoteca, la prima, sull’affare del secolo, sulla scia peraltro di taluni gruppi finanziari, per consolidare sotto la propria egida l’asse economico Ragusa-Siracusa-Catania. Come si evince dalle movenze, tutti i protagonisti della compagine, da Acoset a IBI, da DB Group all’istituto ibleo, hanno comunque ben chiaro che la conquista del centro-partita nella cuspide iblea può costituire un incipit per ulteriori affari, tanto più dopo lo scoccare del 2010, quando, con l’apertura dell’area di libero scambio, il territorio del sudest, in virtù dell’esposizione che reca sul Mediterraneo, diverrà strategico.

In definitiva, nella Sicilia più a sud si è giocato per vincere, a tutti i costi. Il coinvolgimento della BAPR ne è una prova. E Acoset, con le sue alleate, avrebbe vinto se, dopo la decisione assunta dai sindaci dell’ATO in favore della privatizzazione, nel giugno 2006, non fossero accaduti degli incidenti, privi di riscontro in Sicilia, per certi versi quindi imprevedibili. Un pugno di ragazzi, fondatori di un giornale in fotocopia, “Il clandestino”, hanno deciso di mettersi di traverso, suscitando una resistenza corale, che ha incrociato lungo il suo cammino Alex Zanotelli, l’Antimafia di Francesco Forgione, il Contratto Mondiale dell’acqua di Emilio Molinari, la CGIL di Carlo Podda. Dalle cronache, in Sicilia e nel paese tutto, la storia è stata registrata come una esperienza esemplare, cui si sono coinvolti dirigenti sindacali come Tommaso Fonte, Franco Notarnicola, Nicola Colombo e Aurelio Mezzasalma, esponenti politici come Marco Di Martino, esponenti dell’associazionismo come Barbara Grimaudo. La battaglia dell’acqua, nel sudest siciliano, rimane comunque aperta, con i poteri forti che insistono a lanciare i loro moniti, mentre vanno preparandosi all’ultimo decisivo assalto.

Carlo Ruta

Fonte: “Narcomafie”, gennaio 2009

Radiografia di due delitti di mafia, celati dal cono d’ombra. Intervista a Carlo Ruta.

Attraverso una inedita investigazione dei delitti Tumino e Spampinato, lo storico, con Segreto di mafia, illumina gli scenari in ombra dell’est siciliano nei primi anni settanta, quando Catania costituiva, per numeri, la capitale del neofascismo italiano e l’isola tutta una sponda strategica del regime greco dei colonnelli.

A cura di Gianluca Floridia

È il caso di delineare anzitutto lo sfondo. Cosa rappresentava l’est siciliano negli ultimi anni sessanta e all’imbocco del decennio successivo?

Negli anni sessanta Catania veniva chiamata la Milano del sud. Siracusa e Ragusa venivano reputate le province più amene dell’isola. L’intera fascia ionica, da Messina agli Iblei, veniva considerata, per tradizione, priva di fenomeni mafiosi. In realtà, relativamente a quel decennio, la situazione era ben complessa. Dopo la chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1960, la mafia siciliana aveva sottratto ai marsigliesi il predominio internazionale del contrabbando dei tabacchi lavorati. Malgrado i deficit di radicamento, aveva quindi dovuto rendere l’est della Sicilia un territorio pienamente operativo, per due ragioni: la maggiore vicinanza dalle nuove sedi di deposito, localizzate di massima lungo le coste iugoslave, albanesi e greche; la buona reputazione di cui godeva l’area, che rendeva le coste maggiormente permeabili, ai fini degli sbarchi.

Cosa costituiva l’area iblea per Cosa Nostra?

La provincia ragusana poté godere, per certi versi, di uno «statuto» a sé. Pur mancante infatti di una tradizione, di una organizzazione di affiliati, propriamente detta, divenne un’area di rilievo strategico, in virtù della sicurezza inusuale dei suoi litorali. Se le province di Siracusa e Messina, prive di famiglie organizzate, per ragioni di contiguità territoriale, vennero poste allora sotto l’autorità del boss catanese Giuseppe Calderone, il territorio ibleo, al pari di alcune aree campane, finì sotto la diretta «giurisdizione» dei boss contrabbandieri di Palermo, che ne fecero una sorta di enclave, amministrato localmente dal boss vittoriese Giuseppe Cirasa. E le presenze nell’Ippari, lungo gli anni settanta e ottanta, di  personaggi come i Rimi di Trapani, i Greco di Palermo, i cugini Salvo di Salemi, il vice capo della commissione Girolamo Teresi, ne furono un significativo risvolto.

Fatta questa premessa, circa i caratteri del cono d’ombra, andiamo allo specifico dei due delitti del 1972. Da un'ampia sequela di indizi esposti in Segreto di mafia, emerge che l’uccisione dell’ingegnere Angelo Tumino, palazzinaro e viveur ragusano di una certa fama, potè essere originato da uno sgarro, sullo sfondo dei contatti che il medesimo, grosso collezionista d’arte, aveva stabilito con il mercato illegale, sotto l'egida dei boss contrabbandieri che operavano nell’area. Tumino era allora un colluso o una vittima?

Dai dati disponibili non emerge che l'ingegnere fosse un colluso: che fosse uso, per esempio, a ricevere regalie in cambio di favori. Né del resto era in condizione di farne, perché prese a interessarsi di cose d'arte negli ultimi tre-quattro anni della sua vita, quando non ricopriva cariche pubbliche, aveva ridotto notevolmente i propri impegni nell'edilizia residenziale, si era pressoché ritirato dalla vita mondana, recava infine un figlio da accudire, nato da una relazione occasionale. Tanti elementi fanno evincere piuttosto che Tumino, nel momento più gramo della sua carriera, si introdusse nel mercato illegale da privato, convinto che con la mafia si potessero fare affari senza rischi. E con buona probabilità, proprio la convinzione di avere a che fare con contraenti normali, tale da fargli sentire normale pure la vicinanza di un pluripregiudicato come Giovanni Cutrone, che si qualificava come esperto d’arte, gli fu fatale. L’ingegnere non dovette calcolare a sufficienza che l’insorgere di un qualsiasi contenzioso lo avrebbe esposto al rischio di vita. In definitiva, non doveva conoscere a fondo la mafia. E anche questo comprova che, per quanto disinvolto nel condurre i propri affari, non poteva esserne autenticamente colluso.

