Le Pagine di Storia

LA RESISTENZA

Ricerca storica e revisionismo

a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

 

Esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che possiamo definire come l'ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l'una ha un valore eminentemente storiografico, l'altro si colloca fu un ambito sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla base dei documenti (“pas de documents, pas d'histoire”: senza documenti non c'è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica francese). I documenti vanno opportunamente trattati, onde accertarne l'autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità), opportunamente «interrogati» e «sollecitati», e infine interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti - documenti fino ad allora sconosciuti - o del perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell'emergere di sensibilità nuove, si procede a quell'incessante lavoro di «revisione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza che così si può raggiungere è il prodotto collettivo di individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il livello della costruzione, piano dopo piano.

Ma il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «rivedere», possibilmente in modo drastico, le conoscenze acquisite, partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora siano «bugie»: sintomatico in tal senso un titolo dell'ultimo Pansa (La grande bugia) o quello del recente pamphlet di Melograni (Le bugie della storia), nel quale apprendiamo una serie di comiche «rivelazioni» partorite tutte dalla fertile inventiva dell'autore: da Marx che «ignorava il mondo del lavoro» a Hitler che «non voleva la guerra». Con questi due esempi - non sono certo gli unici - siamo oltre il revisionismo: siamo in pieno «rovescismo». Che può essere definito come la fase suprema del revisionismo stesso. Volete assicurarvi il successo in un pubblico vasto e ingenuamente appassionato di storia? Bene. Basta prendere un fatto noto, almeno nelle sue grandi linee, un personaggio importante, un episodio che ha costituito un momento variamente epocale...

Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull'occultamento; di solito, responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti. Che viene presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l'arte speciosa del rovesciamento, come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità.

Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». Senza alcun rispetto per i più elementari principi del lavoro storiografico. Dall'alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo, i quali (udite, udite!) vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati … Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo fidarci del loro intuito, o delle loro ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travasamenti» di libri in altri libri. Così Benedetto Croce, che molti decenni or sono denunciava le «pseudostorie».

Per raccontare la storia non basta scrivere, per di più con il ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l'invenzione narrativa (se così vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è impossibile. L'autore ha la risposta pronta. Se lo becchi in castagna ti può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere l'esattezza.

Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci riescono. Quel che è grave è il risultato del loro «lavoro»: una totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie di senso comune nel quale c'è posto per tutti, trasformando l’arena della ricerca in un infinito taIk show, una situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detta la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui si battono. Norberto Bobbio ammoniva i revisionisti con una domanda rimasta senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da Mussolini?

Con questa deriva pseudostorica, insomma, tutto si può dire, impunemente. I rovescisti continuino pure a scrivere quello che certi editori chiedono, ma, per favore, non chiamatela «storia».


Articolo tratto da Angelo d'Orsi, La Stampa, 18 ottobre 2006 (leggi tutto l'articolo)

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino- il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2006: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato