Logiche di un potere
siciliano. L’Arra di Felice Crosta.
L’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque ha dettato
regole e mosso fiumi di denaro, lungo tutto il perimetro
degli Ato. Di emergenza in emergenza, in più occasioni è
finita sotto accusa. L’Ars ne ha deciso quindi, nel
dicembre 2008, lo scioglimento. Eppure continua a
esistere e a reggere i giochi. Lo farà per tutto il
2009. Ma tante cose vanno muovendosi perché la decisione
venga revocata.
di Carlo Ruta
C‘è un soggetto pubblico in Sicilia che evoca emergenze,
ma anche torrenti di denaro. È l‘Arra, Agenzia regionale
per i rifiuti e le acque, istituita con decreto del
presidente della regione Cuffaro il 28 febbraio 2006. Si
tratta di una struttura centralistica, rigidamente
verticale, che ha avocato competenze che appartenevano a
un pulviscolo di enti territoriali: dai comuni ai
consorzi di bonifica, assumendone comunque di nuovi,
sulle linee della legge Galli. L’avvento di tale organo
ha chiuso in via definitiva la fase, inaugurata dal
generale Roberto Jucci, dei commissari regionali per
l’emergenza idrica, di cui si erano serviti i passati
presidenti. In una situazione che sempre più andava
intricandosi, con il mobilitarsi di interessi forti
oltre che con la crescita delle problematiche sul
terreno, quella esperienza si era dimostrata in effetti
debole, necessariamente priva di profilo strategico. E
il passaggio, logico e per certi versi necessario, si è
dimostrato adeguato alle aspettative. L’Arra, guidata
dall’avvocato Felice Crosta su designazione di Cuffaro,
ha permesso di convogliare nell’isola fondi europei per
miliardi di euro, che non potevano essere utilizzati con
la gestione commissariale. Palazzo d’Orleans ha potuto
contare, da quel momento, su un braccio operativo coeso,
in grado di porsi come interlocutore unico di tutte le
parti in gioco, quindi garante di un sistema. In
definitiva si è materializzato dal versante pubblico il
collante che occorreva per combinare interessi distanti,
passato e presente, tradizioni che non intendono
demordere e scommesse sul futuro.
A
dispetto dei suoi poteri di mediazione e, almeno in via
ufficiale, di intervento specialistico, l’Arra reca un
profilo pesante. Come altri organi regionali di recente
istituzione è retta infatti da logiche di sottogoverno,
tese a garantire la stabilità del personale politico a
dispetto degli eventi. In questo senso non differisce
tanto dagli enti regionali di un tempo: l’Ems, l’Eas,
altri ancora. Si è distinta inoltre, sin dalla nascita,
per le spese inusitate del suo funzionamento, a tutti i
livelli, a partire comunque dal più elevato. Crosta, che
dagli esordi la dirige con piglio decisionistico, è
risultato il burocrate meglio pagato in Italia, con un
compenso complessivo di oltre 500 mila euro l’anno, pari
a circa 1500 al giorno. Per contenere lo scandalo che
andava montando nel paese, si è adottato un escamotage
singolare, inteso a bilanciare di fatto i poteri
nell’Agenzia. Nel 2008 è stato posto per legge un tetto
di 250 mila euro ai compensi dei burocrati, ma,
contestualmente, è stato deciso di affiancare a Crosta
tre consiglieri, perché tutti i partiti di governo
potessero essere rappresentati. La scelta è caduta
quindi su Giuseppe Infurna, ex deputato regionale di An,
Rossella Puglisi, già candidata per l’Udc alle politiche
del 2008, Guglielmo Scammacca, ex assessore regionale ai
Lavori Pubblici: quest’ultimo poi sostituito, per
riequilibrare le influenze, da Giovanni Cappuzzello, già
candidato Mpa alle politiche. Anche tali consiglieri
beninteso, sulle cui professionalità e competenze ha
dovuto garantire Crosta, non importa con quanta
convinzione, godono di compensi annui di 250 mila euro
cadauno, per 750 mila complessivi.
Gli stipendi d’oro e gli scambi con i partiti di
governo, nel solco appunto di una tradizione,
costituiscono tuttavia solo il sintomo di un modo di
essere, perché nelle politiche sul terreno si sono
espresse compiutamente le logiche dell’autorità
regionale. Ne sono uscite infatti istituzionalizzate
emergenze che prima erano state gestite in modo
contingente e tattico, con aggravamenti non da poco. In
tema di rifiuti, il caso più rappresentativo è quello
dei termovalorizzatori, la cui realizzazione, a dispetto
dell’opposizione di intere cittadinanze, era stata
assegnata nel 2003 a compagini guidate dal Gruppo Falck
e da Waste Italia. Dopo l’annullamento della Corte di
Giustizia dell’UE dei due appalti, quando le
installazioni erano già in opera, l’Agenzia di Crosta
avrebbe potuto agire con determinazione lungo vie
alternative, come veniva indicato da tecnici e da estesi
movimenti. Invece ha preso tempo e insiste a prenderne,
tanto da legittimare l’ipotesi, nell’ambito delle
opposizioni politiche e non solo, che si voglia eludere,
con dei marchingegni, il divieto dell’Unione Europea,
mentre nelle città siciliane incombono emergenze rifiuti
di rilievo napoletano e in certi ambienti si insiste a
guadagnare con le discariche abusive.