Come si pone in tale quadro la figura di Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa e grande amico di Tumino? Fu un colluso o una vittima?

L'ipotesi che il giovane Campria fosse un colluso appare anch’essa inattendibile. Con buona probabilità, non lo fu in nessun passaggio della vicenda. Era un giovane problematico, recante una personalità fragile. Si ritrovò, verosimilmente, nella medesima condizione del Tumino, perché a questo si accompagnava, seguendone le movenze e gli stili. Di certo conosceva le cose del passato recente, per esserne stato testimone. Non poteva essere quindi all’oscuro delle ragioni per le quali il suo amico era stato ucciso. E già una cosa del genere, tenuto conto del carattere e soprattutto dello status del Campria, che non poteva essere appunto quello di un colluso, dovette bastare a mettere in allarme gli uccisori del palazzinaro. In definitiva, a prescindere da tutto, esistevano le condizioni perché il giovane fosse tenuto sotto osservazione. Ma numerosi fatti, dal 25 febbraio 1972 in avanti, testimoniano che la situazione dovette essere ben più complessa. Il figlio del magistrato non recava le movenze di chi conosce solo le esteriorità e gli antecedenti di una storia. Sin dai primi momenti si mosse goffamente, manifestando atteggiamenti che destarono sospetti. Circa gli spostamenti nel giorno del delitto, di cui diede testimonianza appena un giorno dopo, fu inoltre sconfessato clamorosamente da una testimone, Elisa Ilea, le cui parole, se meglio considerate, avrebbero potuto costituire il punto di svolta dell’intera inchiesta giudiziaria. Le movenze del Campria erano in sostanza quelle di chi interagisce con gli eventi in modo sincrono, muovendosi magari con difficoltà, ma con una forte cognizione delle cose.

Il figlio del giudice poté avere responsabilità dirette riguardo alla morte dell’ingegnere?

Il sospetto, emerso sin da subito, rimane fino a oggi privo di riscontri e manifesta delle incongruenze. È invece altamente verosimile che Campria fosse presente, quale testimone involontario, sulla scena dell’uccisione oppure ad eventi direttamente collegati al delitto. In tutti i casi, le conoscenze del medesimo, del presente più che delle cose passate, del delitto più che degli eventi scatenanti, dovettero creare non poca inquietudine negli uccisori di Tumino, tanto più dopo l’irruzione in scena del giornalista Giovanni Spampinato, appena due giorni dopo il delitto.

Perché gli uccisori non provvidero a eliminare subito Campria, se ravvisarono nella sua persona un testimone scomodo e pericoloso?

Gl’indizi passati al vaglio suggeriscono una ipotesi congrua. L’eliminazione fisica del Campria avrebbe potuto avere effetti devastanti. Attraverso una sequela di messaggi depistanti, il caso Tumino era stato ricondotto, tanto in sede istruttoria quanto nelle voci della città, lungo tre percorsi alternativi, tutti inconsistenti: il delitto passionale, il regolamento di conti nell’ambito del commercio antiquario, il delitto per rapina. Ebbene, se dopo quel 25 febbraio fosse stato ucciso il figlio del più alto magistrato di Ragusa, le tre piste sarebbero sfumate in un baleno. A quel punto, la pista della grande criminalità sarebbe emersa clamorosamente e senza indugio. Il cono d’ombra del sud-est ne sarebbe uscito interamente illuminato, dieci anni prima che Giuseppe Fava, con l’esperienza de «I Siciliani», e poi con la sua morte, ne mettesse a nudo l’essenza, i traffici, i potentati occulti. Le strategie dell’ordine pubblico ne sarebbero potute uscire quindi rivedute, gli organici delle caserme rafforzati. In definitiva, i traffici che si svolgevano nell’area, garantiti fino allora dal mito della Sicilia senza mafia, di fatto da una impenetrabile sordina, sarebbero potuti finire in discussione, con effetti imponderabili.

Quale significato ebbe la presenza in scena di Giovanni Spampinato?

Con il breve scoop del 28 febbraio, il giornalista de «L’Ora» e de «L’Unità» non puntò sul Campria solo perché aveva saputo dell’interrogatorio cui era stato sottoposto il giovane la sera del 26. Oggi si conosce l’esito di quel colloquio. Si sa con certezza che il figlio del giudice non era stato ascoltato nelle vesti di persona sospettata. Spampinato aveva raccolto bensì il sospetto da una fonte di prim’ordine, costituita Mario Tumino, fratello del palazzinaro ucciso. E solo forte di tale aggancio decise di incalzare il Campria. L’informatore del cronista di certo non era a conoscenza dei rapporti che aveva intessuto il fratello con certi ambienti, ma, come emerge dalle sue deposizioni, aveva il sentore di qualcosa, che gli venne facile associare con le condotte anomale del Campria, del passato e del presente. Dal canto suo, Spampinato mancava di troppi tasselli per potersi orientare con pienezza. Colse tuttavia quel sentore, elaborò quel sospetto sul giovane, corroborato appunto dalle movenze goffe e incoerenti del medesimo nei giorni successivi al delitto.

Come poté essere avvertito l’impegno di Spampinato dagli uccisori di Tumino?

Di certo il cronista era finito su una pista pericolosa. Come emerge dalla lettera che inviò alla collega de «L’Ora» Angela Fais il 28 febbraio, dalla memoria che il 5 aprile indirizzò alla federazione del PCI di Ragusa e da alcune inchieste sullo squadrismo in Sicilia che uscirono sul quotidiano da fine febbraio a maggio, andava convincendosi che l’uccisione di Tumino fosse maturata nell’ambito di una trama che riuniva trafficanti d’arte ed eversori neofascisti. Ebbene, sulla scorta dei dati che si possiedono, tale ipotesi appare caduca. Pur non potendo recare alcuna cognizione dei fatti, il giornalista era tuttavia nel perimetro della verità, partecipando, si direbbe per induzione, a quella di cui era custode Campria. Al di là dei propri convincimenti, più di ogni altro, quindi, era nelle condizioni di svelare il segreto dell’uccisione del 25 febbraio. E tanto più lo divenne quando ebbe modo di interloquire di persona con il figlio del magistrato. In definitiva, più preoccupante della parola di Spampinato, dovette risultare il gesto. Prova ne è che il giornalista venne ucciso dopo che aveva smesso da mesi di scrivere sul caso.

