Rovesciamo, fase suprema del revisionismo
di Angelo d'Orsi
Chi sospetta che le ambizioni del giornalista Pansa siano di tipo
politico, può ritenersi accontentato, sia pure col beneficio del dubbio:
il «caso» è diventato un problema di ordine pubblico, dopo gli insulti e
le baruffe a Reggio Emilia, tra giovani di sinistra che contestavano
Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti e intervento finale
della polizia.
Sarebbe tuttavia un errore isolare Pansa: ormai si deve parlare di tutta
una categoria di «rovistatori» della Resistenza, che grattano il fondo
del barile per vedere dove si annidi (eventualmente) il marcio, e anche
se non c'è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte fu prima
pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico,
senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli
autori di libri di tal fatta vendono, troveranno editori disposti a
scommettere su di loro, media pronti a parlarne (e come si fa a non
parlarne?), e un pubblico via via più incuriosito.
Una categoria inesauribile
Ma anche i rovistatori della Resistenza rientrano in una categoria più
ampia, che sembra inesauribile e dalla quale ci dobbiamo aspettare altre
puntate, sempre più clamorose. Noi sappiamo bene che esiste una
differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del
lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che possiamo definire
come l'ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l'una ha
un valore eminentemente storiografico, l'altro si colloca fu un ambito
sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico?
Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla
base dei documenti (“pas de documents, pasd'histoire”: senza documenti
non c'è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica
francese). I documenti vanno opportunamente trattati, onde accertarne
l'autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti
autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità),
opportunamente «interrogati» e «sollecitati» (consiglio al riguardo ai
sedicenti «storici» dalle trecentomila copie, la lettura dell'ultimo
libro di Carlo Ginzburg: Il filo e le tracce), e infine
interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti -
documenti fino ad allora sconosciuti - o del perfezionamento di tecniche
di ricerca, o dell'emergere di sensibilità nuove, si procede a quell'incessante
lavoro di «revisione», che è anima del lavoro storiografico. La
conoscenza che così si può raggiungere è il prodotto collettivo di
individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno
ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo,
integrando il già costruito, o facendo salire il livello della
costruzione, piano dopo piano.
Comiche rivelazioni
Ma il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «rivedere»,
possibilmente in modo drastico, le conoscenze acquisite, partendo dal
presupposto che quello che abbiamo appreso finora siano «bugie»:
sintomatico in tal senso il titolo dell'ultimo Pansa (La grande bugia)
o quello del recente pamphlet di Melograni (Le bugie della storia),
nel quale apprendiamo una serie di comiche «rivelazioni» partorite tutte
dalla fertile inventiva dell'autore: da Marx che «ignorava il mondo
del lavoro» a Hitler che «non voleva la guerra». Con questi
due esempi - non sono certo gli unici - siamo oltre il revisionismo:
siamo in pieno «rovescismo». Che può essere definito come la fase
suprema del revisionismo stesso. Volete assicurarvi il successo in un
pubblico vasto e ingenuamente appassionato di storia? Bene. Basta
prendere un fatto noto, almeno nelle sue grandi linee, un personaggio
importante, un episodio che ha costituito un momento variamente
epocale...
I comunisti menzogneri
Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una menzogna, o
perchè fondata sulla falsità, o perché basata sull'occultamento; di
solito, responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità,
sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un
particolare accanimento su Togliatti. Che viene presentato, spesso e
volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare
l'arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame
storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa
e sodali.
Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una
«verità alternativa». E più si spara alto, più si allarga il bacino
d'utenza. I Borboni erano illuminati, Cavour un pedofilo, Garibaldi un
maniaco, i partigiani assassini …
Un filone d'oro
Quest'ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina
dalle uova d'oro. Senza alcun rispetto per i più elementari principi del
lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico
rovesciamento di giudizio sul '43-45. Naturalmente, ciò non sarebbe
possibile senza editori che sollecitano libri di tal genere, libri che
rovescino quello che si sa, altrimenti chi lo compra un altro libro
sulla Resistenza?
Dall'alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti
irridono agli accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo,
i quali (udite, udite!) vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note
non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare
quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction:
chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite
andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e
controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati …
Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo
fidarci del loro intuito, o - come Pansa procede - delle loro
ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travasamenti»
di libri in altri libri. Così Benedetto Croce, che molti decenni or sono
denunciava le «pseudostorie». Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo
senso. Per raccontare la storia non basta scrivere, per di più con il
ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l'invenzione
narrativa (se così vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i
fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è
impossibile. L'autore ha la risposta pronta. Se lo becchi in castagna ti
può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si
può pretendere l'esattezza.
Vogliono solo far colpo
Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla
maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è
avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti vogliono
fare colpo, vendere libri, far parlare di sé.
E ci riescono. Quel che è grave è il risultato del loro «lavoro»: una
totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie
di senso comune nel quale c'è posto per tutti, trasformando l’arena
della ricerca in un infinito taIk show, una situazione in cui la ricerca
diventa opinione (avete detta la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte
le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le
ragioni degli individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui
si battono. Norberto Bobbio ammoniva i revisionisti con una domanda
rimasta senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso
il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere
equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E
quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da
Mussolini?
Con questa deriva pseudostorica, insomma, tutto si può dire,
impunemente. Non concordo con la contestazione dei giovani a Pansa: i
rovescisti continuino pure a scrivere quello che certi editori chiedono,
ma, per favore, non chiamatela «storia».
Angelo d'Orsi, La Stampa, 18 ottobre 2006