In tale vicenda, che ha visto in palio oltre un miliardo
di euro, Felice Crosta, prima da vice commissario per
l’emergenza rifiuti, poi da presidente dell’Arra, è
andato muovendosi in realtà con spesse motivazioni. Nel
2003 ha siglato personalmente la convenzione con le
compagini vincitrici, di cui ha avuto modo di conoscere
da vicino caratteri, progetti, apparentamenti. Le
anomalie degli appalti che alcuni anni dopo sarebbero
state riscontrate in sede comunitaria non poterono
essere quindi frutto del caso. Richiamano bensì degli
atteggiamenti. E la cosa tanto più appare indicativa, di
un clima se non altro, se si tiene conto di alcune
realtà economiche incastonate in quelle cordate
aggiudicatarie, che reclamano oggi una penale di 200
milioni di euro per l’annullamento degli accordi. Si
tratta della Emit, che fa capo alla famiglia Pisante, e
della Altecoen, che riconduce al medesimo gruppo oltre
che all’imprenditore Pietro Gulino di Enna. La prima
risulta presente negli appalti per i termovalorizzatori
di Palermo e Casteltermini, sotto la guida della
Actelios del gruppo Falck. La seconda figura nel
cartello aggiudicatario dell’inceneritore di Augusta,
guidato ancora da Actelios, mentre costituisce un pezzo
forte del consorzio Sicil Power, che si è aggiudicata
l’appalto dell’inceneritore di Messina. A fare la
differenza sono comunque due dettagli. Sia i Pisante sia
Gulino recano un passato giudiziario importante. I
primi, che proprio con l’imprenditore ennese sono stati
dentro l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, finito in
scandalo con numerosi arresti, risultano inseriti in
modo strategico, con presenze quindi a tutto campo,
nell’altro ambito interessato dall’Arra: quello
dell’acqua. Ebbene, tutto questo, ancora una volta, non
può essere considerato casuale. Richiama bensì
concertazioni mirate, una macchina in movimento, che
trova riscontri proprio nei modi in cui l’Agenzia di
Crosta si è posta sul terreno delle risorse idriche.
In effetti, pure da tale prospettiva sono andati
creandosi strani miscugli, largamente condivisi dai
potentati regionali. Il momento di avvio, che in qualche
modo ha aperto le piste dell’affare siciliano, si è
avuto comunque con l’entrata in campo della
multinazionale francese Veolia intorno al 2003. Tale
società aveva già stretto un patto di ferro con i
Pisante, attraverso la condivisione del pacchetto
azionario della Siba, che aveva assunto gestioni di
acqua e depuratori lungo tutta la penisola. Volgendosi
alla Sicilia, recava quindi buone ragioni per fare
cordata con l’alleato pugliese, che peraltro, proprio
nell’isola recava interessi e referenti. Pure con questi
ultimi, beninteso, la multinazionale ha dovuto fare i
conti. Si è ritrovata a interloquire infatti con il
Gulino di Altecoen e ha dovuto riconoscere spazi di
tutto rispetto al nisseno Di Vincenzo. In tali termini
si compiva quindi, nel 2004, la maggiore esperienza di
privatizzazione dell’acqua nell’isola, con il passaggio
degli acquedotti dall’Eas a Sicilacque. E Felice Crosta,
nelle vesti allora di commissario straordinario
all’emergenza, sul piano strettamente operativo ne è
stato l’artefice, per diventarne infine, da
plenipotenziario dell’Arra, il garante.
Nell’aprile 2004, Salvatore Cuffaro dichiarava
solennemente che la privatizzazione era ormai pressoché
fatta e l’emergenza in via di superamento. Ma le
aspettative di un iter veloce e confortevole della prima
sono durate poco. L’istituzione dell’Agenzia è apparsa
la risposta idonea. E in una certa misura lo è stata, se
è riuscita, appunto, ad avocare a sé poteri, a stabilire
quindi regole e direzioni di marcia in tutto il
territorio regionale. Non si è tenuto tuttavia conto di
talune situazioni sul terreno, che sono andate facendosi
sempre più magmatiche. Non si tratta solo dei ricorsi al
Tar, che nella definizione degli appalti sono diventati
una consuetudine. Né delle direttive comunitarie, che
pure hanno costituito uno scoglio difficile, talora
addirittura insuperabile. È maggiormente lungo il
perimetro degli Ato che il disegno strategico di Crosta
è andato impigliandosi. A partire dagli Ato stessi. Ne
sarebbero potuti nascere uno per provincia. Ne sono
risultati 27, che contano ben 189 consiglieri
d’amministrazione. In sintonia con contraenti privati,
sotto comunque le direttive dell’Arra, le autorità di
Ambito avrebbero dovuto mettere ordine nei servizi
idrici e nel ciclo dei rifiuti, invece su entrambe le
linee si è finiti in piena calamità. In ultimo, l’intera
macchina degli Ato è entrata in crisi, fino al limite
del dissesto, con un indebitamento complessivo di quasi
un miliardo di euro, non tanto per le difficoltà
economiche degli enti locali di riferimento, pur
significative, quanto per i modi in cui ha gestito le
proprie economie, a partire dalle spese di
funzionamento, che non costituiscono beninteso le
maggiori. Alcuni numeri al riguardo sono eloquenti: solo
i 189 consiglieri di amministrazione costano ai comuni
circa 12 milioni di euro l’anno; una somma analoga viene
destinata a incarichi di consulenza; qualche milione
viene speso addirittura per le auto blu.