Le inchieste di Spampinato sul caso Tumino quale impatto recavano sugli ambienti che avevano determinato il delitto del 25 febbraio?

Di certo, gli articoli usciti su «L’Ora» recavano uno rilievo a prescindere. Il cronista andava necessariamente a tentoni, sollecitato tuttavia da un sentire divergente che gli consentiva di slargare il circolo delle supposizioni. Nei suoi scritti, se non poteva offrire quindi risposte, poneva numerose domande, che, seppure in modo necessariamente largo, evocavano poteri occulti e criminali. Il primo sulla vicenda usciva con il seguente titolo: Delitto Tumino. Una pista è la mafia. E non si trattava evidentemente di una pista seguita dagli inquirenti, ma di una intuizione, per certi versi di un suggerimento investigativo. Il 28 aprile Spampinato dava conto delle tattiche di depistaggio in corso, che evocavano menti molto sofisticate, mentre scartava l’ipotesi del delitto per rapina. Nell’articolo del 7 luglio, quando l’inchiesta giudiziaria non faceva alcun passo in direzione del delitto organizzato, si chiedeva: «Come mai il corpo appariva rivestito e sistemato con cura? Poteva un uomo solo spostare il cadavere dell'ingegnere, che pesava più di cento chili?». Nelle inchieste che il giornalista andava conducendo in quei mesi, sulle trame neofasciste, erano inoltre costanti i riferimenti alle attività di contrabbando nel sud-est.

Ecco, le inchieste di Spampinato sull’eversione nera in Sicilia, che rilievo avevano?

Tali approfondimenti dovevano destare non poca preoccupazione, soprattutto negli ambiti di mafia. Con le sue denunce il giornalista finiva infatti con l’orientare l’attenzione pubblica, non soltanto siciliana, su un’area che doveva rimanere in ombra, con possibili pregiudizi per gli affari che vi si conducevano.

Esistevano in quegli anni degli accordi, tattici o strategici, fra eversori neri e mafia?

Gli obiettivi e le metodologie operative erano del tutto differenti. Il neofascismo faceva in quegli anni un gran rumore. E anche nell’est siciliano le cose andavano così. A Catania, divenuta in quegli anni la maggiore roccaforte italiana della destra con il 30 per cento dei voti al partito di Almirante, si giunse alla distruzione della federazione provinciale del Pci. A Siracusa fu un succedersi di attentati, soprattutto alle sedi della CGIL. Ragusa conobbe numerosi atti di squadrismo. Le operazioni di sbarco e di transito dei tabacchi lavorati, gestite dalla mafia, necessitavano invece del massimo di sordina. Si può quindi escludere che potessero esistere accordi strategici, o solo tattici, fra i boss del contrabbando e i neofascisti, tanto più nel «quieto» sud-est.

Dinanzi agli azzardi del giornalista come si poterono porre gli uccisori di Tumino?

Evidentemente, l'uccisione in stile mafioso del giornalista che indagava sulla vicenda avrebbe fatto in Italia un gran rumore, con l'effetto di mettere a repentaglio gli equilibri e i silenzi su cui reggevano il contrabbando e le connessioni del sud-est. Va ricordato d’altronde che appena due anni prima il rapimento del redattore de «L’Ora» Mauro De Mauro aveva destato indignazione in tutto il paese e aveva attratto cronisti da ogni parte del mondo. Si avrebbe potuto avere beninteso buon gioco nel depistare l'attenzione generale e le indagini in direzione del neofascismo su cui indagava il giornalista, ma le cose non sarebbero cambiate di tanto. Il clamore si sarebbe avuto a prescindere. La pista della mafia sarebbe potuta emergere ugualmente, pure avvalorata da talune intuizioni dello stesso Spampinato. Campria, che costituiva il punto più permeabile della vicenda, sarebbe potuto finire poi stretto d'assedio, da segmenti dell'informazione, dalla magistratura, con il rischio fondatissimo di un  definitivo crollo. La storia è andata tuttavia diversamente, perché l’uccisione del cronista, compiuta da Campria nella notte del 27 ottobre 1972, è stata registrata come l’epilogo di una storia privata.

Su Segreto di mafia viene tuttavia documentata, sulla scena dell’uccisione, la presenza di un misterioso individuo. È la prova che anche nel caso di Giovanni Spampinato si trattò di un delitto organizzato?

Tale presenza sul luogo e nel momento dell’uccisione, avvenuta appunto in piena notte, costituisce evidentemente un dato importante, che pone numerosi interrogativi, cui non è possibile, al momento, dare risposte definitive. I dati che sono stati documentati legittimano comunque una lettura del delitto ben distante da quella emersa nei vari gradi del processo.

Fonte: “L’Isola Possibile”. Rivista supplemento mensile de “Il Manifesto”, 28 gennaio 2009.

Dicembre 2008

Dietro l’uccisione del giornalista de “L’Ora” Giovanni Spampinato, l’ombra di Cosa Nostra. Rapporto di Carlo Ruta su uno dei misteri più intricati della Sicilia. Il 20 dicembre 2008 in libreria.

Sin dal febbraio 1972, quando venne ritrovato in una lontana contrada ragusana il cadavere di un noto palazzinaro, è stata una girandola di depistaggi, di mancati adempimenti, di silenzi irriducibili. Su tale uccisione Spampinato si trovò subito a investigare. E per tale suo impegno, nell’ottobre del medesimo anno venne ucciso. Gli esiti lungo i decenni sono stati emblematici. La morte del costruttore, rimasta insoluta sul piano giudiziario, viene evocata dalle cronache come un delitto misterioso, forse per rapina, forse per donne, forse per una controversia nel mondo dell’antiquariato. La morte del giornalista è stata raccontata nei tribunali come un delitto di provincia, compiuto dal figlio di un alto magistrato roso dal rancore. In realtà, come viene argomentato in questo rapporto di Carlo Ruta, i due delitti costituirono un affare complesso, che assunse un preciso rilievo nella vita siciliana, nel clima fosco e accidentato degli anni settanta.

