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Il
sistema Caltagirone
Dalle sfide al nord
industriale alla conquista del sud; dall’acquedotto pugliese ai porti
turistici di Sicilia, una storia imprenditoriale emblematica, all’insegna
della Roma caput mundi, con tanti lati in ombra.
di Carlo Ruta
Con la sua morte, Gaetano
Caltagirone chiude in un certo senso l’album dei ricordi della dinastia
romana. Ancora in vita costituiva in effetti l’emblema di un passato, mosso
e ingombrante. Altri nomi della famiglia, con strategie affinate, sono
entrati in gioco, hanno superato i passaggi più tortuosi del paese,
mostrandosi oggi, tanto più oggi, in perfetta linea con i tempi. Con le sue
disinvolture, Gaetano ha tracciato probabilmente delle coordinate, forse è
stato pure un pioniere, percependo già, per esempio, l’importanza del
binomio imprenditoria-giornali. Era tuttavia espressione di un mondo che è
andato fuori tempo. Quelli che si sono fatti avanti, durante e dopo, non
sono venuti allora a raccoglierne il testimone, ma, soprattutto, a
rigettarne l’eredità, dichiarandosi diversi. Ma quanto lo sono nella
sostanza? I Caltagirone, lungo i decenni hanno espresso un metodo, che si è
tradotto man mano in un sistema di potere, in un ordine di cose. Hanno
esercitato un’influenza forte e condizionante sull’informazione, oltre che
sulla politica. La loro storia s’intreccia infatti con quella dei tanti
giornali che sono finiti nelle loro mani. Hanno fatto quindi scuola. E da
tale scuola, forse, ha potuto trarre qualcosa pure Silvio Berlusconi. Oggi
fanno capo alla famiglia romana il Messaggero, il Mattino di Napoli, il
Gazzettino di Venezia, il Corriere Adriatico, il Nuovo Quotidiano di Puglia,
il quotidiano gratuito Leggo, altre testate ancora. I destini degli
imprenditori romani restano saldati comunque ai business industriali che più
contano, alla finanza, alla borsa, alle sedi del potere reale. E per
definirne i modi è il caso di fare, anzitutto, un po’ di storia.
Il passato si è snodato
sugli sfondi della prima Repubblica, che i Caltagirone hanno superato
abilmente, seppure con qualche danno, legato maggiormente alla vicenda
Italcasse: finita, come è noto, con una plenaria assoluzione. Proveniente
dalla Sicilia, da Palermo, la dinastia costituiva, già allora, una
istituzione della capitale: discretamente protetta dalle circostanze, in
grado di contare decisivamente nel teatro dell’economia italiana, e non
solo, quando il cemento erompeva su tutte le linee, fino a permeare di sé la
finanza e a fare aggio sull’imprenditoria padana del miracolo industriale.
Era tuttavia altra cosa, perché del tutto particolare era lo stile, la
visione delle cose che animava taluni componenti della famiglia romana,
Francesco Gaetano in primo luogo, detto Franco, il quale, cresciuto in
relativa sordina nel business delle costruzioni, nei primi anni ottanta ne
diventava la mente strategica. L’attenzione mediatica veniva attratta in
quegli anni da elementi più mossi della famiglia: da Francesco Bellavista,
diviso fra scommesse edilizie e mondanità, come dal più pittoresco Gaetano,
pure lui costruttore di rango, su cui circolava un’ampia aneddotica, fino a
oggi inesausta. I Caltagirone del tempo, a dispetto delle diversità, che non
erano da poco, recavano comunque una comune consuetudine: la contiguità
strettissima con il potere politico della capitale, in particolare con la
componente democristiana di Giulio Andreotti, che più di ogni altra, in
quelle stagioni, andava combinandosi con lo Stato, sullo sfondo di alcuni
affari strategici, sui quali aveva peraltro puntato lo sguardo il cronista
Mino Pecorelli.
Franco riusciva a fare la
differenza in una famiglia che già costituiva un fatto a sé. Volava in
effetti là dove solo i più audaci dell’imprenditoria italiana potevano:
lungo prospettive capaci di garantire, dopo le disillusioni del decennio
settanta, guadagni consolidati, a partire da quelle che combinavano appunto
edilizia e finanza. Nei primi anni ottanta, avocava a sé, per farne un
ariete a tutto campo, la Vianini Spa, operante su scala globale nel comparto
delle grandi infrastrutture. Deciso altresì a giocare risolutivamente la
carta di Roma caput mundi, nei primi anni novanta si aggiudicava, in lizza
con gli Agnelli, la torinese Cementir, terza società italiana nel settore
cementiero. In quella stagione, che vedeva tramontare l’egemonia
democristiana sullo Stato, l’imprenditore della capitale entrava quindi,
d’impeto, nel top dei potenti del paese, mentre il cugino Gaetano, rientrato
in Italia dopo l’assoluzione, riduceva il passo per smarcarsi dalle cronache
e da ogni altra possibile attenzione. Per alcuni settori dell’opinione
pubblica, serviti dall’informazione amica, o di famiglia, ma non solo,
Franco costituiva il Caltagirone migliore. Tale era ritenuto del resto dalla
stessa sinistra, quella più istituzionale almeno, per la duttilità e le
aperture con cui il costruttore romano si proiettava sul nuovo corso della
Repubblica, pure sotto il profilo dell’informazione: offrendo soccorso, per
esempio, a giornali di diversa ispirazione, da «Paese sera», contiguo al
Pds, al «Sabato», di osservanza andreottiana. Il nuovo re del cemento
costituiva in realtà una sfinge, contro la quale perdevano vigore i vecchi
paradigmi, giacché dentro le mura di quell’impero, pur con riguardo per la
tradizione, andava pianificandosi un futuro di traguardi, di concerto ancora
con la politica, ma con approcci differenti.
Come tutta l’imprenditoria
del paese, Franco Caltagirone, aveva dovuto fare i conti con una situazione
magmatica e imprevista, che aveva finito per sedimentare le politiche
berlusconiane. Il suicidio di Raoul Gardini aveva aperto, per certi versi,
il rendiconto di un’epoca, che insisteva, un decennio dopo, ancora
emblematicamente, con lo scandalo Parmalat di Callisto Tanzi. Venivano
incrinati in sostanza miti tenacissimi, a partire da quello che aveva fatto
di Milano la capitale morale, oltre che economica, del paese. La cosiddetta
seconda Repubblica, nel rimescolare le carte, è divenuta allora lo scenario
giusto perché la famiglia romana, pur sempre divisa, potesse consolidare le
proprie sfide. Franco Caltagirone non ha fatto partita comune con
Berlusconi, né si è posto su quella specie di Aventino che vede arroccati,
cauti e dubitanti, alcuni ambiti della finanza e dell’economia reale. Si è
mosso nondimeno da protagonista, fedele, ma in modo nuovo appunto, al «rito
romano» che la famiglia, per quanto con modalità distinte, aveva sempre
osservato. Ha puntato in effetti su una politica duttile, mediana, in grado
di spostamenti a tutto campo, ritrovandola infine, nuova di conio ma erede
anch’essa di una storia, nel partito di Pierferdinando Casini. Ed è la
vicenda di questi anni.
Da quando esordiva come
Ccd, l’Unione centrista ha espresso uno stile, con effetti non da poco al
sud, dove è riuscita ad esercitare un’influenza di tipo dirigistico su
ambiti strategici dell’economia. Facendo tesoro di un certo passato, che non
evoca solo l’andreottismo meridionale, ha finito in sostanza per
«specializzarsi», investendo con calcolo sui disegni di riequilibrio
sollecitati dalla UE, in ambiti come l’acqua, le energie, i rifiuti, le
infrastrutture. Ne sono un po’ l’emblema i processi di «modernizzazione»
avviati in Sicilia da Salvatore Cuffaro e i grandi appalti che si sono
avvicendati in Calabria sotto l’egida di Lorenzo Cesa. Dovrebbero esserne
altresì un risvolto, ai livelli più interrati, i business interregionali,
garantiti ancora dai contributi UE, testimoniati da Francesco Campanella,
già star nascente dell’Unione. Le cronache degli anni zero suggeriscono
beninteso che il partito di Casini, nella coalizione di riferimento, ha
avuto a che fare con competitori agguerriti, in tutte le aree del
Mezzogiorno. La vicenda ondivaga dei Mastella, i tentativi di dar vita a un
partito del sud, l’autonomismo di Raffaele Lombardo, dicono quanto sia
complessa in realtà la trama degli interessi. A dispetto di alcuni
inevitabili rovesci qui e là, come nel caso di Cuffaro, l’Udc regge tuttavia
sulle linee essenziali. Avanza altresì nuove pretese. Mentre rilancia
infatti, con discrete virtualità, l’idea di un grande centro, non ha esitato
a rompere l’accordo con le destre, sempre più ripiegate peraltro, con
l’avallo condizionante della Lega, sul dirigismo padano. Franco Caltagirone,
mossosi ancora una volta con accortezza, può contare, come è evidente, su un
partito sufficientemente romano, che negli attuali frangenti si propone,
sotto il profilo degli affari, come un capitale politico fra i più
spendibili.
Sollecitato
dall’estendersi delle bolle immobiliari, in Italia come altrove,
l’imprenditore romano ha percorso l’ultimo decennio con il rovello della
diversificazione, che si è tradotta, fra l’altro, in una ulteriore incetta
di testate, dal «Messaggero» al «Gazzettino». E in tale quadro gli è venuto
naturale rilanciare la sfida al settentrione, con investimenti a tappeto in
varie aree, a partire comunque dal nord-est, dove ha trovato un sostenitore
veemente nel sindaco di Venezia Massimo Cacciari. Oltre che clamore, gli
arrembaggi finanziari alla Bnl e alla Rcs hanno fatto tuttavia la
differenza, testimoniando peraltro, di riflesso, quando lo stile del
costruttore abbia fatto testo. Più ancora dei cugini, che pure, come nel
caso di Francesco Bellavista, non sono rimasti inerti, Franco Caltagirone ha
incarnato in effetti il mito della liquidità finanziaria, la forza del
contante, del cash, da cui hanno tratto insegnamento, per esempio, quel
Danilo Coppola e quello Stefano Ricucci che con pressappochismo hanno
condiviso con lui alcuni blitz sulla finanza settentrionale. Gli esiti di
quelle vicende, davvero esemplari, sono noti. Se i parvenu non hanno avuto
scampo, lasciandosi dietro l’onta del carcere, Francesco Gaetano ha potuto
trattare e ottenere, nel 2008, l’ingresso al più potente gruppo di
assicurazione in Europa: le Generali. Ha potuto bruciare altresì un
ulteriore traguardo, di rilievo non minore, acquisendo una quota di
prestigio del Monte dei Paschi, che gli è valsa, in un solo colpo, la vice
presidenza del gruppo e la contiguità strategica con alcune multinazionali
che, con quote altrettanto significative, recano rappresentanza nel board
del medesimo, come, attraverso Axa, la francese Suez Gaz de France, leader
mondiale nel business dell’acqua.
L’acqua evidentemente non
è un dettaglio. Pure nella vicenda Caltagirone, come è nelle regole di
questi tempi, il circuito va chiudendosi con i profitti e le utilities
dell’oro blu, giacché proprio questa è la nuova frontiera di Francesco
Gaetano, oltre che il punto di ricongiunzione del medesimo con altri
esponenti della dinastia. La testa d’ariete è costituita nello specifico
dall’Acea, che l’imprenditore romano è riuscito a sottrarre di fatto, con il
nulla osta di Alemanno, al controllo del comune di Roma, per farne, appunto,
un agile strumento di penetrazione: ben oltre i confini regionali, se si
considera che ha già messo radici in Toscana, in Umbria, in Campania, in
Puglia. Ma l’Acea non è sola, trovandosi in gioco la Acque Blu Fiorentine,
che la famiglia romana controlla tramite la Società italiana per i lavori
marittimi, mentre sull’arena del nuovo business, corroborato come è noto da
propositi di finanziamenti della UE, che per i prossimi decenni dovrebbero
ammontare a circa 50 miliardi di euro, ritorna, con il controllo della
storica Acqua Marcia, Francesco Bellavista. Per il gruppo Caltagirone, in
particolare per Francesco Gaetano, si profilano allora percorsi di
partnership inediti, con risvolti in sede internazionale, mirati comunque a
chiudere nel modo più profittevole la corsa alle risorse idriche in Italia,
a partire dal centro-sud, dove, ancora, tutto appare in discussione.
La famiglia Caltagirone
non poteva pretendere di più, ponendosi in un girone d’affari che insiste a
progredire pure in tempi di crisi. Ha dovuto fare i conti beninteso con gli
stranieri, che recano motivi per far pesare il loro status in sede
internazionale. Ma li ha fatti secondo tradizione. Nel panorama italiano
Suez costituisce un fatto consolidato, in competizione con Veolia e la
spagnola Aqualia, venute a patti a loro volta con altri protagonisti del
cemento: dai Pisante di Puglia, proprietari di Galva, al siciliano Pietro De
Vincenzo. In ogni caso, nell’accordarsi, Francesco Gaetano è stato risoluto
nel non cedere il passo. Con pienezza riesce a dirigere infatti le politiche
di Acea, di cui possiede solo il 7 per cento, quando la multinazionale
francese ne detiene una quota di molto superiore. Fedele alla propria
storia, Caltagirone propone in realtà strategie di attacco che possono ben
meritare la condivisione di Gaz de France, come nel caso di Acquedotto
Pugliese, già amministrato dal Tesoro, che il costruttore, proprio
attraverso Acea, intende trarre a sé, di concerto con il partito di Casini e
alcuni interlocutori forti, divisi fra Pd e Pdl. Si tratta della struttura
più grande d’Italia, in grado di rifornire di acqua più regioni. Per
guadagnare terreno nel Mezzogiorno l’operazione pugliese, rimasta fino a
oggi senza esito per l’opposizione tenace della giunta regionale, può essere
assunta quindi come strategica.
Si tratta di una vicenda
sintomatica, dei modi in cui i Caltagirone sono andati posizionandosi al
sud, in senso lato. È opportuno definire allora, da una prospettiva
esemplare, quanto è avvenuto di nuovo e di diverso. Con le politiche di
integrazione UE, l’introduzione dell’euro, l’avvicendarsi delle
privatizzazioni, con l’avvento infine della crisi globale, che sta influendo
non poco sui destini economici del Mediterraneo, pure nell’ambito della
famiglia romana si proceduto a sensibili cambi di paradigma. E nel fluire di
tali aggiustamenti una considerazione inedita è stata riservata alla
Sicilia. È la storia di questi anni, all’insegna di una incalzante
occupazione, che è stata pianificata soprattutto, in sintonia con gli
spostamenti Franco, da Francesco Bellavista, attraverso il gruppo Acqua
Marcia, di cui ha assunto da oltre un decennio la leadership. Il Caltagirone
ha fatto business a tutto campo, a partire dall’industria turistica. A
Palermo, ha avocato a sé Villa Igea e il Grand Hotel des Palmes. A Taormina
ha acquisito il San Domenico. A Catania sta trattando l’acquisizione della
Perla Jonica, già proprietà del costruttore Costanzo. Gli affari più
vistosi, legati ancora al turismo elitario, riguardano comunque le strutture
portuali. Sotto l’egida di Acqua Marcia vanno allestendosi infatti scali
turistici a Siracusa, Catania, Mazara del Vallo, in altre località della
costa sud. Ma quale è il significato di tali operazioni?
L’imprenditore, che,
significativamente, è stato insignito dall’ateneo catanese di una laurea
honoris causa, ha visto bene, giacché le cose nel Mediterraneo evolvono in
modo vertiginoso. Gli accordi che sono seguiti al patto di Barcellona del
1995 hanno modificato gli scenari complessivi, con l’apertura di numerose
aree di scambio. Tangeri, sede di una Free Zone fra le più nevralgiche, si
appresta a divenire il primo porto d’Europa e uno dei maggiori al mondo. La
sponda nordafricana, ancorandosi a India e Cina, ha reagito in modo
esemplare ai rovesci finanziari che hanno sconvolto l’Occidente. In gran
parte dei paesi del Maghreb, oltre che del Vicino Oriente, ancora dopo i
rovesci di Dubai, che pure hanno influito non poco sui trend, il saldo del
PIL è rimasto infatti positivo. Le sollecitazioni al protezionismo appaiono
in sostanza esigue e sormontabili. Francesco Bellavista ha motivo allora di
scommettere su una Sicilia che di qui a pochi anni, a partire soprattutto
dalla costa meridionale, potrà essere utilizzata come una straordinaria
pedana di lancio in direzione del Nord Africa, in tutti i sensi. Francesco
Gaetano, più dotato di senso strategico ma attento all’estro del cugino, per
adesso non si esprime, mantenendo nell’isola una presenza sottintesa, che
nella vicenda delle acque potrebbe essere rilevabile da alcuni passaggi
dell’avvocato Luigi Pelaggi, membro dal 2009 del Cda di Acea, già incaricato
dal governo a gestire l’emergenza idrica nelle Eolie. Tutto lascia pensare
comunque che pure il Caltagirone più facoltoso e quotato stia disponendosi,
come è nel suo stile, a puntate decisive.
Fonte: domani.arcoirs.tv |
Recessione e mafie - 3
L’Africa e le vie della droga
di Carlo Ruta
Più di qualsiasi altra
parte del globo, l’Africa evoca calamità e regressioni militari, nondimeno
costituisce, oggi più che in passato, un mondo eterogeneo, anzitutto sotto
il profilo economico. Se l’immensa regione centrale, di cui è emblema
Korogocho, la “favela” più popolosa del mondo, rimane infatti
irriducibilmente povera, l’intera fascia settentrionale va progredendo,
agganciandosi addirittura al trend di paesi come India e Cina, che in questo
momento, come detto, fanno argine alla recessione. Tutte le regioni
continentali sono comunque accomunate da un fenomeno in crescendo, la
domanda di narcotici: dalla cannabis che, secondo l’Unodc, copre il 63 per
cento dei consumi continentali di droghe, alla cocaina, che copre in Africa
il 20 per cento della domanda globale. Tenuto conto delle enormi sacche di
povertà del continente, tutto questo può apparire paradossale. Testimonia
comunque quanto il narcotraffico possa discostarsi dalle logiche della
normalità economica, in taluni casi fino a sovvertirle, traendo vantaggio da
emergenze di ogni tipo.
Nel contesto di una
economia globale che ha aperto a inedite e impetuose colonizzazioni, su
questo continente il narcotraffico ha puntato in modo strategico. I cartelli
sudamericani hanno avocato a sé territori importanti, fino a farne appunto
un mercato in crescita. Ma hanno fatto di più, aprendo in Africa un
corridoio relativamente sicuro per l’introduzione della coca in Europa.
Dalle coste del Brasile, la polvere bianca, proveniente dalla Colombia, dal
Perù e dalla Bolivia, attraversa l’Atlantico per approdare lungo le coste
dalla Guinea Bissau e della Sierra Leone. Dopodiché, fatte salve le partite
riservate al consumo continentale, risale lungo varie piste, che possono
interessare la Mauritania, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Niger, il Ciad,
per raggiungere le coste mediterranee del Nord Africa, dal Marocco alla
Tunisia, dove viene imbarcata su navi di piccolo cabotaggio e pescherecci
diretti in Spagna, in Italia, in Grecia, nelle coste balcaniche. I numeri
che vengono proposti dall’Unodc, ricavati dalla curva dei sequestri
nell’ultimo decennio, appaiono già considerevoli. Si ritiene infatti che
circa la quarta parte dei carichi di narcotici introdotti in Europa dal Sud
America segua la rotta africana. Tale stima, che si fonda appunto su
certificazioni territoriali, potrebbe essere tuttavia poco indicativa, per
difetto, almeno per due ragioni. La prima è politica. Allo stato delle cose
è verosimile che determinati paesi vadano rendendosi permeabili al commercio
di droghe. La seconda è di terreno. Le aree desertiche del nord, in cui
transitano quantitativi importanti di narcotici, sono troppo estese per
poter essere sottoposte, laddove pure si volesse, a controlli significativi.
I narcos non sono stati
beninteso i soli a puntare sul continente. Seppure con circospezione, si
sono mobilitati pure ambienti dell’oppio del sud-ovest asiatico, ravvisando
un terreno idoneo nella regione orientale, ma soprattutto nel Corno
d’Africa, con la garanzia di una guerra civile endemica che dal 1993 ha reso
l’area fuori controllo. È andata delineandosi così un’attività composita,
divisa fra interessi interni ed esterni, che vede in causa boss afgani, reti
fondamentaliste, clan militari somali, perfino le piraterie del Golfo di
Aden. E tale stato di cose, pure per le saldature che rischia di avere con
altre situazioni continentali, lascia prevedere risvolti non da poco. Va
considerato peraltro che quasi l’intera Africa brulica di traffici, di
affari eterogenei, mentre in diversi paesi si rendono più sostenuti i
disegni di far da sé, di realizzare cioè in via del tutto autonoma l’intero
ciclo delle droghe, dalla produzione al rifornimento dei mercati, locali e
non solo. Si tratta di focalizzare allora tale processo, che reca peraltro
una tradizione importante nel Marocco: ancora oggi fra i primi produttori al
mondo di cannabis.
Il Rif, regione montuosa
del Marocco settentrionale, sin dagli anni settanta costituisce una immensa
distesa di canapa indiana, sostenuta soprattutto dalla richiesta europea.
Come il Sud America e il Triangolo d’Oro, ha coniugato e insiste a coniugare
quindi povertà e ricchezza fino al paradosso. Al livello più basso stanno
intere popolazioni contadine, che traggono dalle coltivazioni solo il minimo
per sopravvivere. In alto risultano i boss, marocchini, turchi, tunisini,
spagnoli, italiani, che muovono l’affare, proiettando l’hashish lungo i
continenti che chiudono il Mediterraneo. Negli ultimi tre anni la situazione
è mutata. Le leggi del governo di Mohammed VI, indotte dall’Onu, sono
divenute più severe. Numerose piantagioni dell’area sono state distrutte. I
rilievi ufficiali dell’Unodc stimano addirittura nel 50 per cento la
riduzione delle superfici coltivate. Ma tutto questo significa poco. La
cannabis viene riconosciuta ancora oggi come la droga più coltivata al
mondo, ma soprattutto la più richiesta. In Africa, dove è preponderante
l’offerta del Rif, è, come si diceva, allo zenit, coprendo il 63 per cento
dei consumi continentali di narcotici. Il dato più rappresentativo continua
a venire comunque dalla sponda nord del Mediterraneo. I sequestri effettuati
negli ultimi anni in Spagna, Italia, Francia, Grecia, in altri paesi
europei, testimoniano infatti che la marijuana prodotta in Marocco, a
dispetto degli interventi delle autorità pubbliche, rimane in tali aree la
più diffusa.
Il presente dell’Africa
non è tuttavia la sola tradizione del Rif: che in termini di commercio
clandestino risale almeno al secondo dopoguerra. È anche altro. È
soprattutto la Nigeria, dove il narcotraffico è gestito da una mafia locale,
fortemente connotata in senso etnico, divenuta di fatto la più coesa su
scala continentale: in grado di tenere testa quindi a quella turca sulle
rotte che si diramano dal Mediterraneo. Particolarmente attivi dagli anni
ottanta, quando il paese fu scosso dalla crisi del petrolio, i nigeriani
hanno potuto godere nell’ultimo decennio di una rendita strategica. Con
l’aprirsi delle rotte africane, il territorio da cui muovono è divenuto
infatti un crocevia del narcotraffico globale. Incombe sulla Guinea Bissau,
chiudendo il golfo in cui sbarca la coca dei narcos. Occupa lo stesso
parallelo del Corno d’Africa, dove transitano gli oppiacei da Oriente. Se
nei primi periodi i boss centro-africani si sono limitati allora a chiedere
l’obolo o reclamare forme minime di partnership, con il tempo si sono meglio
organizzati, elaborando un metodo. Per conto dei sudamericani, controllano
oggi il traffico di coca continentale e una parte non indifferente di quello
europeo. Hanno dato avvio a coltivazioni di papavero, seppure in una misura
discreta, mentre continuano a garantire, ai loro facoltosi contraenti, i
percorsi dell’oppio afgano. Infine, là dove è possibile, fanno gioco a sé,
incentivando soprattutto la coltivazione e la lavorazione della canapa,
tanto da rendere il paese africano, un po’ sulle orme del Marocco, uno fra i
maggiori esportatori di marijuana e hashish.
Come interagisce allora la
recessione di oggi con tale stato di cose, nel continente? È il caso di
esaminare alcuni aspetti generali. La crisi in Africa, come danno conto gli
allarmi lanciati da numerose organizzazioni, sta avendo ripercussioni
sociali pesantissime. Il 2009 si chiuderà, secondo Jean Ping, presidente
dell’Unione Africana, con 27 milioni di nuovi disoccupati. In aggiunta, i
prezzi dei beni primari stanno aumentando in modo esorbitante, con l’effetto
di una carestia che le popolazioni, già provate da piaghe ataviche, non sono
in grado di fronteggiare, tanto più nei paesi sub-sahariani. Vanno
accendendosi quindi tensioni che rischiano di alimentare l’instabilità
politica, già notevole, e gli scontri fra etnie. Si è entrati insomma nel
tunnel di una emergenza che, come denuncia Amnesty International in un
rapporto del maggio 2009, rende l’intero continente una polveriera pronta ad
esplodere. In questo clima un peso crescente sta assumendo comunque la
questione delle droghe. Nessun risultato statistico, beninteso, può
attestare che negli ultimi mesi il traffico e il consumo di tali sostanze
nel continente siano alimentati dalla crisi. Esistono nondimeno situazioni
di cui va preso atto, a partire dalle aree cruciali del narcotraffico, dove
proprio in questi frangenti si registrano evoluzioni drammatiche.
In Guinea Bissau è in atto
una strategia di delitti che ha assunto il significato di un golpe. Il 2
marzo 2009 è stato ucciso, per mano militare, il presidente Joao Bernardo
Vieira, che aveva guidato il paese per 23 anni. A giugno, poco prima delle
elezioni, sono stati assassinati: Baciro Dabo, maggiore candidato alla
successione; Helder Proença, già ministro della Difesa e stretto
collaboratore di Vieira; Faustino Fudut Imbali, primo ministro dello stato
africano dal marzo al dicembre 2001. Un altro candidato alla presidenza è
stato indotto invece a ritirarsi, per salvare la vita. Le movenze sono
quelle di una guerra intestina sul terreno dei narcotici, su cui, oltre le
apparenze, hanno puntato con abbondanza tanto i dignitari di Vieira quanto i
militari che adesso tengono il gioco. Tutto richiama quindi i cartelli
sudamericani, determinati, con i loro contraenti del Golfo, a bruciare i
tempi della conquista continentale. Tale situazione appare altresì coerente
con quella della confinante Guinea Conakry, dove il 23 dicembre 2008, dopo
l’annuncio della morte del presidente Lansana Conté, che aveva mantenuto il
potere per 25 anni, si è insediata una giunta militare golpista, guidata dal
capitano Moussa Dadis Camara. Il canovaccio è uguale. Il regime di Conté,
come si evince da numerosi rapporti, a partire da quelli della Lega
guineense per i diritti umani, era sceso a patti con il narcotraffico. La
giunta di Camara fa altrettanto, ma con più metodo, malgrado ostenti di aver
dichiarato guerra alle droghe.
Gli effetti della
connessione afro-sudamericana si fanno in sostanza sempre più preoccupanti.
Se ne trova riscontro quindi nelle prese di posizione che vanno sommandosi a
tutti i livelli. Di ritorno dal Golfo, Mary Carlin Yates, direttrice della
DEA, l’agenzia antidroga dell’FBI statunitense, ha dichiarato che il
traffico di narcotici, già gigantesco, sta crescendo ancora, con il rischio
di destabilizzare ulteriormente gli stati della regione. Jean Ping, che
esprime per certi versi l’opinione generale del continente, ha aggiunto che
il narcotraffico di stanza in Guinea e in Sierra Leone sta mettendo a
rischio la pace non solo dell’area, ma dell’Africa intera. E del medesimo
avviso, sulla scorta di dati tratti dagli uffici di polizia, è il ministro
dell’Interno colombiano Fabio Valencia Cassio, trovando la colonizzazione
africana dei narcos in netta progressione. Un dettaglio della situazione sul
terreno, dall’epicentro della Guinea Conakry, viene offerto comunque dal
capitano Moussa Tiégboro, ministro della giunta militare che dovrebbe
combattere i narcos: in tutto il paese, a dispetto dei livelli di povertà,
fra i più alti su scala continentale, anche le tossicodipendenze sono in
aumento.
In modo ugualmente severo
sta evolvendo la situazione del Corno d’Africa. Il consumo di Khat, la cui
coltivazione costituisce per gran parte delle famiglie contadine l’unica
risorsa per sopravvivere, come del resto in Kenia, in Etiopia e altrove,
continua a diffondersi con ritmi ascendenti. Prova ne è che nella sola
Somalia tale droga muove un giro d’affari di circa 70 milioni di dollari
l’anno, più di quanto ne registrano in bilancio gli stati più poveri della
regione. Insieme con l’eroina dell’Afganistan, che viene irradiata appunto
in tutto il continente e oltre il Mediterraneo, continua ad alimentare
quindi i conflitti territoriali. Le ripercussioni sul terreno sono sempre
più devastanti, con saldature tattiche fra clan militari, narcotrafficanti
dell’oppio, reti terroristiche islamiche, mentre lo stato di indigenza e i
disagi della guerra sempre più vanno traducendosi in progressi dell’Aids e
in violenza. Un effetto clamoroso di tale impasto fra guerra, povertà e
droghe è la pirateria del Golfo di Aden che, dopo decenni di relativa
sordina, si trova in piena recrudescenza. L’esercito dei nuovi bucanieri,
impinguatosi di anno in anno, con picchi recenti del 200 per cento, conta
oggi su circa 2 mila unità. Ha rinnovato strategie e metodi operativi,
traendo quanto gli occorre dai sequestri, ma pure dall’eroina e dal Khat. È
andato dotandosi altresì di armi sofisticate, tecnologie, mezzi logistici,
mettendo a frutto gli accordi che è riuscito a cucire, lungo gli anni, con i
mujahedin e i signori della guerra di Mogadiscio. Si tratta uno scorcio
beninteso, sullo sfondo dei conflitti dimenticati e del narcotraffico.
Quanto accade nel Golfo esemplifica tuttavia i caratteri di una emergenza
che si è resa debordante, a dispetto della decisione dell’Africom, a guida
statunitense, di intervenire nell’area. La denuncia che viene da numerose
sedi, ufficiali e non solo, è del resto unanime: la faglia del Corno
d’Africa rischia oggi di far saltare gli equilibri residui dell’intero
continente, al pari di quella delle Guinee ma forse più ancora, perché
acutizzata appunto da guerre senza fine.
Fonte: domani.arcoiris.tv |
Recessione e mafie - 2
Le nuove frontiere del narcotraffico
di Carlo Ruta
Fin qui emerge un dato di
fondo. In tutti i continenti, negli ultimi decenni le economie di origine
illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste, correlandosi
alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È andato stabilizzandosi
per ciò stesso il raccordo delle mafie con i maggiori business, dalla
speculazione immobiliare all’industria dei metalli, dalle energie naturali e
rinnovabili all’acqua. Le classifiche di Forbes, che hanno visto scalare un
gran numero di magnati dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che
autentici gangster, ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire
tuttavia scenari nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti
nelle economie clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di
armi, le tratte degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero
essere non da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali
traffici su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai
governi. A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni
sovranazionali, a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni
novanta ha sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di
sostanze stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù e
Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in cambio di
aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di crisi? I dati che
vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni, a partire
appunto dal narcotraffico.
I ritmi di
modernizzazione, più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito
per incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici.
Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con snodi
particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano le
cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare un
capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti i
paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire a vari
livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per poter
comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione del medesimo.
Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto concordanti con i
numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc, Ufficio dell’Onu che
sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono significativi.
Nel Sud America, capoluogo
strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita.
Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie
prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni di
persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua però a
progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo le Ande vanno
estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi. La produzione
di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le regioni aumenta infine
il consumo di narcotici, mentre migliorano le facoltà di produzione di
droghe sintetiche. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nel marzo 2009
dalla Latin American Commission on Drugs and Democracy, diretta da Fernando
Cardoso, già presidente del Brasile, César Gaviria, già presidente della
Colombia, Ernesto Zedillo, già presidente del Messico. È quanto affiora
altresì da ricerche specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico
dell’associazione Libera, un team di economisti delle università di Bologna
e Trento è intervenuto sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30
mila dati, oggettivi, tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha
concluso che nel 2008 sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500
tonnellate di cocaina, a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.
A dare conto delle cose
sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute a
tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla Colombia
grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande, spesso con
vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi inauditi,
malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza Lula. In
Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata registrata nel
2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di droga, mentre in
Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi, nello stesso anno,
è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore cioè alla media
mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente
dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha potuto
dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più della crisi
economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc, Antonio Maria Costa,
tali soprassalti di violenza proverebbero che il mercato della cocaina nei
paesi latino-americani va contraendosi. In realtà la storia delle mafie,
dalla Chicago anni trenta alla Palermo anni settanta, dalla Colombia degli
anni ottanta alla Russia degli anni Duemila, indica che gli scoppi di
tensione, pur originati da contesti di crisi e di rottura, recano spesso
logiche e significati del tutto differenti, correlandosi con poste in gioco
che, proprio in determinati frangenti, anziché ridursi, si fanno più
attraenti e remunerative.
Alla luce dei fatti, la
situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene conto
delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi in tante sedi,
pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government Accountability Office
la guerra ai narcos sudamericani viene presentata come persa, con l’avallo
del vice presidente degli Usa Joe Biden, a fronte dei miliardi di dollari
che le precedenti amministrazioni hanno erogato ai paesi produttori.
L’Office National Drug Control Policy suggerisce quindi svolte radicali, in
senso strategico, a dispetto dei freni che permangono negli States. Il
convincimento di una partita persa, che un recente sondaggio ha visto
condiviso dal 71 per cento degli statunitensi, si fa largo altresì in
America Latina, dove con forza sempre maggiore viene reclamata la
sostituzione del paradigma, repressivo dalla produzione al consumo, che
finora ha ispirato la lotta al narcotraffico. La Commissione di Cardoso,
Gaveria e Zedillo ne indica uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di
droghe come problema di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi.
E su tale linea convergono associazioni e altri alti esponenti della
politica, come l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più
espressamente, di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non
mancano del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato
colombiano, con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre
insiste nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo
di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche, per
contrastarne il traffico illegale.
In definitiva, il business
delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con
conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non si
tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi in ogni
altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo a
imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde, di
capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri a dispetto
della war on drugs.
La recessione in Asia va
esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda,
interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni,
stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est, dal
Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo che
ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni in più
di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi hanno fatto
argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù pure dei cambi
monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con una vistosa riduzione
dei ritmi di crescita. Eppure le economie della droga, lungo tutto il
continente, stanno mostrando di non temere la crisi. Come in America Latina,
contano anzitutto sull’abbondanza del prodotto base: nel caso, sulle
coltivazioni di papaveri da oppio che ricoprono l’Afghanistan, la Birmania,
il Laos, la Thailandia, il Nepal. L’Onu ha conseguito beninteso dei
risultati, soprattutto in Laos e in Birmania, dove nel 2008 sono andate
distrutte piantagioni per migliaia di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben
lontani da annunciare svolte, tanto più se si considera che sono gli stati
stessi, interlocutori delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il
tornaconto, diretto o indiretto, che recano nel business, dal traffico in
senso stretto al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in
Birmania sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano
comunque di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su
scala continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle
medesime. Non è poco, evidentemente.
Le amfetamine e le
metamfetamine contano oggi su una produzione distribuita in tutti i
continenti. E ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode
edonistiche, dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal
disagio, dal deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici
ne sono divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui
si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione del
prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di consumo
nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri un’area di
forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata ai gruppi che
trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani, cinesi. Lungo
tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero territorio del
Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono prodotte, in
quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di una variante detta
ketamina, destinate in buona misura all’estero. Quale può esserne la logica,
in una terra che abbonda fino all’inverosimile di papaveri da oppio? Di
certo, non è la prova che le droghe tradizionali stiano entrando in crisi,
perché il consumo di oppiacei, di eroina in particolare, nei primi mercati
al mondo, l’Europa e il Nord America, proprio non demorde. Potrebbe essere
invece l’esito di una studiata diversificazione, legata a un orizzonte di
domanda che va ampliandosi, con esiti sempre maggiori nei paesi in via di
sviluppo, in favore delle droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni
caso che le economie degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono
essere mosse da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni
asiatiche le cose vanno appunto in tale direzione.
Un caso emblematico è
quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati
vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati
ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per gli
stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il controllo
ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì che i grandi
deserti della penisola divenissero corridoi di transito degli oppiacei da
Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano l’Afghanistan alla
Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia.
Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia in modo dirompente. L’Arabia
Saudita risulta essere uno dei paesi in cui più vengono prodotti e si
consumano droghe sintetiche, soprattutto ecstasy e amfetamine del tipo
captagon. Prova ne è che nel 2007 ne sono stati sequestrati quantitativi
record, pari a un terzo di quelli scoperti globalmente, a fronte dell’1 per
cento registrato lungo il perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma
in una misura discreta pure le tradizionali, dal momento che le sfere di
produzione e di distribuzione di massima coincidono, stanno intaccando
insomma le frontiere più solide dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che
vanno emergendo, c’è motivo di ritenere che la recessione, pur trattandosi
di aree ben compensate dalle economie del petrolio, stia alimentando tale
trend.
Vanno giocandosi in
sostanza due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato
stabile, che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto
più nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto. Il
mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari
all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe, si
manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce, in
grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili. Le
mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore delle
aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione e
innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui la
coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca un mondo
strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano appunto un
continuum, un’offerta articolata, convergono, come si è detto, interessi
molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani, thailandesi. È decisiva
comunque l’influenza delle Triadi cinesi, egemonizzate dalle compagini di
Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo gli accordi che le medesime hanno
concluso con Khun Sha, che nel Triangolo d’Oro fa ormai da decenni le regole
dell’oppio, forte di un esercito personale di 8 mila uomini. Il quadro degli
interessi, per quanto diviso sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se
i potentati militari del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State
Army birmano, usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le
linee dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi
territoriali, sono in grado di animare scenari ben più ampi.
Non è possibile definire
beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione in questo
particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici da Oriente
appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con guadagni aggiuntivi
per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per le mafie potenti che hanno
scortato i transiti dell’oppio: da quella russa, che con il narcotraffico ha
costruito imperi, oggi stimati e quotati nelle maggiori Borse
internazionali, a quella turca, che si potrebbe candidare a nuovi ruoli. È
il caso di soffermarsi su questo punto. I boss turchi hanno recato sempre
una posizione di prim’ordine lungo le vie dell’eroina che dal sud est
asiatico puntano in Europa, attraverso i Balcani. Forti della loro posizione
mediana, hanno stretto relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno
stabilito basi in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche
dell’Asia Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni
dell’Asia sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo
Persico, mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il
Mediterraneo, che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di
Ankara in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto
di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come,
probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è possibile
rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle regioni,
penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono registrate
mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto, facoltà logistiche
possano competere con quelle turche.
In definitiva, non sembra
che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista,
sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno in
affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni di
conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro cicliche in
determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe è invece la
capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale inimicizia fra le
Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie asiatiche a darne
esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una integrazione sufficiente.
Va preso atto d’altronde che i signori della droga si sono dimostrati
previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi, diversificando, delocalizzando,
puntando alla conquista di nuove aree, di produzione e di consumo,
stabilizzando infine i mercati fondamentali, con ogni sorta d’incentivo.
L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la
conquista, pianificata dai sudamericani e non solo, di un intero continente,
che era rimasto a lungo marginale nei traffico di narcotici: l’Africa.
Fonte: domani.arcoiris.tv |
Inceneritori di Sicilia. Le oscurità di una società milanese e i danni
possibili di un subappalto da record |
Rifiuti in Sicilia. Le prospettive di un
affare da cinque miliardi di euro. |
Logiche di un potere siciliano. L’Arra di Felice Crosta. |
Il business del secolo in Sicilia
Acqua,
un affare che scotta
Come gruppi economici e
consorterie territoriali stanno appropriandosi delle risorse idriche di una
regione che possiede tanta acqua mentre, per paradosso, ne patisce
endemicamente la mancanza. La presenza discreta della multinazionale
spagnola Aqualia. Le strategie della società catanese Acoset. L’anomalia del
sudest.
In Sicilia i processi di
privatizzazione dell’acqua che vanno dipanandosi negli ultimi anni si
raccordano con una tradizione composita. Se si dà uno sguardo alla storia
post-unitaria, si constata infatti che l’accaparramento delle fonti, delle
favare per usare il termine di derivazione araba, ha scandito con regolarità
l’evoluzione legale e illegale dei ceti che hanno esercitato dominio
sull’isola. Il controllo delle acque ha consentito di lucrare rendite
economiche e posizionali importanti, di capitalizzare, di chiamare a patti
le autorità pubbliche, di condizionare quindi gli atti dei municipi, degli
enti di bonifica, di altre istituzioni. E il canovaccio di tale affare, di
rilievo appunto strategico, ancora oggi rimane tale, benché si faccia uso di
strumenti e progettazioni non più a misura di un mondo agrario più o meno
statico, ma di una realtà in profonda evoluzione, sullo sfondo delle
economie globali. Si tratta di comprendere allora i modi in cui si coniugano
oggi i due elementi, innovazione e tradizione, a partire comunque dal dato
che anche in Sicilia si vive al riguardo un passaggio epocale, dopo il lungo
tragitto delle aziende municipalizzate, che sempre e comunque hanno dovuto
fare i conti con i signori delle fonti.
