Esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento
irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il
revisionismo, che possiamo definire come l'ideologia e la
pratica della revisione programmatica. Se l'una ha un valore
eminentemente storiografico, l'altro si colloca fu un ambito
sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello
storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità
dei fatti, sulla base dei documenti (“pas de documents, pas
d'histoire”: senza documenti non c'è storia, ci ha insegnato
la grande tradizione metodologica francese). I documenti vanno
opportunamente trattati, onde accertarne l'autenticità, la
provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che
raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità),
opportunamente «interrogati» e «sollecitati», e infine
interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove
fonti - documenti fino ad allora sconosciuti - o del
perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell'emergere di
sensibilità nuove, si procede a quell'incessante lavoro di
«revisione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza
che così si può raggiungere è il prodotto collettivo di
individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che
fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio,
correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il
livello della costruzione, piano dopo piano.
Ma il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «rivedere»,
possibilmente in modo drastico, le conoscenze acquisite,
partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora
siano «bugie»: sintomatico in tal senso un titolo dell'ultimo
Pansa (La grande bugia) o quello del recente pamphlet di
Melograni (Le bugie della storia), nel quale apprendiamo
una serie di comiche «rivelazioni» partorite tutte dalla fertile
inventiva dell'autore: da Marx che «ignorava il mondo del
lavoro» a Hitler che «non voleva la guerra». Con
questi due esempi - non sono certo gli unici - siamo oltre il
revisionismo: siamo in pieno «rovescismo». Che può essere
definito come la fase suprema del revisionismo stesso. Volete
assicurarvi il successo in un pubblico vasto e ingenuamente
appassionato di storia? Bene. Basta prendere un fatto noto,
almeno nelle sue grandi linee, un personaggio importante, un
episodio che ha costituito un momento variamente epocale...
Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una
menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata
sull'occultamento; di solito, responsabili delle menzogne e dei
nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino
ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti.
Che viene presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un
soggetto storico su cui esercitare l'arte speciosa del
rovesciamento, come ispiratore delle trame storiografiche
negatrici della verità.
Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire
una «verità alternativa». Senza alcun rispetto per i più
elementari principi del lavoro storiografico. Dall'alto delle
loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli
accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo, i
quali (udite, udite!) vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le
note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di
verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel
regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro
stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi
archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo
inventati i documenti, o li abbiamo alterati … Per i rovescisti
questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo fidarci del
loro intuito, o delle loro ricostruzioni fatte sulla base di
racconti altrui, o di «travasamenti» di libri in altri libri.
Così Benedetto Croce, che molti decenni or sono denunciava le
«pseudostorie».
Per raccontare la storia non basta scrivere, per di più con il
ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola
l'invenzione narrativa (se così vogliamo chiamarla) e la pretesa
di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di
metodo e di merito è impossibile. L'autore ha la risposta
pronta. Se lo becchi in castagna ti può sempre rispondere che la
sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere
l'esattezza.
Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla
maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito
è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti
vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci
riescono. Quel che è grave è il risultato del loro «lavoro»: una
totale perdita di significato della storia, e la nascita di una
specie di senso comune nel quale c'è posto per tutti,
trasformando l’arena della ricerca in un infinito taIk show, una
situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detta la
vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la
medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli
individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui si
battono. Norberto Bobbio ammoniva i revisionisti con una domanda
rimasta senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse
prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei
resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»?
Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli
italiani mandati al macello da Mussolini?
Con questa deriva pseudostorica, insomma, tutto si può dire,
impunemente. I rovescisti continuino pure a scrivere quello che
certi editori chiedono, ma, per favore, non chiamatela «storia».
Articolo
tratto da Angelo d'Orsi, La Stampa, 18 ottobre 2006 (leggi
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