Dopo la chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1960, quando Cosa Nostra, mettendo alle corde i clan marsigliesi, aveva assunto la guida del grande contrabbando, l’area sud-orientale era divenuta un cono d’ombra strategico. E proprio nei frangenti dei primi anni settanta rischiò di essere interamente illuminata. La lesione venne comunque suturata, con determinazione. La mafia più potente dell’isola poté quindi continuare a servirsi delle coste del sud-est per lo sbarco e il transito di ingenti quantitativi di tabacchi lavorati, fino ai primi anni ottanta, quando il contrabbando cedette il posto ad altri traffici, ritenuti dalle famiglie della Conca d’Oro più remunerativi.

Con questo lavoro investigativo, a partire appunto dagli insoluti che fino ai nostri giorni hanno caratterizzato la vicenda, Ruta incalza il significato di quei delitti, attraverso il vaglio analitico di numerosi documenti, tratti dagli archivi giudiziari e non solo. Scandaglia altresì gli affari celatissimi che ne ne animarono lo sfondo. Nel ricercare una spiegazione coerente al caso Spampinato, finisce con il rendere quindi un profilo distinto della società siciliana e della mafia.

Giovanna Corradini

Carlo Ruta, Segreto di mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra. Edizione Rapporti, Siracusa, pagg. 128, euro 10,00

Per infomazioni: accadeinsicilia@tiscali.it

Segue un brano del testo e la copertina del libro.

Dal capitolo

La mafia e il contrabbando

Per spiegare cosa andava muovendosi nel sottosuolo del sud-est, è necessaria una ricognizione delle movenze della mafia siciliana negli anni sessanta-settanta sugli scenari del contrabbando internazionale dei tabacchi. Le regole che Cosa Nostra impose in tali ambiti contribuì a mutare infatti in modo considerevole i rapporti fra est e ovest dell’isola.

Nei primi decenni del dopoguerra, snodo ed emporio del contrabbando internazionale era, sulla costa mediterranea del Marocco, la città libera di Tangeri, che garantiva l’approdo da ovunque senza limitazioni, né obblighi, né passaporto, per ciò stesso l’im-punità per ogni affare. I carichi di tabacchi lavorati destinati all’Europa venivano introdotti da Gibilterra e dal sud della Francia, in particolare da Nizza e Marsiglia, che godevano al riguardo di una tradizione storica. Per forza di cose, in tali traffici un ruolo cardine avevano guadagnato quindi i clan marsigliesi, mostrandosi in grado di suggerire regole all’intero mercato internazionale. E in stretta relazione con questi si impose, per capacità organizzative e dispiego di mezzi, il còrso Pascal Molinelli, detto il Goldfinger del Mediterraneo a causa della sua imprendibilità.

Adeguandosi alla situazione, i siciliani evitarono in quella fase di mostrare mire egemoniche. Per un periodo lungo non ingaggiarono conflitti, trovando più utile la cooperazione con i marsigliesi. Furono tuttavia in grado di esprimere un protagonismo non indifferente, che li rese importanti e rispettati dalle parti in causa. In tutto il decennio cinquanta il palermitano Pietro Davì, soprannominato Jimmy l’americano, tutelato da alti uffici della polizia e della magistratura italiana, riuscì ad attivare in effetti linee di contrabbando di rilievo internazionale, e a dominare il mercato italiano, in piena sintonia con i Burms, organizzatori di Tangeri, con Salomon Gozal, elemento di spicco del contrabbando provenzale, e con lo stesso Pascal Molinelli. Linee considerevoli di contrabbando vennero attivate inoltre da Salvatore Greco, talora in modo concorrente al primo. Si facevano altresì strada, fra i siciliani, Vincenzo Spadaro, Salvatore Adelfio, Tommaso Buscetta. Come si evince dai rapporti delle polizie dell’epoca, fu comunque determinante la presenza, da Napoli, dell’italoamericano Lucky Luciano: la cui morte, avvenuta nel 1962, segnò l'inizio di un aspro conflitto fra siciliani e marsigliesi.

La chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1961, con l’annessione della città al regno del Marocco, era comunque destinata a modificare in profondo la geografia e gli assetti organizzativi del contrabbando. Mentre i marsigliesi erano costretti a ripiegare su Gibilterra, le società produttrici dovettero spostare i depositi di sigarette lungo le coste jugoslave e albanesi. Subentrarono restrizioni nelle condizioni di pagamento delle partite. Gli sbarchi, in aree eterogenee, con una naturale proiezione verso le coste italiane dello Ionio e dell’Adriatico, imposero una diversa logistica, richiedente una maggiore organizzazione. Se tutto questo determinò allora l’uscita di scena di numerosi finanziatori autonomi, piccoli e medi, finì con il sollecitare le famiglie egemoni della Sicilia, già sufficientemente presenti nella vicenda, e forti comunque delle risorse che venivano loro dal sacco delle città, della Conca d’Oro e della cinta di Palermo in particolare, a lanciare la sfida, motivate a riorganizzare attorno a sé, in forma piramidale, il commercio illegale dei tabacchi.

Si trattò di un’ascesa incalzante. Già a metà degli anni sessanta, Pietro Davì, Salvatore Greco e altri potenti boss siciliani, come Buscetta, erano gli interlocutori più ambiti delle società produttrici, tanto da poter influire decisivamente sulle nuove localizzazioni dei depositi, lungo l’area balcanica. Nei primi anni settanta, dopo aver costretto all’angolo i marsigliesi e aver risolto la crisi che la travagliava dal 1962-63, l’organizzazione Cosa Nostra dominava gran parte del commercio intercontinentale, mentre rafforzava il proprio radicamento nelle aree operative «oltre le linee». In quella stagione, infatti, boss della camorra napoletana come Michele Zaza, Ciro Mazzarella e Antonio Spavone poterono essere «consacrati» uomini d’onore, con la garanzia forte di Michele Greco.