Nel quadro dei processi
generali che hanno reso l’acqua una risorsa economica, una merce, che chiama
in causa multinazionali potenti come Suez, Vivendi, Impresilo, RWE, la legge
Galli del 5 gennaio1994 sugli ambiti territoriali ottimali, ATO, ha segnato
una svolta rispetto al passato, puntando a eliminare la frammentazione che
fino a quel momento aveva caratterizzato la gestione idrica nel territorio
nazionale. Pur sottolineando sin dall’incipit il rilievo dell’acqua quale
bene pubblico, ha posto nondimeno le basi per l’irruzione dell’interesse
privato nella gestione dei servizi idrici degli ATO, con il ricalcolo di
tale risorsa sotto il profilo economico. E tutto questo, se, come si diceva,
non poteva non sommuovere, in senso lato, l’interesse della grande finanza,
come testimonia negli ultimi anni il coinvolgimento di banche come
l’Antonveneta, la Fideruram e altre ancora, ha finito con il sollecitare una
pluralità di interessi, con l’esaltare anomalie esistenti e generarne di
nuove, specie nel sud della penisola e in Sicilia, dove l’economia più di
altrove è inficiata da mali strutturali, dove vigono appunto tradizioni
tipiche, che rendono ineludibile l’ipoteca delle consorterie.
La posta in gioco in
Italia è ovviamente altissima, potendo comprendere, fra l’altro, gli ingenti
finanziamenti a fondo perduto che l’Unione Europea ha destinato a tali
ambiti, perché vengano eliminati i gap che interessano il paese. Tanto più
lo è comunque in regioni in cui le strutture e gli impianti esistenti
scontano deficit strutturali, consolidatisi lungo i decenni. È il caso della
Sicilia, dove l’EAS e le municipalizzate hanno gestito regolarmente impianti
obsoleti, dove quasi tutti gli invasi recano vistosi segni d’incuria, le
infrastrutture restano esigue, le condutture fatiscenti e in una certa
misura da rifare. Il progetto di privatizzazione nell’isola ha potuto quindi
fregiarsi di un obiettivo seducente, quello della modernizzazione dei
servizi idrici che, dopo anni di attesa interlocutoria, è stato agitato come
una sorta di rivoluzione dal governo regionale di Salvatore Cuffaro. E dal
decisionismo, sufficientemente mirato, del ceto politico di cui l’ex
presidente conserva in una certa misura la rappresentatività, corroborato
comunque dai trasversalismi che insistono a connotare la vicenda pubblica
nella regione, ha preso le mosse, negli ultimi anni, una sorta di caccia
all’oro.
L’affare dell’acqua reca
in Sicilia dimensioni inedite. Sono in gioco infatti 5,8 miliardi di euro,
da amministrare in trenta anni, con interventi a fondo perduto dell’Unione
Europea per più di un miliardo di euro. Dopo un primo indugio, dettato
presumibilmente da ragioni di cautela, che ha visto comunque diverse gare
andare a vuoto, la scena si è quindi movimentata, con l’irruzione di
importanti realtà economiche, interne all’isola ed esterne. Una fetta
cospicua dell’affare è stata avocata dalla multinazionale francese Vivendi,
socia di maggioranza della Sicilacque spa, che, dopo la liquidazione
dell’Ente Acquedotti Siciliani, ha ereditato la gestione di 11 acquedotti, 3
invasi artificiali, 175 impianti di pompaggio, 210 serbatoi idrici, circa
1.160 km di condotte e circa 40 km di gallerie. In diverse ATO si è già
provveduto, altresì, alle assegnazioni. Nell’area di Caltanissetta si è
imposta Caltaqua, guidata dalla spagnola Aqualia. A Palermo e provincia ha
vinto il cartello Acque potabili siciliane, di cui è capofila Acque potabili
spa, controllata dal gruppo Smat di Torino. Nell’area etnea la guida del
Consorzio Ato Acque è stata assunta dalla catanese Acoset. Ad Enna ha vinto
Acqua Enna spa, comprendente Enìa, GGR, Sicilia Ambiente e Smeco. A Siracusa
vige la gestione mista della Sogeas, che vede presenti, con l’ente
municipale, la Crea-Sigesa di Milano e la Saceccav di Desio. Ad Agrigento è
risultata aggiudicataria la compagine Agrigento Acque che fa capo ancora ad
Acoset. Negli altri ATO le gare rimangono sospese.
È la prima fase
ovviamente, quella dei grandi appalti, che è preoccupante non solo per la
virulenza con cui i poteri economici incalzano e mettono in discussione le
istanze della democrazia, degradando un bene comune qual è l’acqua a merce,
ma, di già, per i modi in cui evolvono le cose, in ossequio appunto a una
data tradizione. In relazione più o meno diretta con grandi società estere e
italiane interessate all’affare Sicilia, vanno muovendosi infatti ambienti
economici discussi, a partire dai Pisante, le cui imprese risultano
inquisite dalle procure di Milano, Monza, Savona e Catania per una varietà
di reati: dal pagamento di tangenti all’associazione mafiosa.
Già coinvolta nell’isola
in vicende legate agli inceneritori, tale famiglia si è mossa con intenti
strategici. Si è inserita, tramite la controllata Galva spa, nel
raggruppamento guidato da Aqualia, per la gestione idrica nel Nisseno.
Partecipa con un buon 8,4 per cento alla società aggiudicataria nel
Palermitano, Acque potabili siciliane spa. Tramite le società Acqua, Emit, e
Siba detiene una discreta quota azionaria di Sicilacque che, come detto, ha
rilevato dall’EAS il controllo delle grandi risorse idriche regionali.
Ancora per mezzo della Galva partecipa altresì alla compagine vincente
nell’Agrigentino, Girgenti Acque, di cui è capofila Acoset, che con Aqualia
ha concorso in varie province. Ha invece perso nel Catanese, perché, l’AMGA
spa, capofila della compagine entro cui correva, in competizione con Acoset,
per l’aggiudicazione dell’ATO 2, è stata esclusa dalla gara.
Nelle mappe dell’acqua
assumono altresì rilievo due noti imprenditori siciliani: l’ingegnere Pietro
Di Vincenzo di Caltanissetta e l’ennese Franco Gulino, che vanno facendo non
di rado gioco comune, pure di concerto con i Pisante. Il primo, cui sono
stati confiscati beni per circa 300 milioni di euro, ha assunto la gestione
dei dissalatori di Trapani, Gela, Porto Empedocle, Lipari e Ustica,
indubbiamente strategica. È stato l’unico offerente nella gara per la
gestione idrica di Trapani, poi sospesa. In competizione con le imprese di
Caltaque, ha corso altresì per l’appalto ATO di Caltanissetta, dentro la
compagine NissAmbiente, che comprendeva pure l’Altecoen di Franco Gulino.
Quest’ultimo poi. Proprietario di un gruppo di quaranta società operanti in
diverse regioni italiane, con interessi pure in Sud America, è stato
rinviato a giudizio a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa,
per l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, che tramite l’Emit ha coinvolto
pure i Pisante. Con l’Altecoen, che la stessa Corte dei Conti siciliana ha
definito nell’aprile 2007 un’azienda “infiltrata dalla criminalità mafiosa”,
si è introdotto nell’affare dei termovalorizzatori, per uscirne con ingenti
guadagni. Ancora tramite l’Altecoen, è stato presente nella Sicil Power di
Adrano, insieme con la DB Group, presente nei raggruppamenti guidati dalla
catanese Acoset.
Tutto questo definisce
evidentemente un ambiente, che fa da sfondo peraltro a fatti e atteggiamenti
ancor più preoccupanti. Si tratta del lato più oscuro del processo di
privatizzazione, di cui emergono un po’ le coordinate nelle dichiarazioni di
un reo confesso, Francesco Campanella, ex presidente del consiglio
municipale di Villabate, sulla costituzione del consorzio Metropoli Est,
finalizzato al controllo delle acque in alcuni centri del Palermitano. Fatti
sintomatici si rilevano comunque in quasi tutte le aree dell’isola:
dall’Agrigentino, dove i sindaci di Bivona e Caltavuturo hanno denunciato le
logiche dubbie invalse negli appalti di manutenzione, a Ragusa, dove sin
dagli inizi della vicenda ATO è stato un crescendo di atti intimidatori. E
si è ancora agli esordi.
In linea con le
consuetudini, vanno delineandosi in sostanza due livelli: quello della
gestione idrica in senso stretto, conteso da multinazionali e grandi società
del settore, non prive appunto di oscurità, e quello dell’impiantistica,
lasciato in palio alle consorterie territoriali, che recano ragioni
aggiuntive, oggi, per porsi all’ombra di poteri estesi e ineffabili. Un
quadro definito degli interessi potrà aversi comunque con l’entrata nel vivo
degli ammodernamenti, nella danza di bisogni e pretese che sempre più verrà
a stabilirsi fra appalti e subappalti. Solo allora l’obolo alla tradizione
verrà richiesto con ampiezza: quando in profondo si tratterà di fare i conti
con il privato che cova già nei territori, quando si tratterà altresì di
saldare i conti con la parte pubblica, in sede municipale, provinciale,
regionale.
In questa fase, in cui
alcuni raggruppamenti recano caratteri di veri e propri cartelli, la logica
prevalente rimane quella delle concertazioni a tutto campo, che traspare,
fra l’altro, in certi movimenti mirati, prima e dopo le aggiudicazioni: tali
da pregiudicare talora la linearità delle gare. Un caso esemplare, che ha
avuto pure risvolti parlamentari, con una interpellanza del deputato Filippo
Misuraca, è quello di Caltanissetta, dove la IBI di Pozzuoli, capofila della
compagine esclusa dalla gara ATO, ha presentato ricorso contro Caltaqua, per
ritirarlo appena avuta l’opportunità di inserirsi, con l’Acoset di Catania
che l’affiancava, nel gruppo assegnatario, attraverso l’acquisizione di una
quota cospicua dalla Galva del gruppo Pisante. Tutto questo, a dispetto
delle leggi e delle direttive comunitarie, che vietano qualsiasi
modificazione all’interno delle compagini vincenti.
Il processo di
privatizzazione in Sicilia non sta recando comunque un decorso facile. Ha
suscitato tensioni politiche, tali da rendere difficoltose le
aggiudicazioni, mentre ha agitato la protesta delle popolazioni, allarmate
dai rincari dell’acqua che ovunque ne sono derivati. Per tali ragioni a
Trapani e Messina le gare rimangono sospese, con rischi di commissariamento
dei rispettivi ATO, mentre a Ragusa si è arrivati addirittura a un
ripensamento, per certi versi un dietro-front, che ha coinvolto gran parte
dei sindaci dell’area. E proprio la vicenda di quest’ultima provincia segna
nel processo una vistosa anomalia.
Sotto il profilo
economico, il sudest, da Catania alla provincia iblea, reca tratti distinti.
È la sede principale delle colture in serra, lungo i percorsi della fascia
trasformata. È area d’insediamento di grandi centri commerciali, con poli
importanti a Misterbianco, Siracusa, Modica e Ragusa. È territorio di una
banca influente, la BAPR, che riesce a collocarsi oggi, per
capitalizzazione, fra le prime venticinque banche in Italia. In virtù
dell’integrazione cui può godere, sempre più va facendosi altresì un’area di
forte interlocuzione economica, a tutti i livelli, con risvolti operativi
non da poco. Se ne hanno riscontri nella politica concertata dei poli
commerciali, quelli indicati appunto, e tanto più negli accordi strategici
che vanno maturando nel mercato immobiliare, nella grande distribuzione
alimentare, nel mercato ittico, nella costruzione di opere pubbliche,
infine, dopo la svolta della legge Galli e le sollecitazioni dal governo
regionale, nello sfruttamento privato delle acque. In quest’ultimo ambito
infatti la catanese Acoset, ponendosi a capo di un raggruppamento coeso, ha
deciso di guadagnare terreno oltre il territorio etneo, mentre la Sogeas di
Siracusa, pur avendo introdotto soci privati, cerca di mantenere, al
momento, un contegno più prudente.
Negli ultimi anni la
società catanese è stata al centro di numerose contestazioni, da parte di
enti e comitati di cittadini che ne hanno denunciato, oltre che i canoni
esosi, le carenze di controllo. Il caso più clamoroso è emerso nel 2006
quando nell’acqua da essa erogata in diversi centri sono state rilevate
concentrazioni di vanadio nocive alla salute. La Confesercenti di Catania è
intervenuta con esposti ad autorità competenti e al Ministero della Salute.
Il comune di Mascalucia ha aperto in quei frangenti un contenzioso, negando
la potabilità dell’acqua. Per la mancata erogazione in alcuni centri,
l’azienda è stata inoltre censurata dal Codacons e, in un caso almeno, è
stata indagata dalla magistratura etnea. A dispetto comunque di simili
“incidenti”, che definiscono il piglio dell’azienda mentre incrinano, in
senso lato, le sicurezze sulle qualità del servizio privato, l’Acoset,
potendo contare su alleati idonei, ha assunto i toni e le pretese di un
potere forte.
Nata nel 1999 come azienda
speciale, che ai fini della gestione idrica consorziava venti comuni
pedemontani, l’impresa presieduta dal geometra Giuseppe Giuffrida si è
trasformata nel 2003 in società per azioni, con capitale pubblico e privato.
Nello slanciarsi lungo la Sicilia, ha stabilito rapporti con ambienti
economici mossi. Nella compagine di Girgenti Acque, di cui è capofila, ha
associato la Galva del gruppo Pisante e una società che fa capo alla
famiglia Campione, discussa per vicende che ne hanno riguardato un
componente. Nel medesimo tempo, con le movenze tenui che accomunano tante
imprese dell’est siciliano, l’Acoset è riuscita ad aver voce negli ambiti
decisionali che più contano nell’isola. Un test viene ancora
dall’Agrigentino, dove, malgrado l’opposizione di ventuno sindaci, che
avevano chiesto l’annullamento dell’aggiudicazione, la società catanese è
riuscita a mettere le mani comunque sull’affare idrico, con la condivisione
forte del presidente provinciale degli industriali, Giuseppe Catanzaro, del
direttore generale in Sicilia dell’Agenzia regionale per i rifiuti e le
acque, Felice Crosta, del presidente della regione Cuffaro.
Pure i numeri sono quindi
divenuti quelli di un potere in evoluzione. Quale socio privato dell’ATO 2
di Catania, l’impresa eroga l’acqua a 20 comuni etnei, per circa 400 mila
abitanti. Da capofila della società Girgenti Acque ha sbaragliato potenti
società italiane ed estere, come Aqualia appunto, aggiudicandosi un affare
che le farà affluire in trenta anni 600 milioni di euro, di cui circa 100
milioni dall’Unione Europea. Con una quota minima, ceduta dalla Galva dei
Pisante, risulta presente nel gruppo Caltaqua, aggiudicatario della gestione
idrica del Nisseno. Sin da quando si è profilato il business della
privatizzazione, con un raggruppamento d’imprese che comprende pure la BAPR,
ha deciso di puntare altresì a sud, gareggiando ancora con la multinazionale
iberica, per assicurarsi la gestione dei servizi idrici di Ragusa, che
recano una posta di oltre mezzo miliardo di euro, di cui circa 100 mila
della UE. Se avesse centrato tale obiettivo oggi avrebbe in pugno un quinto
circa dell’intero affare siciliano.
I giochi apparivano fatti.
Delle tre società concorrenti, Saceccav, Aqualia e Acoset, la prima, che
concorreva già per insediarsi all’ATO di Siracusa, è stata esclusa dalla
gara per motivi che sono apparsi sospetti, tali da indurre uno dei
commissari, il prof. Francesco Patania, a dimettersi e presentare un esposto
alla procura di Ragusa. La seconda, che di lì a poco avrebbe avocato a sé la
gestione idrica del Nisseno, per certi versi si è ritirata perché non ha
risposto all’invito della commissione di dichiarare se persisteva il suo
interesse alla gara. La compagine di Acoset, che al medesimo invito ha
risposto affermativamente, aveva quindi ragione di sentirsi vincitrice. Le
cose sono andate tuttavia in modo imprevisto. La maggioranza dei sindaci,
che nel giugno 2006 si erano espressi a favore della gestione mista,
pubblico-privata, nella seduta del 26 febbraio 2007 hanno deciso di avviare
infatti la procedura di annullamento della gara perché difforme alle
direttive dell’Unione Europea. E il 2 ottobre del medesimo anno la gara è
stata annullata. Ma perché è avvenuto tale ripensamento e, soprattutto,
quali giochi reggevano, e reggono tutt’ora, l’affare acqua del sud-est?
Lo schieramento di Acoset
per l’ATO di Ragusa reca conferme di rilievo e qualche accesso. Rimane forte
la presenza catanese, con Acque di Carcaci, Acque di Casalotto e la COESI
Costruzioni Generali. Con opportuni scambi posizionali vengono altresì
confermate, perché strategiche, due presenze: la IBI di Pozzuoli, con cui
nel Nisseno la società catanese ha condotto l’operazione di trasbordo in
Caltaqua, che ha suscitato allarme nella Sicilia tutta e prese di posizione
parlamentari; la DB Group che, tramite la Sicil Power, costituisce un punto
di contatto fra l’Acoset e il gruppo di imprese che fa capo alla famiglia
Pisante. Inedita è invece, ma pure sintomatica, la partecipazione della BAPR,
che meglio di ogni altra realtà compendia il potere finanziario del sudest.
La banca iblea ha fatto una scelta anomala, per certi versi controcorrente,
dal momento che nessun altro istituto di credito dell’isola ha deciso di
porsi in campo. Ma l’ha fatta a ragion veduta.
Nel quadro degli scambi
che vigono nell’est siciliano, la BAPR costituisce una presenza di peso, in
grado di interloquire con tutte le economie, a partire comunque da quelle
legate all’edilizia e all’innovazione agricola. Reca una dirigenza solida,
attenta alla tradizione, non priva tuttavia di impeti modernistici, che
tanto più si avvertono nell’attivismo di Santo Cutrone, consigliere di
amministrazione, costruttore, componente della giunta CCIIA di Ragusa, vice
presidente siciliano dell’ANCE. Forte dei ruoli rivestiti, Cutrone ha potuto
stabilire relazioni da vicino con l’imprendtoria catanese, inclusa quella
legata all’acqua. Con la CG Costruzioni, di cui è proprietario, ha fatto
affari comuni con l’ingegnere Di Vincenzo, con la costituzione di una ATI,
associazione temporanea d'impresa, che ha concorso in numerose gare, dal
comune Misterbianco al porto di Pozzallo. Quale presidente provinciale
dell’Associazione Nazionale Costruttori si è esposto in favore della
privatizzazione dell’acqua a Ragusa, mentre, a chiusura del circolo, ha
sostenuto nell’intimo della BAPR le ragioni, infine vincenti, della scesa in
campo con Acoset.
In considerazione di tutto
questo, i conti dell’acqua, nella declinazione del sudest, tornano con
pienezza. La società guidata da Giuseppe Giuffrida, che ha accettato la
sfida dei giganti europei, ha avuto buone ragioni per imbarcare la banca
siciliana, ravvisando nel prestigio e nell’influenza della medesima una
carta spendibile ai fini dell’aggiudicazione del mezzo miliardo di euro in
palio. Dal canto suo la BAPR, sospinta dal protagonismo di Cutrone, si è
risolta a rivendicare una propria ipoteca, la prima, sull’affare del secolo,
sulla scia peraltro di taluni gruppi finanziari, per consolidare sotto la
propria egida l’asse economico Ragusa-Siracusa-Catania. Come si evince dalle
movenze, tutti i protagonisti della compagine, da Acoset a IBI, da DB Group
all’istituto ibleo, hanno comunque ben chiaro che la conquista del
centro-partita nella cuspide iblea può costituire un incipit per ulteriori
affari, tanto più dopo lo scoccare del 2010, quando, con l’apertura
dell’area di libero scambio, il territorio del sudest, in virtù
dell’esposizione che reca sul Mediterraneo, diverrà strategico.
In definitiva, nella
Sicilia più a sud si è giocato per vincere, a tutti i costi. Il
coinvolgimento della BAPR ne è una prova. E Acoset, con le sue alleate,
avrebbe vinto se, dopo la decisione assunta dai sindaci dell’ATO in favore
della privatizzazione, nel giugno 2006, non fossero accaduti degli
incidenti, privi di riscontro in Sicilia, per certi versi quindi
imprevedibili. Un pugno di ragazzi, fondatori di un giornale in fotocopia,
“Il clandestino”, hanno deciso di mettersi di traverso, suscitando una
resistenza corale, che ha incrociato lungo il suo cammino Alex Zanotelli,
l’Antimafia di Francesco Forgione, il Contratto Mondiale dell’acqua di
Emilio Molinari, la CGIL di Carlo Podda. Dalle cronache, in Sicilia e nel
paese tutto, la storia è stata registrata come una esperienza esemplare, cui
si sono coinvolti dirigenti sindacali come Tommaso Fonte, Franco Notarnicola,
Nicola Colombo e Aurelio Mezzasalma, esponenti politici come Marco Di
Martino, esponenti dell’associazionismo come Barbara Grimaudo. La battaglia
dell’acqua, nel sudest siciliano, rimane comunque aperta, con i poteri forti
che insistono a lanciare i loro moniti, mentre vanno preparandosi all’ultimo
decisivo assalto.
Carlo
Ruta
Fonte: “Narcomafie”,
gennaio 2009 |
Radiografia di due delitti di mafia, celati dal cono d’ombra. Intervista a
Carlo Ruta.
Attraverso una inedita
investigazione dei delitti Tumino e Spampinato, lo storico, con Segreto di
mafia, illumina gli scenari in ombra dell’est siciliano nei primi anni
settanta, quando Catania costituiva, per numeri, la capitale del neofascismo
italiano e l’isola tutta una sponda strategica del regime greco dei
colonnelli.
A cura di Gianluca
Floridia
È il
caso di delineare anzitutto lo sfondo. Cosa rappresentava l’est siciliano
negli ultimi anni sessanta e all’imbocco del decennio successivo?
Negli anni sessanta
Catania veniva chiamata la Milano del sud. Siracusa e Ragusa venivano
reputate le province più amene dell’isola. L’intera fascia ionica, da
Messina agli Iblei, veniva considerata, per tradizione, priva di fenomeni
mafiosi. In realtà, relativamente a quel decennio, la situazione era ben
complessa. Dopo la chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1960, la mafia
siciliana aveva sottratto ai marsigliesi il predominio internazionale del
contrabbando dei tabacchi lavorati. Malgrado i deficit di radicamento, aveva
quindi dovuto rendere l’est della Sicilia un territorio pienamente
operativo, per due ragioni: la maggiore vicinanza dalle nuove sedi di
deposito, localizzate di massima lungo le coste iugoslave, albanesi e
greche; la buona reputazione di cui godeva l’area, che rendeva le coste
maggiormente permeabili, ai fini degli sbarchi.
Cosa
costituiva l’area iblea per Cosa Nostra?
La provincia ragusana poté
godere, per certi versi, di uno «statuto» a sé. Pur mancante infatti di una
tradizione, di una organizzazione di affiliati, propriamente detta, divenne
un’area di rilievo strategico, in virtù della sicurezza inusuale dei suoi
litorali. Se le province di Siracusa e Messina, prive di famiglie
organizzate, per ragioni di contiguità territoriale, vennero poste allora
sotto l’autorità del boss catanese Giuseppe Calderone, il territorio ibleo,
al pari di alcune aree campane, finì sotto la diretta «giurisdizione» dei
boss contrabbandieri di Palermo, che ne fecero una sorta di enclave,
amministrato localmente dal boss vittoriese Giuseppe Cirasa. E le presenze
nell’Ippari, lungo gli anni settanta e ottanta, di personaggi come i Rimi
di Trapani, i Greco di Palermo, i cugini Salvo di Salemi, il vice capo della
commissione Girolamo Teresi, ne furono un significativo risvolto.
Fatta
questa premessa, circa i caratteri del cono d’ombra, andiamo allo specifico
dei due delitti del 1972. Da un'ampia sequela di indizi esposti in Segreto
di mafia, emerge che l’uccisione dell’ingegnere Angelo Tumino, palazzinaro e
viveur ragusano di una certa fama, potè essere originato da uno sgarro,
sullo sfondo dei contatti che il medesimo, grosso collezionista d’arte,
aveva stabilito con il mercato illegale, sotto l'egida dei boss
contrabbandieri che operavano nell’area. Tumino era allora un colluso o una
vittima?
Dai dati disponibili non
emerge che l'ingegnere fosse un colluso: che fosse uso, per esempio, a
ricevere regalie in cambio di favori. Né del resto era in condizione di
farne, perché prese a interessarsi di cose d'arte negli ultimi tre-quattro
anni della sua vita, quando non ricopriva cariche pubbliche, aveva ridotto
notevolmente i propri impegni nell'edilizia residenziale, si era pressoché
ritirato dalla vita mondana, recava infine un figlio da accudire, nato da
una relazione occasionale. Tanti elementi fanno evincere piuttosto che
Tumino, nel momento più gramo della sua carriera, si introdusse nel mercato
illegale da privato, convinto che con la mafia si potessero fare affari
senza rischi. E con buona probabilità, proprio la convinzione di avere a che
fare con contraenti normali, tale da fargli sentire normale pure la
vicinanza di un pluripregiudicato come Giovanni Cutrone, che si qualificava
come esperto d’arte, gli fu fatale. L’ingegnere non dovette calcolare a
sufficienza che l’insorgere di un qualsiasi contenzioso lo avrebbe esposto
al rischio di vita. In definitiva, non doveva conoscere a fondo la mafia. E
anche questo comprova che, per quanto disinvolto nel condurre i propri
affari, non poteva esserne autenticamente colluso.
Come si
pone in tale quadro la figura di Roberto Campria, figlio del presidente del
tribunale di Ragusa e grande amico di Tumino? Fu un colluso o una vittima?
L'ipotesi che il giovane
Campria fosse un colluso appare anch’essa inattendibile. Con buona
probabilità, non lo fu in nessun passaggio della vicenda. Era un giovane
problematico, recante una personalità fragile. Si ritrovò, verosimilmente,
nella medesima condizione del Tumino, perché a questo si accompagnava,
seguendone le movenze e gli stili. Di certo conosceva le cose del passato
recente, per esserne stato testimone. Non poteva essere quindi all’oscuro
delle ragioni per le quali il suo amico era stato ucciso. E già una cosa del
genere, tenuto conto del carattere e soprattutto dello status del Campria,
che non poteva essere appunto quello di un colluso, dovette bastare a
mettere in allarme gli uccisori del palazzinaro. In definitiva, a
prescindere da tutto, esistevano le condizioni perché il giovane fosse
tenuto sotto osservazione. Ma numerosi fatti, dal 25 febbraio 1972 in
avanti, testimoniano che la situazione dovette essere ben più complessa. Il
figlio del magistrato non recava le movenze di chi conosce solo le
esteriorità e gli antecedenti di una storia. Sin dai primi momenti si mosse
goffamente, manifestando atteggiamenti che destarono sospetti. Circa gli
spostamenti nel giorno del delitto, di cui diede testimonianza appena un
giorno dopo, fu inoltre sconfessato clamorosamente da una testimone, Elisa
Ilea, le cui parole, se meglio considerate, avrebbero potuto costituire il
punto di svolta dell’intera inchiesta giudiziaria. Le movenze del Campria
erano in sostanza quelle di chi interagisce con gli eventi in modo sincrono,
muovendosi magari con difficoltà, ma con una forte cognizione delle cose.