L’Agenzia di Crosta è andata portandosi, come è
evidente, su un terreno critico. Alle emergenze che ne
hanno garantito la sopravvivenza e il potere, se ne sono
aggiunte infatti altre, meno controllabili, tanto più in
tempi di recessione. D’altra parte, restano impegnative
le pretese del privato, entro cui insistono a influire
le ipoteche della tradizione. Garante di un sistema che
ha incluso ed escluso, l’Arra ha sempre rispettato i
patti con i contraenti, visibili e sottintesi. Ne danno
conto i capitoli di spesa della Regione, l’impiego di
fondi europei, la concessione a certe condizioni del
patrimonio pubblico, la condivisione o la tolleranza di
taluni stati di fatto. Con l’apporto decisivo degli Ato
e non solo, ha finito quindi con il rendere sistema, più
ancora che in passato, lo spreco di risorse. Mentre si
consuma allora il fallimento del piano rifiuti, Felice
Crosta può trovare confacente siglare un accordo con
Actelios e Sicil Power, con cui viene stabilito in 200
milioni di euro la somma che dovrà essere pagata alle
medesime a titolo di penale per l’annullamento
dell’appalto degli inceneritori: un importo, appunto,
che lascia tanto dubitare. A dispetto dell’obbligo di
astensione, l’Arra trova altresì confacente proporre
nuovi bandi di gara, che violano di fatto l’obbligo di
esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia Ue,
oltre che i princìpi della libera concorrenza. E ancora,
di concerto con la Regione, che intanto ha dovuto farsi
carico dei 540 milioni di debiti accumulati dall’Eas,
trova congruo che gli indebitamenti degli Ato vengano
risanati, come è avvenuto nel caso di Simeto Ambiente,
con i fondi delle autonomie locali.
Tutto questo ha recato beninteso dei costi, che possono
esporre l’autorità regionale a una serie di pericoli.
Alcuni segnali possono persino evocare gli anni dell’Eas
di Aristide Gunnella, finiti in scandalo: il crepuscolo
cioè di un sistema che nei decenni della Dc aveva
espresso i caratteri di un feudo. In tutta la Sicilia è
in effetti allarme. Le denunce si moltiplicano. In
numerosi centri la protesta, che sempre più riunisce
l’intera banda delle emergenze, giunge a coinvolgere
sindaci ed esponenti degli stessi partiti che governano
la Regione. E dal palazzo liberty da cui muovono Crosta
e i suoi commissari ad acta si colgono indizi di
tensione, mentre la partita dei termovalorizzatori,
sempre più influente e contaminante, rischia di generare
ulteriori scoperture. Su tali sfondi trova senso allora
la decisione di sciogliere l’Agenzia, presa dall’Ars il
28 novembre 2008, su proposta del consigliere Giuseppe
Laccoto del Pd. Il termine delle operazioni di chiusura
è stato fissato nel 31 dicembre 2009, dopo cui è
prevista l’entrata in funzione di un Dipartimento delle
acque e dei rifiuti presso il nuovo assessorato
dell’Energia. Ma per il sistema vigente è scoccato
realmente l’inizio della fine?
L’Arra, espressione del potere regionale, si è resa
garante di equilibri delicati, fino a divenire
l’emblema, si direbbe il monumento, della
privatizzazione in stile siciliano. Non può quindi
scomparire senza che se ne avvertano serie risonanze.
Crosta in particolare si è assunto l’onere di condurre
in porto progetti che restano largamente irrisolti.
Esistono servizi idrici da assegnare in aree importanti,
come quelle di Messina e Trapani. La problematica dei
termovalorizzatori rimane appunto nelle secche. Per tali
ragioni, e non solo, è difficile che entro il dicembre
2009 i conti possano essere chiusi. Se da parte
dell’opposizione, con un emendamento proposto dallo
stesso Laccoto, è stato chiesto quindi di anticipare lo
scioglimento dell’Agenzia e il passaggio di consegne,
nell’ambito dei partiti di maggioranza si sta operando
perché la decisione dell’Ars venga rivista, elusa, fatta
decadere. In questa direzione va in particolare la presa
di posizione del capogruppo dell’Udc Rudy Maira, secondo
cui la professionalità acquisita sul campo dai
funzionari dell’Arra non è sostituibile. Il resto,
ovviamente, va facendosi in sordina.
Fonte: “L’isola
possibile” rivista mensile siciliana allegata a “Il
Manifesto”, maggio 2009