In quegli anni, sotto l’egida dei capimafia Bontade e Badalamenti, il contrabbando internazionale dei tabacchi lavorati riusciva a contare in Sicilia su un numero non indifferente di organizzatori, di lontana e recente affiliazione, dotati di capitali ingenti, navi e flotte pescherecce, in rapporti con grandi intermediari della Philip Morris e della Reynold, con riciclatori svizzeri, e ancora, con un’ampia rete di contrabbandieri: greci, turchi, albanesi, jugoslavi, bulgari e di altri paesi mediterranei, dislocati lungo rotte sicure e collaudate. Un ruolo di tutto rispetto continuava ad occupare Pietro Davì, malgrado l’età non giovane e, soprattutto, la latitanza, che gli «amici» di cui disponeva gli consentivano di vivere con relativa comodità. Rimaneva altresì solido l’impegno organizzativo di Salvatore Greco, mentre, dopo il difficile tirocinio degli anni cinquanta, all’ombra dell’ultimo Lucky Luciano, e il balzo intercontinentale degli anni sessanta, giungeva allo zenit il prestigio di Tommaso Buscetta, che al contrabbando associava il traffico su larga scala dei narcotici. Provenienti pure loro dagli anni «eroici» del dopoguerra, un peso considerevole conservavano poi Vincenzo Spadaro e Salvatore Adelfio, che con Davì e altri uomini garantiti da Cosa Nostra, avevano tenuto testa ai boss provenzali, fino a soverchiarli. Fra le figure egemoni che facevano scuola nella Palermo che usciva dalla strage di viale Lazio, venivano, ancora, Nunzio La Mattina, Pino Savoca e Tommaso Spadaro, i quali proprio nei primi anni settanta, come i Zaza e i Nuvoletta, vennero affiliati a Cosa Nostra. Si trattava di persone che in quegli anni incutevano rispetto e riverenza, perché incarnavano una storia, un patrimonio di competenze e di esperienze, ma soprattutto un potere economico consolidato. Era il tempo in cui boss come Buscetta e Davì potevano godere di ogni sorta di riconoscimento, dall’Italia alle Americhe, quali prestigiosi uomini d’affari.

Come si espresse allora tale evoluzione del contrabbando in aree dell’isola che si situavano storicamente oltre l’influenza delle cosche occidentali?

Ponendosi lungo le rotte che congiungono tre continenti, l’est siciliano reca una tradizione secolare di traffici marittimi, ricolma pure di versioni romantiche e leggendarie. E su tale tradizione si erano incardinati nei decenni del dopoguerra, gestiti da malavitosi locali, affari economici di un certo peso: tanto più lungo le coste siracusane ed etnee, dove, oltre a sigarette, venivano sbarcati stupefacenti e partite di armi, mentre venivano imbarcati reperti archeologici. Con l’aprirsi delle nuove vie del tabacco l’operatività dell’area era tuttavia destinata a crescere. Se le coste pugliesi del canale d’Otranto, acquisivano infatti una gran reputazione per la loro vicinanza alle sedi balcaniche d’imbarco e il raccordo diretto con il mercato campano, in grado di alimentare economie ai livelli di una Fiat, quelle della Sicilia venivano valorizzate, dai signori siciliani del tabacco, per ragioni organizzative e logistiche. Gli sbarchi nell’isola consentivano in particolare un controllo diretto delle situazioni, diversamente da quanto avveniva lungo la penisola, dove compiti di alto profilo finivano demandati a figure mediane, talora estranee al vincolo solidaristico. E le coste sud-orientali, ben posizionate nella nuova geografia dei tabacchi, venivano considerate fra le più comode, perché risultavano le meno controllate. Il mito della Sicilia differente, da cui lungamente avevano tratto beneficio i potentati del luogo, diveniva così funzionale alle strategie di posizionamento della mafia.

Tratto da "Segreti di mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra", di Carlo Ruta

novembre 2008: è stato allestito un blog dedicato alla vicenda:  www.sosteniamofonte.blogspot.com

In difesa della libertà di espressione, della Costituzione, della democrazia.

Intervista a Carlo Ruta.

A cura di Enrico Natoli

Ci può raccontare la nascita di "accadeinsicilia"? Che tipo di informazione poteva trovare un lettore nelle pagine del sito?

Faccio una premessa. A partire dalla metà degli anni novanta, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio ho deciso di integrare il mio impegno, prevalentemente di tipo storiografico, con una serie di inchieste sul terreno, su talune realtà della Sicilia, volgendo in particolare l’attenzione sulle aree orientali, da Catania a Gela, da Siracusa a Vittoria. In tali luoghi infuriavano in quel periodo guerre di mafia che sconfessavano il mito di una Sicilia “differente”. Sono stati quindi anni difficili, in cui mi trovavo a fare i conti con avvertimenti di ogni tipo. Raccoglievo gli esiti delle inchieste su libretti che mi venivano pubblicati da “La Zisa”, una casa editrice palermitana, condotta da Maurizio Rizza dell’Istituto Gramsci. E in quel contesto ho scoperto, a fine decennio, il web. Ho valutato le possibilità di comunicazione inedite che mi avrebbe potuto offrire tale strumento, quindi ho creato “Accadeinsicilia”, nel 2001. Sin dall’inizio la mia idea è stata di congiungere le due prospettive: quella storiografica e quella dell’informazione. Dalla prima è nata la sezione “Giuliano e lo Stato”, con altre che documentano l’immagine della Sicilia nei secoli della modernità. Dalla seconda sono scaturite le inchieste sul presente, a partire da quella sull’uccisione del giornalista Giovanni Spampinato.

Come è avvenuta la chiusura di "accadeinsicilia" e la successiva apertura di "leinchieste"?

Dopo il 2000 ho deciso di portare l’investigazione sul terreno dei poteri forti. Mi sono occupato, con resoconti cartacei e on-line, di alcune potenti banche, dall’Antonveneta del nord-est alla BAPR, del caso appunto di Giovanni Spampinato, dei nessi fra Danilo Coppola e i salotti della finanza nazionale, di tangenti miliardarie nell’est della Sicilia. Le reazioni al lavoro d’inchiesta si sono fatte allora differenti. I boss avevano dimostrato di possedere una sorta di codice, che in qualche modo me li aveva reso prevedibili. Ne sentivo il fiato addosso, e tuttavia riuscivo ad avvertire in loro una specie di rispetto, seppur malinteso, nei riguardi del mio lavoro. I poteri forti dell’isola, quando si sono sentiti posti in discussione, hanno messo in opera una strategia di attacco che fino ad oggi non ha conosciuto soste. E in tale cornice nel dicembre 2004 è arrivato l’oscuramento di “accadeinsicilia”. Si è trattato di un atto gravissimo, fortemente lesivo di un diritto costituzionale. Ho provveduto quindi, dopo una breve interruzione, a ripristinare Il lavoro di documentazione e d’inchiesta on-line attraverso l’apertura di un altro blog, “Leinchieste” appunto, presso un server degli Stati Uniti.

Come sono nati i processi? Di cosa è imputato? Come si sono conclusi?

Quando mi sono occupato delle mafie militari, delle bande che imperversavano nel Gelese, nell’Ippari, nel Siracusano e in altre aree, ho ricevuto circa quindici querele, soprattutto da parte di amministratori pubblici, a vario titolo chiamati in causa. E da tutti i processi che ne sono scaturiti sono uscito vincente. Ma negli anni successivi, quando si sono mossi i potentati finanziari e alcuni ambiti istituzionali, le cose sono cambiate: a partire appunto dall’oscuramento di “Accadeinsicilia”. Solo per aver denunciato gli insoluti del caso di Giovanni Spampinato, oggi riconosciuti pure dalla Commissione Antimafia, sono stato investito, perlopiù su sollecitazione di un magistrato, da otto procedimenti giudiziari per diffamazione, fino a oggi in corso. Nel 2006, fatto che ha suscitato indignazione in Italia, sono stato condannato da un giudice non togato a otto mesi di carcere solo per aver accolto nel blog la testimonianza di un cittadino su un affare di tangenti. Nel luglio 2008 sono stato condannato in Appello, ancora per diffamazione, a un risarcimento inaudito, solo per aver espresso delle critiche, che il giudice di primo grado aveva riconosciuto come legittime, nei riguardi di tre magistrati catanesi, due dei quali fatti oggetto peraltro di diverse interrogazioni parlamentari. Rappresentativa della situazione rimane comunque la condanna, unica in Italia e in Europa, che mi è stata inflitta nel maggio scorso per stampa clandestina, solo per aver curato Accadeincilia, un normalissimo blog appunto, che tuttavia è stato reputato dal giudice Patricia Di Marco né più né meno che un giornale quotidiano.

Negli ultimi anni ci sono stati altri casi di richieste di risarcimento e di condanne nei confronti di storici e studiosi. In genere le richieste provengono dal mondo politico. Ci può dare il suo punto di vista su questi episodi? Hanno dei punti di contatto con la sua vicenda? Infine, come funziona il rapporto tra informazione e politica? Bossi nel' 98 diceva che Berlusconi era l'uomo di Cosa Nostra al Nord e oggi governano insieme. Può essere sufficiente la spiegazione che Bossi usa un linguaggio colorito, mentre per gli storici fioccano i processi?

La querela per diffamazione, come di recente ha bene argomentato Giovanna Corrias Lucente su Micromega, rappresenta oggi un esteso business. Per tradizione costituisce in ogni caso una importante arma che i potentati del paese, centrali e territoriali, possono usare, senza rischi e con guadagno facile, per impedire l’esercizio dell’informazione libera. La censura legale serve in effetti a intimidire il giornalista, detta norme di condotta all’intera categoria, lancia suggerimenti di cautela alle comunità di riferimento, all’opinione pubblica. Mi pare emblematico al riguardo il caso di Paolo Barnard: portato in tribunale da una multinazionale farmaceutica con pretese di risarcimento inaudite, isolato per tale motivo dal team di Report per cui lavorava, privato infine di ogni difesa legale da parte della RAI. Va d’altra parte considerato che il giornalista d’inchiesta, una volta rinviato a giudizio, non sempre può difendersi in modo pieno. Il vincolo della riservatezza della fonte, cui non può sottrarsi, può impedirgli infatti di esibire per intero gli elementi in suo possesso. E non per questo smette di essere, come ci viene ricordato dal mondo anglosassone, il cane di guardia della democrazia. Si può disattivare allora l’arma della querela temeraria, intimidatoria appunto, senza che si debba correre il rischio opposto; quello cioè di una sorta di impunità, in tutto e per tutto, per chi esercita il mestiere di cronista? Delle soluzioni, degne di una democrazia matura, esistono. Dovrebbero essere fissati dei limiti al risarcimento civile, per liberare il giornalista dalla minaccia di una condanna a vita, tale da condizionarne per intero l’iter professionale. Dovrebbe scomparire lo spauracchio delle pene carcerarie perché anacronistiche, incivili, a misura dei regimi autoritari. Dovrebbe essere impedito per legge il “primo colpo” della querela, attraverso la riformulazione dell’istituto della rettifica.

Perché si avverte l'esigenza di muoversi al di fuori dei canali informativi tradizionali? Quanta parte della storia siciliana e nazionale deve essere ancora raccontata?