Il
figlio del giudice poté avere responsabilità dirette riguardo alla morte
dell’ingegnere?
Il sospetto, emerso sin da
subito, rimane fino a oggi privo di riscontri e manifesta delle
incongruenze. È invece altamente verosimile che Campria fosse presente,
quale testimone involontario, sulla scena dell’uccisione oppure ad eventi
direttamente collegati al delitto. In tutti i casi, le conoscenze del
medesimo, del presente più che delle cose passate, del delitto più che degli
eventi scatenanti, dovettero creare non poca inquietudine negli uccisori di
Tumino, tanto più dopo l’irruzione in scena del giornalista Giovanni
Spampinato, appena due giorni dopo il delitto.
Perché
gli uccisori non provvidero a eliminare subito Campria, se ravvisarono nella
sua persona un testimone scomodo e pericoloso?
Gl’indizi passati al
vaglio suggeriscono una ipotesi congrua. L’eliminazione fisica del Campria
avrebbe potuto avere effetti devastanti. Attraverso una sequela di messaggi
depistanti, il caso Tumino era stato ricondotto, tanto in sede istruttoria
quanto nelle voci della città, lungo tre percorsi alternativi, tutti
inconsistenti: il delitto passionale, il regolamento di conti nell’ambito
del commercio antiquario, il delitto per rapina. Ebbene, se dopo quel 25
febbraio fosse stato ucciso il figlio del più alto magistrato di Ragusa, le
tre piste sarebbero sfumate in un baleno. A quel punto, la pista della
grande criminalità sarebbe emersa clamorosamente e senza indugio. Il cono
d’ombra del sud-est ne sarebbe uscito interamente illuminato, dieci anni
prima che Giuseppe Fava, con l’esperienza de «I Siciliani», e poi con la sua
morte, ne mettesse a nudo l’essenza, i traffici, i potentati occulti. Le
strategie dell’ordine pubblico ne sarebbero potute uscire quindi rivedute,
gli organici delle caserme rafforzati. In definitiva, i traffici che si
svolgevano nell’area, garantiti fino allora dal mito della Sicilia senza
mafia, di fatto da una impenetrabile sordina, sarebbero potuti finire in
discussione, con effetti imponderabili.
Quale
significato ebbe la presenza in scena di Giovanni Spampinato?
Con il breve scoop del 28
febbraio, il giornalista de «L’Ora» e de «L’Unità» non puntò sul Campria
solo perché aveva saputo dell’interrogatorio cui era stato sottoposto il
giovane la sera del 26. Oggi si conosce l’esito di quel colloquio. Si sa con
certezza che il figlio del giudice non era stato ascoltato nelle vesti di
persona sospettata. Spampinato aveva raccolto bensì il sospetto da una fonte
di prim’ordine, costituita Mario Tumino, fratello del palazzinaro ucciso. E
solo forte di tale aggancio decise di incalzare il Campria. L’informatore
del cronista di certo non era a conoscenza dei rapporti che aveva intessuto
il fratello con certi ambienti, ma, come emerge dalle sue deposizioni, aveva
il sentore di qualcosa, che gli venne facile associare con le condotte
anomale del Campria, del passato e del presente. Dal canto suo, Spampinato
mancava di troppi tasselli per potersi orientare con pienezza. Colse
tuttavia quel sentore, elaborò quel sospetto sul giovane, corroborato
appunto dalle movenze goffe e incoerenti del medesimo nei giorni successivi
al delitto.
Come
poté essere avvertito l’impegno di Spampinato dagli uccisori di Tumino?
Di certo il cronista era
finito su una pista pericolosa. Come emerge dalla lettera che inviò alla
collega de «L’Ora» Angela Fais il 28 febbraio, dalla memoria che il 5 aprile
indirizzò alla federazione del PCI di Ragusa e da alcune inchieste sullo
squadrismo in Sicilia che uscirono sul quotidiano da fine febbraio a maggio,
andava convincendosi che l’uccisione di Tumino fosse maturata nell’ambito di
una trama che riuniva trafficanti d’arte ed eversori neofascisti. Ebbene,
sulla scorta dei dati che si possiedono, tale ipotesi appare caduca. Pur non
potendo recare alcuna cognizione dei fatti, il giornalista era tuttavia nel
perimetro della verità, partecipando, si direbbe per induzione, a quella di
cui era custode Campria. Al di là dei propri convincimenti, più di ogni
altro, quindi, era nelle condizioni di svelare il segreto dell’uccisione del
25 febbraio. E tanto più lo divenne quando ebbe modo di interloquire di
persona con il figlio del magistrato. In definitiva, più preoccupante della
parola di Spampinato, dovette risultare il gesto. Prova ne è che il
giornalista venne ucciso dopo che aveva smesso da mesi di scrivere sul caso.
Le
inchieste di Spampinato sul caso Tumino quale impatto recavano sugli
ambienti che avevano determinato il delitto del 25 febbraio?
Di certo, gli articoli
usciti su «L’Ora» recavano uno rilievo a prescindere. Il cronista andava
necessariamente a tentoni, sollecitato tuttavia da un sentire divergente che
gli consentiva di slargare il circolo delle supposizioni. Nei suoi scritti,
se non poteva offrire quindi risposte, poneva numerose domande, che, seppure
in modo necessariamente largo, evocavano poteri occulti e criminali. Il
primo sulla vicenda usciva con il seguente titolo: Delitto Tumino. Una pista
è la mafia. E non si trattava evidentemente di una pista seguita dagli
inquirenti, ma di una intuizione, per certi versi di un suggerimento
investigativo. Il 28 aprile Spampinato dava conto delle tattiche di
depistaggio in corso, che evocavano menti molto sofisticate, mentre scartava
l’ipotesi del delitto per rapina. Nell’articolo del 7 luglio, quando
l’inchiesta giudiziaria non faceva alcun passo in direzione del delitto
organizzato, si chiedeva: «Come mai il corpo appariva rivestito e sistemato
con cura? Poteva un uomo solo spostare il cadavere dell'ingegnere, che
pesava più di cento chili?». Nelle inchieste che il giornalista andava
conducendo in quei mesi, sulle trame neofasciste, erano inoltre costanti i
riferimenti alle attività di contrabbando nel sud-est.
Ecco, le
inchieste di Spampinato sull’eversione nera in Sicilia, che rilievo avevano?
Tali approfondimenti
dovevano destare non poca preoccupazione, soprattutto negli ambiti di mafia.
Con le sue denunce il giornalista finiva infatti con l’orientare
l’attenzione pubblica, non soltanto siciliana, su un’area che doveva
rimanere in ombra, con possibili pregiudizi per gli affari che vi si
conducevano.
Esistevano in quegli anni degli accordi, tattici o strategici, fra eversori
neri e mafia?
Gli obiettivi e le
metodologie operative erano del tutto differenti. Il neofascismo faceva in
quegli anni un gran rumore. E anche nell’est siciliano le cose andavano
così. A Catania, divenuta in quegli anni la maggiore roccaforte italiana
della destra con il 30 per cento dei voti al partito di Almirante, si giunse
alla distruzione della federazione provinciale del Pci. A Siracusa fu un
succedersi di attentati, soprattutto alle sedi della CGIL. Ragusa conobbe
numerosi atti di squadrismo. Le operazioni di sbarco e di transito dei
tabacchi lavorati, gestite dalla mafia, necessitavano invece del massimo di
sordina. Si può quindi escludere che potessero esistere accordi strategici,
o solo tattici, fra i boss del contrabbando e i neofascisti, tanto più nel
«quieto» sud-est.
Dinanzi
agli azzardi del giornalista come si poterono porre gli uccisori di Tumino?
Evidentemente, l'uccisione
in stile mafioso del giornalista che indagava sulla vicenda avrebbe fatto in
Italia un gran rumore, con l'effetto di mettere a repentaglio gli equilibri
e i silenzi su cui reggevano il contrabbando e le connessioni del sud-est.
Va ricordato d’altronde che appena due anni prima il rapimento del redattore
de «L’Ora» Mauro De Mauro aveva destato indignazione in tutto il paese e
aveva attratto cronisti da ogni parte del mondo. Si avrebbe potuto avere
beninteso buon gioco nel depistare l'attenzione generale e le indagini in
direzione del neofascismo su cui indagava il giornalista, ma le cose non
sarebbero cambiate di tanto. Il clamore si sarebbe avuto a prescindere. La
pista della mafia sarebbe potuta emergere ugualmente, pure avvalorata da
talune intuizioni dello stesso Spampinato. Campria, che costituiva il punto
più permeabile della vicenda, sarebbe potuto finire poi stretto d'assedio,
da segmenti dell'informazione, dalla magistratura, con il rischio
fondatissimo di un definitivo crollo. La storia è andata tuttavia
diversamente, perché l’uccisione del cronista, compiuta da Campria nella
notte del 27 ottobre 1972, è stata registrata come l’epilogo di una storia
privata.
Su Segreto di mafia
viene tuttavia documentata, sulla scena dell’uccisione, la presenza di un
misterioso individuo. È la prova che anche nel caso di Giovanni Spampinato
si trattò di un delitto organizzato?
Tale presenza sul luogo e
nel momento dell’uccisione, avvenuta appunto in piena notte, costituisce
evidentemente un dato importante, che pone numerosi interrogativi, cui non è
possibile, al momento, dare risposte definitive. I dati che sono stati
documentati legittimano comunque una lettura del delitto ben distante da
quella emersa nei vari gradi del processo.
Fonte: “L’Isola
Possibile”. Rivista supplemento mensile de “Il Manifesto”, 28 gennaio
2009.
|
Dicembre
2008
Dietro l’uccisione del
giornalista de “L’Ora” Giovanni Spampinato, l’ombra di Cosa Nostra. Rapporto
di Carlo Ruta su uno dei misteri più intricati della Sicilia. Il 20 dicembre
2008 in libreria.
Sin dal febbraio 1972,
quando venne ritrovato in una lontana contrada ragusana il cadavere di un
noto palazzinaro, è stata una girandola di depistaggi, di mancati
adempimenti, di silenzi irriducibili. Su tale uccisione Spampinato si trovò
subito a investigare. E per tale suo impegno, nell’ottobre del medesimo anno
venne ucciso. Gli esiti lungo i decenni sono stati emblematici. La morte del
costruttore, rimasta insoluta sul piano giudiziario, viene evocata dalle
cronache come un delitto misterioso, forse per rapina, forse per donne,
forse per una controversia nel mondo dell’antiquariato. La morte del
giornalista è stata raccontata nei tribunali come un delitto di provincia,
compiuto dal figlio di un alto magistrato roso dal rancore. In realtà, come
viene argomentato in questo rapporto di Carlo Ruta, i due delitti
costituirono un affare complesso, che assunse un preciso rilievo nella vita
siciliana, nel clima fosco e accidentato degli anni settanta.
Dopo la chiusura del porto
franco di Tangeri, nel 1960, quando Cosa Nostra, mettendo alle corde i clan
marsigliesi, aveva assunto la guida del grande contrabbando, l’area
sud-orientale era divenuta un cono d’ombra strategico. E proprio nei
frangenti dei primi anni settanta rischiò di essere interamente illuminata.
La lesione venne comunque suturata, con determinazione. La mafia più potente
dell’isola poté quindi continuare a servirsi delle coste del sud-est per lo
sbarco e il transito di ingenti quantitativi di tabacchi lavorati, fino ai
primi anni ottanta, quando il contrabbando cedette il posto ad altri
traffici, ritenuti dalle famiglie della Conca d’Oro più remunerativi.
Con questo lavoro
investigativo, a partire appunto dagli insoluti che fino ai nostri giorni
hanno caratterizzato la vicenda, Ruta incalza il significato di quei
delitti, attraverso il vaglio analitico di numerosi documenti, tratti dagli
archivi giudiziari e non solo. Scandaglia altresì gli affari celatissimi che
ne ne animarono lo sfondo. Nel ricercare una spiegazione coerente al caso
Spampinato, finisce con il rendere quindi un profilo distinto della società
siciliana e della mafia.
Giovanna Corradini
Carlo Ruta, Segreto di
mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra. Edizione
Rapporti, Siracusa, pagg. 128, euro 10,00
Per infomazioni:
accadeinsicilia@tiscali.it
Segue un brano del testo e
la copertina del libro.
Dal
capitolo
La mafia
e il contrabbando
Per spiegare cosa
andava muovendosi nel sottosuolo del sud-est, è necessaria una
ricognizione delle movenze della mafia siciliana negli anni
sessanta-settanta sugli scenari del contrabbando internazionale dei
tabacchi. Le regole che Cosa Nostra impose in tali ambiti contribuì a
mutare infatti in modo considerevole i rapporti fra est e ovest
dell’isola.
Nei primi decenni del
dopoguerra, snodo ed emporio del contrabbando internazionale era, sulla
costa mediterranea del Marocco, la città libera di Tangeri, che garantiva
l’approdo da ovunque senza limitazioni, né obblighi, né passaporto, per ciò
stesso l’im-punità per ogni affare. I carichi di tabacchi lavorati destinati
all’Europa venivano introdotti da Gibilterra e dal sud della Francia, in
particolare da Nizza e Marsiglia, che godevano al riguardo di una tradizione
storica. Per forza di cose, in tali traffici un ruolo cardine avevano
guadagnato quindi i clan marsigliesi, mostrandosi in grado di suggerire
regole all’intero mercato internazionale. E in stretta relazione con questi
si impose, per capacità organizzative e dispiego di mezzi, il còrso Pascal
Molinelli, detto il Goldfinger del Mediterraneo a causa della sua
imprendibilità.