A ragione viene detto che il giornalista d’inchiesta deve possedere l’indole del “lupo solitario”, che lo porta nei luoghi più impervi, i meno accessibili, i più pericolosi, per ciò stesso i più prossimi alle verità taciute. Per quanto mi riguarda, mi trovo spesso a percorrere vie divergenti, che richiedono il massimo di scioltezza operativa. Di certo, tale modo di essere può sollecitare l’approccio a canali informativi differenti. Ed è il mio caso, essendomi espresso maggiormente attraverso i libri e, più di recente, la rete. Ma non esiste una regola precisa, perché, come testimoniano innumerevoli storie personali, da Tommaso Besozzi ai nostri giorni, anche nei media tradizionali, perfino in quelli ostentatamente d’ordine, possono aprirsi varchi d’inchiesta di tipo divergente: cosa che accade quando il cronista riesce a imporre alla proprietà della testata la propria competenza. Per quanto riguarda l’altra parte della domanda, sulla storia non ancora raccontata, la situazione può essere resa come una scena teatrale, al buio, solcata da fasci di luce, che raffigurano lo stato delle conoscenze effettive, liberate cioè, oltre che dalla dimenticanza, dallo stereotipo e dal mito. In tale buio dominante, si perdono gli affari di Stato, lo stragismo, le trame dell’alta finanza, i delitti siciliani degli anni ottanta-novanta. E non solo: si cela tutto quel che non conosciamo, dalle mafie che non sono state mai classificate come tali alle ingiustizie senza voce e senza nome che percorrono il presente. Per il “lupo solitario”, evidentemente, il lavoro non manca. Ma non mancano pure i rischi.

E in tale scena, come si collocano gli affari dei poteri forti: stanno al buio o alla luce?

I poteri forti di oggi, quelli che tirano in particolare le fila della finanza, non fanno la democrazia. Costituiscono bensì un punto di collasso della medesima. Tanto più in Italia sono da tenere quindi sotto stretta osservazione. Quelli di un tempo, pensiamo agli Agnelli del primissimo Novecento, potevano permettersi di rispettare le regole di un regime liberale, potendone trarre anche guadagno. E quando tali regole andavano strette esistevano delle vie praticabili: la dittatura, come si ebbe con i fascismi europei degli anni venti e trenta, l’avventura bellica, l’assalto neocoloniale, lo stato d’assedio, e così via. Gli scenari adesso sono cambiati, nell’Occidente tutto, quindi pure in Italia. E negli ultimi tempi, quelli dell’economia senza confini e del web, in modo determinante. Non sono praticabili o consigliabili le svolte reazionarie vecchio stampo. Le guerre sono divenute un affare di pertinenza americana. Trovandosi allora a dover operare su un terreno stabilmente definito, senza poter uscirne con atti di forza dentro o fuori, i potentati finanziari si trovano nella “necessità” di violare in modo strategico le leggi, di corrodere la sostanza democratica, travisandone il senso, con l’adozione di metodi che, avallati da ceti politici ad hoc, non differiscono tanto da quelli delle società “onorate”. E’ un po’ la genesi del berlusconismo, del regime delle impunità dei nostri giorni. Compito essenziale del giornalista d’inchiesta, guardiano appunto delle libertà civili, è allora quello di alzare i sipari delle trame, di togliere la maschera ai poteri che vilipendono lo Stato di diritto, al centro come in periferia, ovunque. E’ utile sottolineare che i potentati finanziari sono forti proprio perché stanno al buio. Quando vengono illuminati diventano vulnerabili e talora, sotto il peso delle loro responsabilità rese pubbliche, si afflosciano. E’ stato il caso del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, referente dei concertisti di Antonveneta. Assume perciò significato strategico la repressione in atto nei riguardi della libera comunicazione, quella che colpisce Paolo Barnard e tanti altri. Rivelano una logica mirata le nuove normative sulle intercettazioni telefoniche. E con tutto questo va coordinandosi l’attacco, destinato probabilmente a fare testo oltre i confini italiani, alla libertà sul web.

Perché i potentati della Sicilia hanno deciso di spegnere la sua voce? Quale pericolo hanno ravvisato nelle sue inchieste? E lei come reagisce a tali atti repressivi?

Il giornalista d’inchiesta, se fa il proprio mestiere con correttezza e dedizione, costituisce, come dicevo prima, un pericolo in sé, a prescindere da tutto. Per quanto mi riguarda ho sempre fatto il possibile per essere sufficientemente razionale, distaccato dalle situazioni che mi sono trovato ad esaminare. Ho sempre cercato di tenermi distante dalle paludi, che pure in Sicilia sono insidiose e pervadenti. Probabilmente, si vuole colpire questo mio modo di essere, che peraltro mi ha permesso di comunicare con tanta gente. Credo che non venga sopportato inoltre il mio scrupolo di documentazione, che mi viene un po’ dall’interesse per i fatti storici. E poi, naturalmente, tutto il resto. Come reagisco a tali atti repressivi? Continuando a studiare il passato e il presente, a documentare, a informare. Gli ultimi eventi, comunque, hanno fatto maturare in me una decisione. In quasi venti anni di lavoro ho raccolto un archivio personale che si compone di circa ventimila documenti, in massima parte originali. Con tali documenti ho potuto operare con profitto su una varietà di casi, a partire appunto dalle trame dell’immediato dopoguerra. Ecco, ho deciso di rendere pubblico e fruibile a chiunque questo archivio, spero entro l’anno corrente. E ne sto studiando i modi. Sento infine di dover intensificare il mio impegno sulla linea della libertà di espressione, perché la situazione nel paese, davvero preoccupante, ci sollecita tutti, operatori della comunicazione e cittadini, a una mobilitazione responsabile.

Fonte: www.cuntrastamu.org

Antonio Di Pietro con Carlo Ruta, per la libertà sul web

Mentre si allarga nel mondo del web e nel paese civile la mobilitazione contro la sentenza siciliana, che di fatto condanna l’informazione sul web come illegale e clandestina, giunge un nuovo importante impegno dal versante politico. Antonio Di Pietro, leader nazionale del Partito dei Valori, il 4 settembre ha preso posizione in favore di Carlo Ruta e della libera espressione in rete, firmando un articolo sul proprio blog in cui si legge che “quanto accaduto è un atto grave, anzi gravissimo ed è accaduto in una regione dove l’omertà è l’humus su cui cresce e prolifera l’arroganza della malavita organizzata”. L’ex magistrato di Mani pulite è deciso nel richiamare l’inadeguatezza della legge vigente, dicendola “del tutto fuori tempo e inconciliabile con le nuove forme di comunicazione introdotte con la rivoluzione portata dalla Rete”. Spiega altresì che la medesima deve ritenersi incostituzionale “perché il diritto di informare la costituzione lo riserva a tutti e non solo alla carta stampata che ha registrato il proprio marchio al tribunale”. Afferma quindi che sta provvedendo a redigere una nuova interrogazione parlamentare sulla vicenda, dopo quella del deputato Giuseppe Giulietti, con l’intento di richiedere una nuova normativa che, al più presto, ponga fine a ogni equivoco e sancisca in via definitiva, come è di un paese autenticamente civile, la piena libertà sul web.