Adeguandosi alla
situazione, i siciliani evitarono in quella fase di mostrare mire
egemoniche. Per un periodo lungo non ingaggiarono conflitti, trovando più
utile la cooperazione con i marsigliesi. Furono tuttavia in grado di
esprimere un protagonismo non indifferente, che li rese importanti e
rispettati dalle parti in causa. In tutto il decennio cinquanta il
palermitano Pietro Davì, soprannominato Jimmy l’americano, tutelato da alti
uffici della polizia e della magistratura italiana, riuscì ad attivare in
effetti linee di contrabbando di rilievo internazionale, e a dominare il
mercato italiano, in piena sintonia con i Burms, organizzatori di Tangeri,
con Salomon Gozal, elemento di spicco del contrabbando provenzale, e con lo
stesso Pascal Molinelli. Linee considerevoli di contrabbando vennero
attivate inoltre da Salvatore Greco, talora in modo concorrente al primo. Si
facevano altresì strada, fra i siciliani, Vincenzo Spadaro, Salvatore
Adelfio, Tommaso Buscetta. Come si evince dai rapporti delle polizie
dell’epoca, fu comunque determinante la presenza, da Napoli, dell’italoamericano
Lucky Luciano: la cui morte, avvenuta nel 1962, segnò l'inizio di un aspro
conflitto fra siciliani e marsigliesi.
La chiusura del porto
franco di Tangeri, nel 1961, con l’annessione della città al regno del
Marocco, era comunque destinata a modificare in profondo la geografia e gli
assetti organizzativi del contrabbando. Mentre i marsigliesi erano costretti
a ripiegare su Gibilterra, le società produttrici dovettero spostare i
depositi di sigarette lungo le coste jugoslave e albanesi. Subentrarono
restrizioni nelle condizioni di pagamento delle partite. Gli sbarchi, in
aree eterogenee, con una naturale proiezione verso le coste italiane dello
Ionio e dell’Adriatico, imposero una diversa logistica, richiedente una
maggiore organizzazione. Se tutto questo determinò allora l’uscita di scena
di numerosi finanziatori autonomi, piccoli e medi, finì con il sollecitare
le famiglie egemoni della Sicilia, già sufficientemente presenti nella
vicenda, e forti comunque delle risorse che venivano loro dal sacco delle
città, della Conca d’Oro e della cinta di Palermo in particolare, a lanciare
la sfida, motivate a riorganizzare attorno a sé, in forma piramidale, il
commercio illegale dei tabacchi.
Si trattò di un’ascesa
incalzante. Già a metà degli anni sessanta, Pietro Davì, Salvatore Greco e
altri potenti boss siciliani, come Buscetta, erano gli interlocutori più
ambiti delle società produttrici, tanto da poter influire decisivamente
sulle nuove localizzazioni dei depositi, lungo l’area balcanica. Nei primi
anni settanta, dopo aver costretto all’angolo i marsigliesi e aver risolto
la crisi che la travagliava dal 1962-63, l’organizzazione Cosa Nostra
dominava gran parte del commercio intercontinentale, mentre rafforzava il
proprio radicamento nelle aree operative «oltre le linee». In quella
stagione, infatti, boss della camorra napoletana come Michele Zaza, Ciro
Mazzarella e Antonio Spavone poterono essere «consacrati» uomini d’onore,
con la garanzia forte di Michele Greco.
In quegli anni, sotto
l’egida dei capimafia Bontade e Badalamenti, il contrabbando internazionale
dei tabacchi lavorati riusciva a contare in Sicilia su un numero non
indifferente di organizzatori, di lontana e recente affiliazione, dotati di
capitali ingenti, navi e flotte pescherecce, in rapporti con grandi
intermediari della Philip Morris e della Reynold, con riciclatori svizzeri,
e ancora, con un’ampia rete di contrabbandieri: greci, turchi, albanesi,
jugoslavi, bulgari e di altri paesi mediterranei, dislocati lungo rotte
sicure e collaudate. Un ruolo di tutto rispetto continuava ad occupare
Pietro Davì, malgrado l’età non giovane e, soprattutto, la latitanza, che
gli «amici» di cui disponeva gli consentivano di vivere con relativa
comodità. Rimaneva altresì solido l’impegno organizzativo di Salvatore
Greco, mentre, dopo il difficile tirocinio degli anni cinquanta, all’ombra
dell’ultimo Lucky Luciano, e il balzo intercontinentale degli anni sessanta,
giungeva allo zenit il prestigio di Tommaso Buscetta, che al contrabbando
associava il traffico su larga scala dei narcotici. Provenienti pure loro
dagli anni «eroici» del dopoguerra, un peso considerevole conservavano poi
Vincenzo Spadaro e Salvatore Adelfio, che con Davì e altri uomini garantiti
da Cosa Nostra, avevano tenuto testa ai boss provenzali, fino a
soverchiarli. Fra le figure egemoni che facevano scuola nella Palermo che
usciva dalla strage di viale Lazio, venivano, ancora, Nunzio La Mattina,
Pino Savoca e Tommaso Spadaro, i quali proprio nei primi anni settanta, come
i Zaza e i Nuvoletta, vennero affiliati a Cosa Nostra. Si trattava di
persone che in quegli anni incutevano rispetto e riverenza, perché
incarnavano una storia, un patrimonio di competenze e di esperienze, ma
soprattutto un potere economico consolidato. Era il tempo in cui boss come
Buscetta e Davì potevano godere di ogni sorta di riconoscimento, dall’Italia
alle Americhe, quali prestigiosi uomini d’affari.
Come si espresse allora
tale evoluzione del contrabbando in aree dell’isola che si situavano
storicamente oltre l’influenza delle cosche occidentali?
Ponendosi lungo le rotte
che congiungono tre continenti, l’est siciliano reca una tradizione secolare
di traffici marittimi, ricolma pure di versioni romantiche e leggendarie. E
su tale tradizione si erano incardinati nei decenni del dopoguerra, gestiti
da malavitosi locali, affari economici di un certo peso: tanto più lungo le
coste siracusane ed etnee, dove, oltre a sigarette, venivano sbarcati
stupefacenti e partite di armi, mentre venivano imbarcati reperti
archeologici. Con l’aprirsi delle nuove vie del tabacco l’operatività
dell’area era tuttavia destinata a crescere. Se le coste pugliesi del canale
d’Otranto, acquisivano infatti una gran reputazione per la loro vicinanza
alle sedi balcaniche d’imbarco e il raccordo diretto con il mercato campano,
in grado di alimentare economie ai livelli di una Fiat, quelle della Sicilia
venivano valorizzate, dai signori siciliani del tabacco, per ragioni
organizzative e logistiche. Gli sbarchi nell’isola consentivano in
particolare un controllo diretto delle situazioni, diversamente da quanto
avveniva lungo la penisola, dove compiti di alto profilo finivano demandati
a figure mediane, talora estranee al vincolo solidaristico. E le coste
sud-orientali, ben posizionate nella nuova geografia dei tabacchi, venivano
considerate fra le più comode, perché risultavano le meno controllate. Il
mito della Sicilia differente, da cui lungamente avevano tratto beneficio i
potentati del luogo, diveniva così funzionale alle strategie di
posizionamento della mafia.
Tratto da "Segreti di
mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra", di Carlo Ruta |
novembre 2008: è
stato allestito un blog dedicato alla vicenda:
www.sosteniamofonte.blogspot.com |
In difesa della libertà di espressione, della
Costituzione, della democrazia.
Intervista a Carlo Ruta.
A cura di Enrico Natoli
Ci può
raccontare la nascita di "accadeinsicilia"? Che tipo di informazione poteva
trovare un lettore nelle pagine del sito?
Faccio una premessa. A
partire dalla metà degli anni novanta, dopo le stragi di Capaci e via
D’Amelio ho deciso di integrare il mio impegno, prevalentemente di tipo
storiografico, con una serie di inchieste sul terreno, su talune realtà
della Sicilia, volgendo in particolare l’attenzione sulle aree orientali, da
Catania a Gela, da Siracusa a Vittoria. In tali luoghi infuriavano in quel
periodo guerre di mafia che sconfessavano il mito di una Sicilia
“differente”. Sono stati quindi anni difficili, in cui mi trovavo a fare i
conti con avvertimenti di ogni tipo. Raccoglievo gli esiti delle inchieste
su libretti che mi venivano pubblicati da “La Zisa”, una casa editrice
palermitana, condotta da Maurizio Rizza dell’Istituto Gramsci. E in quel
contesto ho scoperto, a fine decennio, il web. Ho valutato le possibilità di
comunicazione inedite che mi avrebbe potuto offrire tale strumento, quindi
ho creato “Accadeinsicilia”, nel 2001. Sin dall’inizio la mia idea è stata
di congiungere le due prospettive: quella storiografica e quella
dell’informazione. Dalla prima è nata la sezione “Giuliano e lo Stato”, con
altre che documentano l’immagine della Sicilia nei secoli della modernità.
Dalla seconda sono scaturite le inchieste sul presente, a partire da quella
sull’uccisione del giornalista Giovanni Spampinato.
Come è avvenuta la
chiusura di "accadeinsicilia" e la successiva apertura di "leinchieste"?
Dopo il 2000 ho deciso di
portare l’investigazione sul terreno dei poteri forti. Mi sono occupato, con
resoconti cartacei e on-line, di alcune potenti banche, dall’Antonveneta del
nord-est alla BAPR, del caso appunto di Giovanni Spampinato, dei nessi fra
Danilo Coppola e i salotti della finanza nazionale, di tangenti miliardarie
nell’est della Sicilia. Le reazioni al lavoro d’inchiesta si sono fatte
allora differenti. I boss avevano dimostrato di possedere una sorta di
codice, che in qualche modo me li aveva reso prevedibili. Ne sentivo il
fiato addosso, e tuttavia riuscivo ad avvertire in loro una specie di
rispetto, seppur malinteso, nei riguardi del mio lavoro. I poteri forti
dell’isola, quando si sono sentiti posti in discussione, hanno messo in
opera una strategia di attacco che fino ad oggi non ha conosciuto soste. E
in tale cornice nel dicembre 2004 è arrivato l’oscuramento di “accadeinsicilia”.
Si è trattato di un atto gravissimo, fortemente lesivo di un diritto
costituzionale. Ho provveduto quindi, dopo una breve interruzione, a
ripristinare Il lavoro di documentazione e d’inchiesta on-line attraverso
l’apertura di un altro blog, “Leinchieste” appunto, presso un server degli
Stati Uniti.
Come
sono nati i processi? Di cosa è imputato? Come si sono conclusi?
Quando mi sono occupato
delle mafie militari, delle bande che imperversavano nel Gelese, nell’Ippari,
nel Siracusano e in altre aree, ho ricevuto circa quindici querele,
soprattutto da parte di amministratori pubblici, a vario titolo chiamati in
causa. E da tutti i processi che ne sono scaturiti sono uscito vincente. Ma
negli anni successivi, quando si sono mossi i potentati finanziari e alcuni
ambiti istituzionali, le cose sono cambiate: a partire appunto
dall’oscuramento di “Accadeinsicilia”. Solo per aver denunciato gli insoluti
del caso di Giovanni Spampinato, oggi riconosciuti pure dalla Commissione
Antimafia, sono stato investito, perlopiù su sollecitazione di un
magistrato, da otto procedimenti giudiziari per diffamazione, fino a oggi in
corso. Nel 2006, fatto che ha suscitato indignazione in Italia, sono stato
condannato da un giudice non togato a otto mesi di carcere solo per aver
accolto nel blog la testimonianza di un cittadino su un affare di tangenti.
Nel luglio 2008 sono stato condannato in Appello, ancora per diffamazione, a
un risarcimento inaudito, solo per aver espresso delle critiche, che il
giudice di primo grado aveva riconosciuto come legittime, nei riguardi di
tre magistrati catanesi, due dei quali fatti oggetto peraltro di diverse
interrogazioni parlamentari. Rappresentativa della situazione rimane
comunque la condanna, unica in Italia e in Europa, che mi è stata inflitta
nel maggio scorso per stampa clandestina, solo per aver curato Accadeincilia,
un normalissimo blog appunto, che tuttavia è stato reputato dal giudice
Patricia Di Marco né più né meno che un giornale quotidiano.
Negli
ultimi anni ci sono stati altri casi di richieste di risarcimento e di
condanne nei confronti di storici e studiosi. In genere le richieste
provengono dal mondo politico. Ci può dare il suo punto di vista su questi
episodi? Hanno dei punti di contatto con la sua vicenda? Infine, come
funziona il rapporto tra informazione e politica? Bossi nel' 98 diceva che
Berlusconi era l'uomo di Cosa Nostra al Nord e oggi governano insieme. Può
essere sufficiente la spiegazione che Bossi usa un linguaggio colorito,
mentre per gli storici fioccano i processi?
La querela per
diffamazione, come di recente ha bene argomentato Giovanna Corrias Lucente
su Micromega, rappresenta oggi un esteso business. Per tradizione
costituisce in ogni caso una importante arma che i potentati del paese,
centrali e territoriali, possono usare, senza rischi e con guadagno facile,
per impedire l’esercizio dell’informazione libera. La censura legale serve
in effetti a intimidire il giornalista, detta norme di condotta all’intera
categoria, lancia suggerimenti di cautela alle comunità di riferimento,
all’opinione pubblica. Mi pare emblematico al riguardo il caso di Paolo
Barnard: portato in tribunale da una multinazionale farmaceutica con pretese
di risarcimento inaudite, isolato per tale motivo dal team di Report per cui
lavorava, privato infine di ogni difesa legale da parte della RAI. Va
d’altra parte considerato che il giornalista d’inchiesta, una volta rinviato
a giudizio, non sempre può difendersi in modo pieno. Il vincolo della
riservatezza della fonte, cui non può sottrarsi, può impedirgli infatti di
esibire per intero gli elementi in suo possesso. E non per questo smette di
essere, come ci viene ricordato dal mondo anglosassone, il cane di guardia
della democrazia. Si può disattivare allora l’arma della querela temeraria,
intimidatoria appunto, senza che si debba correre il rischio opposto; quello
cioè di una sorta di impunità, in tutto e per tutto, per chi esercita il
mestiere di cronista? Delle soluzioni, degne di una democrazia matura,
esistono. Dovrebbero essere fissati dei limiti al risarcimento civile, per
liberare il giornalista dalla minaccia di una condanna a vita, tale da
condizionarne per intero l’iter professionale. Dovrebbe scomparire lo
spauracchio delle pene carcerarie perché anacronistiche, incivili, a misura
dei regimi autoritari. Dovrebbe essere impedito per legge il “primo colpo”
della querela, attraverso la riformulazione dell’istituto della rettifica.