Giovanna Corradini, Paolo Fior, Nello Lo Monaco, Carla Cau, Serena Minicuci, Barbara Gribaudo

Per notizie e informazioni: accadeinsicilia@tiscali.it, www.antoniodipietro.it, www.giornalismi.info/vocilibere, www.leinchieste.com

Sentenza oscurantista sul web

L’allarme e la mobilitazione si estendono in Grecia. Decine di blog prendono posizione. Numerose note di protesta indirizzate all’ambasciata italiana di Atene.

Mentre in Italia la risposta del web alla condanna dello storico Carlo Ruta per stampa clandestina cresce di giorno in giorno, a seguito della pubblicazione del testo della sentenza emessa dal giudice Patricia Di Marco, ripercussioni significative del caso si hanno in Grecia. Numerosi blog ed esponenti della cultura di tale paese stanno prendendo infatti posizione contro la condanna, intesa come espressione dei poteri torbidi che stringono il sud e di politiche governative scopertamente illiberali. Constatata quindi la gravità della situazione che si è venuta a creare in Italia, vengono denunciati sui siti greci i pericoli che, dopo tale evento giudiziario, ricadono su tutti i paesi dell’Unione Europea, in merito alla libera espressione in rete. Dai blog e da altre fonti si ha altresì notizia di numerose note di protesta indirizzate all’Ambasciata italiana di Atene, oltre che, nella medesima capitale, alle sedi del Consolato e dell’Istituto Italiano di Cultura. Ad animare la protesta, fra gli altri, è lo studioso ateniese Nikos Klitsikas, esiliato politico in Italia nel periodo della dittatura dei Colonnelli e, negli anni più recenti, storico delle trame nere in Europa, in collaborazione con Andrea Speranzoni.

Giovanna Corradini (redattrice), Paolo Fior (giornalista), Nello Lo Monaco (geologo), Vincenzo Gerace (cancelliere), Roberto S. Rossi (giornalista), Carlo Gubitosa (giornalista scrittore), Carla Cau (associazionismo ragusano), Serena Minicuci (giornalista), Vincenzo Rossi (giornalista), Teodoro Criscione (studente), Antonella Serafini (giornalista), Angelo Genovese (studente), Giuseppe Virzì (blogger).

Si prega vivamente di diffondere. Per informazioni: accadeinsicilia@tiscali.it

Rif: comunicato del 3 settembre 2008

L’appello di Carlo Ruta

Emergenza libertà in Italia

di Carlo Ruta

La sentenza siciliana che ha condannato l’informazione in rete, ritenendola né più né meno che un crimine, sta suscitando proteste e allarme sul web e in ogni ambito del paese civile e responsabile. Le ragioni sono pesanti come pietre. Sono stati attaccati principi che hanno fatto la storia del pensiero democratico: i medesimi per i quali, nel nostro paese, uomini come i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Eugenio Curiel, Giovanni Amendola, hanno speso il loro impegno e dato la vita. E’ stato puntato e centrato in particolare il principio della libera espressione, che, rappresentativo delle libertà tutte e momento rivelatore di uno Stato democratico, costituisce un cardine della Costituzione repubblicana.

L’attuale governo italiano, che si sta connotando sempre più in senso illiberale, non può sottrarsi a questo punto al dovere morale di rispondere al moto di protesta di questi giorni. Basta con gli infingimenti. Non si aspetti che l’onda di piena dell’indignazione si plachi. Si farà il possibile perché non si fermi. E’ in gioco appunto la democrazia, nella sua frontiera più avanzata e aperta, rappresentata dalla libera espressione in rete, dalla comunicazione che irrompe e prorompe in senso orizzontale, che rende i cittadini protagonisti in modo nuovo. E’ in gioco, come si diceva, la Costituzione, che, come ci ha ricordato Piero Calamandrei, non è nata nei salotti, né nelle stanze del potere, ma sulle montagne, accanto ai corpi degli uccisi, tra i fuochi delle città in rivolta.

E’ necessaria una legge subito, che, distante da ogni possibilità di equivoco sul piano interpretativo, fermi in via definitiva le trame censorie e repressive dei poteri forti del paese, per vocazione illiberali e antidemocratici. E’ altresì necessario che il legislatore prenda atto che l’informazione sul web non può recare limitazioni di principio. La rete è un luogo cardine del nostro tempo, in cui la democrazia prende corpo e voce, con l’esercizio del confronto. Non può essere quindi annichilita, come avviene in Iran e in Birmania.

Si fa appello allora alle realtà del web, della comunicazione a tutti i livelli, del paese civile e responsabile, perché la mobilitazione continui ad oltranza, con iniziative forti. La sentenza siciliana, come ha scritto un blogger, potrebbe essere una delle ultime “perle” di una collana che, giorno dopo giorno, sta mutandosi in un cappio. E si tratta di fare il possibile perché questo non avvenga. Occorre impedire che si consumi in Italia il rogo della libera espressione, memori del resto che i roghi delle idee possono essere preparatori di regimi a scena aperta.


Per adesioni a questo appello (indicare nome, cognome, attività, città): accadeinsicilia@tiscali.it.

Per testimonianze: carlo.ruta@tin.it

Per notizie e  informazioni: www.giornalismi.info/vocilibere - www.leinchieste.com


Una vignetta per la libertà sul web “Siamo tutti clandestini. Solidarietà a Carlo Ruta”

E’ questo il messaggio che, rilevato dai blog, si è deciso di restituire alle realtà del web in Italia. La vignetta, ideata e realizzata da Mauro Biani, intende esprimere, nelle forme dello sberleffo, il profondo dissenso del paese civile nei riguardi dell'oscuramento del sito di Carlo Ruta, che pone seriamente in pericolo il diritto di esistere e di comunicare, garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Aderire alla campagna è semplice: basta copiare sulla home page del vostro sito l’immagine della vignetta.

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