Perché
si avverte l'esigenza di muoversi al di fuori dei canali informativi
tradizionali? Quanta parte della storia siciliana e nazionale deve essere
ancora raccontata?
A ragione viene detto che
il giornalista d’inchiesta deve possedere l’indole del “lupo solitario”, che
lo porta nei luoghi più impervi, i meno accessibili, i più pericolosi, per
ciò stesso i più prossimi alle verità taciute. Per quanto mi riguarda, mi
trovo spesso a percorrere vie divergenti, che richiedono il massimo di
scioltezza operativa. Di certo, tale modo di essere può sollecitare
l’approccio a canali informativi differenti. Ed è il mio caso, essendomi
espresso maggiormente attraverso i libri e, più di recente, la rete. Ma non
esiste una regola precisa, perché, come testimoniano innumerevoli storie
personali, da Tommaso Besozzi ai nostri giorni, anche nei media
tradizionali, perfino in quelli ostentatamente d’ordine, possono aprirsi
varchi d’inchiesta di tipo divergente: cosa che accade quando il cronista
riesce a imporre alla proprietà della testata la propria competenza. Per
quanto riguarda l’altra parte della domanda, sulla storia non ancora
raccontata, la situazione può essere resa come una scena teatrale, al buio,
solcata da fasci di luce, che raffigurano lo stato delle conoscenze
effettive, liberate cioè, oltre che dalla dimenticanza, dallo stereotipo e
dal mito. In tale buio dominante, si perdono gli affari di Stato, lo
stragismo, le trame dell’alta finanza, i delitti siciliani degli anni
ottanta-novanta. E non solo: si cela tutto quel che non conosciamo, dalle
mafie che non sono state mai classificate come tali alle ingiustizie senza
voce e senza nome che percorrono il presente. Per il “lupo solitario”,
evidentemente, il lavoro non manca. Ma non mancano pure i rischi.
E in
tale scena, come si collocano gli affari dei poteri forti: stanno al buio o
alla luce?
I poteri forti di oggi,
quelli che tirano in particolare le fila della finanza, non fanno la
democrazia. Costituiscono bensì un punto di collasso della medesima. Tanto
più in Italia sono da tenere quindi sotto stretta osservazione. Quelli di un
tempo, pensiamo agli Agnelli del primissimo Novecento, potevano permettersi
di rispettare le regole di un regime liberale, potendone trarre anche
guadagno. E quando tali regole andavano strette esistevano delle vie
praticabili: la dittatura, come si ebbe con i fascismi europei degli anni
venti e trenta, l’avventura bellica, l’assalto neocoloniale, lo stato
d’assedio, e così via. Gli scenari adesso sono cambiati, nell’Occidente
tutto, quindi pure in Italia. E negli ultimi tempi, quelli dell’economia
senza confini e del web, in modo determinante. Non sono praticabili o
consigliabili le svolte reazionarie vecchio stampo. Le guerre sono divenute
un affare di pertinenza americana. Trovandosi allora a dover operare su un
terreno stabilmente definito, senza poter uscirne con atti di forza dentro o
fuori, i potentati finanziari si trovano nella “necessità” di violare in
modo strategico le leggi, di corrodere la sostanza democratica, travisandone
il senso, con l’adozione di metodi che, avallati da ceti politici ad hoc,
non differiscono tanto da quelli delle società “onorate”. E’ un po’ la
genesi del berlusconismo, del regime delle impunità dei nostri giorni.
Compito essenziale del giornalista d’inchiesta, guardiano appunto delle
libertà civili, è allora quello di alzare i sipari delle trame, di togliere
la maschera ai poteri che vilipendono lo Stato di diritto, al centro come in
periferia, ovunque. E’ utile sottolineare che i potentati finanziari sono
forti proprio perché stanno al buio. Quando vengono illuminati diventano
vulnerabili e talora, sotto il peso delle loro responsabilità rese
pubbliche, si afflosciano. E’ stato il caso del governatore di Bankitalia
Antonio Fazio, referente dei concertisti di Antonveneta. Assume perciò
significato strategico la repressione in atto nei riguardi della libera
comunicazione, quella che colpisce Paolo Barnard e tanti altri. Rivelano una
logica mirata le nuove normative sulle intercettazioni telefoniche. E con
tutto questo va coordinandosi l’attacco, destinato probabilmente a fare
testo oltre i confini italiani, alla libertà sul web.
Perché i
potentati della Sicilia hanno deciso di spegnere la sua voce? Quale pericolo
hanno ravvisato nelle sue inchieste? E lei come reagisce a tali atti
repressivi?
Il giornalista
d’inchiesta, se fa il proprio mestiere con correttezza e dedizione,
costituisce, come dicevo prima, un pericolo in sé, a prescindere da tutto.
Per quanto mi riguarda ho sempre fatto il possibile per essere
sufficientemente razionale, distaccato dalle situazioni che mi sono trovato
ad esaminare. Ho sempre cercato di tenermi distante dalle paludi, che pure
in Sicilia sono insidiose e pervadenti. Probabilmente, si vuole colpire
questo mio modo di essere, che peraltro mi ha permesso di comunicare con
tanta gente. Credo che non venga sopportato inoltre il mio scrupolo di
documentazione, che mi viene un po’ dall’interesse per i fatti storici. E
poi, naturalmente, tutto il resto. Come reagisco a tali atti repressivi?
Continuando a studiare il passato e il presente, a documentare, a informare.
Gli ultimi eventi, comunque, hanno fatto maturare in me una decisione. In
quasi venti anni di lavoro ho raccolto un archivio personale che si compone
di circa ventimila documenti, in massima parte originali. Con tali documenti
ho potuto operare con profitto su una varietà di casi, a partire appunto
dalle trame dell’immediato dopoguerra. Ecco, ho deciso di rendere pubblico e
fruibile a chiunque questo archivio, spero entro l’anno corrente. E ne sto
studiando i modi. Sento infine di dover intensificare il mio impegno sulla
linea della libertà di espressione, perché la situazione nel paese, davvero
preoccupante, ci sollecita tutti, operatori della comunicazione e cittadini,
a una mobilitazione responsabile.
Fonte:
www.cuntrastamu.org |
Antonio Di Pietro con Carlo Ruta, per la
libertà sul web
Mentre si allarga nel
mondo del web e nel paese civile la mobilitazione contro la sentenza
siciliana, che di fatto condanna l’informazione sul web come illegale e
clandestina, giunge un nuovo importante impegno dal versante politico.
Antonio Di Pietro, leader nazionale del Partito dei Valori, il 4 settembre
ha preso posizione in favore di Carlo Ruta e della libera espressione in
rete, firmando un articolo sul proprio blog in cui si legge che “quanto
accaduto è un atto grave, anzi gravissimo ed è accaduto in una regione dove
l’omertà è l’humus su cui cresce e prolifera l’arroganza della malavita
organizzata”. L’ex magistrato di Mani pulite è deciso nel richiamare
l’inadeguatezza della legge vigente, dicendola “del tutto fuori tempo e
inconciliabile con le nuove forme di comunicazione introdotte con la
rivoluzione portata dalla Rete”. Spiega altresì che la medesima deve
ritenersi incostituzionale “perché il diritto di informare la costituzione
lo riserva a tutti e non solo alla carta stampata che ha registrato il
proprio marchio al tribunale”. Afferma quindi che sta provvedendo a redigere
una nuova interrogazione parlamentare sulla vicenda, dopo quella del
deputato Giuseppe Giulietti, con l’intento di richiedere una nuova normativa
che, al più presto, ponga fine a ogni equivoco e sancisca in via definitiva,
come è di un paese autenticamente civile, la piena libertà sul web.
Giovanna Corradini, Paolo
Fior, Nello Lo Monaco, Carla Cau, Serena Minicuci, Barbara Gribaudo
Per notizie e
informazioni:
accadeinsicilia@tiscali.it,
www.antoniodipietro.it,
www.giornalismi.info/vocilibere,
www.leinchieste.com |
Sentenza
oscurantista sul web
L’allarme e la mobilitazione si estendono in Grecia.
Decine di blog prendono posizione. Numerose note di
protesta indirizzate all’ambasciata italiana di Atene.
Mentre
in Italia la risposta del web alla condanna dello
storico Carlo Ruta per stampa clandestina cresce di
giorno in giorno, a seguito della pubblicazione del
testo della sentenza emessa dal giudice Patricia Di
Marco, ripercussioni significative del caso si hanno in
Grecia. Numerosi blog ed esponenti della cultura di tale
paese stanno prendendo infatti posizione contro la
condanna, intesa come espressione dei poteri torbidi che
stringono il sud e di politiche governative
scopertamente illiberali. Constatata quindi la gravità
della situazione che si è venuta a creare in Italia,
vengono denunciati sui siti greci i pericoli che, dopo
tale evento giudiziario, ricadono su tutti i paesi
dell’Unione Europea, in merito alla libera espressione
in rete. Dai blog e da altre fonti si ha altresì notizia
di numerose note di protesta indirizzate all’Ambasciata
italiana di Atene, oltre che, nella medesima capitale,
alle sedi del Consolato e dell’Istituto Italiano di
Cultura. Ad animare la protesta, fra gli altri, è lo
studioso ateniese Nikos Klitsikas, esiliato politico in
Italia nel periodo della dittatura dei Colonnelli e,
negli anni più recenti, storico delle trame nere in
Europa, in collaborazione con Andrea Speranzoni.
Giovanna Corradini (redattrice), Paolo Fior
(giornalista), Nello Lo Monaco (geologo), Vincenzo
Gerace (cancelliere), Roberto S. Rossi (giornalista),
Carlo Gubitosa (giornalista scrittore), Carla Cau
(associazionismo ragusano), Serena Minicuci
(giornalista), Vincenzo Rossi (giornalista), Teodoro
Criscione (studente), Antonella Serafini (giornalista),
Angelo Genovese (studente), Giuseppe Virzì (blogger).
Si
prega vivamente di diffondere. Per informazioni:
accadeinsicilia@tiscali.it
Rif:
comunicato del 3 settembre 2008 |
L’appello di Carlo
Ruta
Emergenza libertà in Italia
di Carlo Ruta
La sentenza siciliana
che ha condannato l’informazione in rete, ritenendola né più né meno che un
crimine, sta suscitando proteste e allarme sul web e in ogni ambito del
paese civile e responsabile. Le ragioni sono pesanti come pietre. Sono stati
attaccati principi che hanno fatto la storia del pensiero democratico: i
medesimi per i quali, nel nostro paese, uomini come i fratelli Rosselli,
Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Eugenio Curiel, Giovanni Amendola, hanno
speso il loro impegno e dato la vita. E’ stato puntato e centrato in
particolare il principio della libera espressione, che, rappresentativo
delle libertà tutte e momento rivelatore di uno Stato democratico,
costituisce un cardine della Costituzione repubblicana.
L’attuale governo
italiano, che si sta connotando sempre più in senso illiberale, non può
sottrarsi a questo punto al dovere morale di rispondere al moto di protesta
di questi giorni. Basta con gli infingimenti. Non si aspetti che l’onda di
piena dell’indignazione si plachi. Si farà il possibile perché non si fermi.
E’ in gioco appunto la democrazia, nella sua frontiera più avanzata e
aperta, rappresentata dalla libera espressione in rete, dalla comunicazione
che irrompe e prorompe in senso orizzontale, che rende i cittadini
protagonisti in modo nuovo. E’ in gioco, come si diceva, la Costituzione,
che, come ci ha ricordato Piero Calamandrei, non è nata nei salotti, né
nelle stanze del potere, ma sulle montagne, accanto ai corpi degli uccisi,
tra i fuochi delle città in rivolta.
E’ necessaria una
legge subito, che, distante da ogni possibilità di equivoco sul piano
interpretativo, fermi in via definitiva le trame censorie e repressive dei
poteri forti del paese, per vocazione illiberali e antidemocratici. E’
altresì necessario che il legislatore prenda atto che l’informazione sul web
non può recare limitazioni di principio. La rete è un luogo cardine del
nostro tempo, in cui la democrazia prende corpo e voce, con l’esercizio del
confronto. Non può essere quindi annichilita, come avviene in Iran e in
Birmania.
Si fa appello allora
alle realtà del web, della comunicazione a tutti i livelli, del paese civile
e responsabile, perché la mobilitazione continui ad oltranza, con iniziative
forti. La sentenza siciliana, come ha scritto un blogger, potrebbe essere
una delle ultime “perle” di una collana che, giorno dopo giorno, sta
mutandosi in un cappio. E si tratta di fare il possibile perché questo non
avvenga. Occorre impedire che si consumi in Italia il rogo della libera
espressione, memori del resto che i roghi delle idee possono essere
preparatori di regimi a scena aperta.
Per adesioni a questo
appello (indicare nome, cognome, attività, città):
accadeinsicilia@tiscali.it.
Per testimonianze:
carlo.ruta@tin.it
Per notizie e
informazioni:
www.giornalismi.info/vocilibere -
www.leinchieste.com
Una vignetta
per la libertà sul web “Siamo tutti clandestini. Solidarietà a Carlo
Ruta”
E’ questo il
messaggio che, rilevato dai blog, si è deciso di restituire alle realtà
del web in Italia. La vignetta, ideata e realizzata da Mauro Biani,
intende esprimere, nelle forme dello sberleffo, il profondo dissenso del
paese civile nei riguardi dell'oscuramento del sito di Carlo Ruta, che
pone seriamente in pericolo il diritto di esistere e di comunicare,
garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Aderire alla campagna è
semplice: basta copiare sulla home page del vostro sito l’immagine della
vignetta.
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