Nel 1861 la
produzione agricola costituisce ancora la principale attività
dell’intero paese ma al nord, nel Piemonte e nella Lombardia, si va
sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole del tutto
assente nelle regioni del Mezzogiorno.
Questo
modello gestionale prevedeva l'investimento di cospicue quantità di
denaro per l'ammodernamento degli strumenti di produzione delle aziende
agricole, che ha per conseguenza un costante incremento della produzione
e la progressiva meccanizzazione del lavoro. Il sistema di produzione,
incentivato dalle politiche liberiste del Piemonte sabaudo, contribuisce
a sviluppare una borghesia imprenditrice, disposta ad investire parti
consistenti dei propri profitti per l'ammodernamento delle imprese e
tende ad estinguere i comportamenti tipici dell'aristocrazia terriera
che fondava la propria ricchezza su posizioni di rendita e non
reinvestiva.
Nel meridione
d'Italia nell'agricoltura domina ancora un tipo di organizzazione e di
gestione di chiara origine feudale. Ai medi e piccoli proprietari del
nord Italia si contrappone al sud l'immensa distesa del latifondo, di
proprietà di una borghesia assenteista che ha rilevato non solo le
proprietà ma anche gli usi e i modi dell'aristocrazia.
La borghesia
meridionale non era disposta a reinvestire i propri profitti nelle
imprese agricole, che pertanto rimanevano in condizioni di arretratezza
produttiva rispetto al nord Italia. Scrive lo storico Francesco
Barbagallo: "La classe borghese dei grandi e medi proprietari
terrieri nasceva e si rafforzava al di fuori di un reale conflitto con
la proprietà nobiliare, anzi aspirava ad imitarne i costumi e le
abitudini, e mutuava dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale
sfruttamento della terra e dei contadini. L'appropriazione borghese
della terra non comportava il superamento dei rapporti agrari e sociali
più arretrati."
Inoltre nei
primi anni unitari, mentre a nord si ricostruiva al sud, si combatteva
per via del fenomeno del "brigantaggio" (vedi
Appendice:
Il banditismo sociale). Il
primo ad interrogarsi seriamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò "Lettere Meridionali". Uomo della
destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi del Mezzogiorno,
indagando sull’inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche e
sulla impopolarità della Destra storica, che per raggiungere il pareggio
di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni al contadiname,
creando forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del
nord che del sud. Secondo il Villari era fondamentale inoltre che la
borghesia terriera, si persuadesse al cambiamento, secondo il modello
dei conservatori inglesi che avevano capito la necessità di riformare
per conservare.
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La fucilazione del brigante "Petruzziello" |
Nella storia
dell’economia italiana e in quella della questione meridionale, un
momento particolarmente importante fu la svolta protezionistica del
1887, sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni
europee, tranne l’Inghilterra, nel tentativo arginare la crisi agraria e
rafforzare la produzione industriale. Le tariffe protezionistiche
rendono difficile l’importazione di merci e favoriscono in tal modo
l’industria nazionale che può mettere sul mercato interno i propri
prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Questi
provvedimenti rendono possibile l’accumulo di capitali all’industria ma
penalizza i cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più alti
in assenza di concorrenza.
Il
protezionismo segna anche l’avvento del mito della forza della nazione,
analogamente a quanto avverrà con l’autarchia fascista, alla quale i
governi decidono di sacrificare il benessere dei cittadini. In Italia,
il provvedimento ha notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo
economico del sud Italia. Al nord infatti esiste, sebbene ancora in
embrione, una struttura industriale pronta a cogliere i benefici
derivanti dalle tariffe protezionistiche. Al sud, al contrario, non
esistono poli industriali di rilievo. I pochi presenti sono stati
spazzati via dalla concorrenza sorta durante i primi anni di libero
mercato. La tariffa protezionistica avvantaggia in questo senso
indubbiamente il nord Italia, amplificando le distanze con il
mezzogiorno.
Eppure, a varare queste tariffe, fu il primo governo della Sinistra
Storica, guidato da De Pretis, politico di origine meridionale. Perché i
politici meridionali accettano allora il protezionismo che affossa
l’economia meridionale? Semplice si sta formando l’alleanza tra le
classi sociali del nord e del sud che controlleranno il paese per molti
anni a venire: Il protezionismo, esteso anche alla produzione agricola,
legherà gli agrari meridionali e gli industriali settentrionali. La
borghesia latifondista del sud infatti viene avvantaggiata da dazi
doganali che mantengono forzosamente competitiva la produzione agricola
sul mercato interno, anche se questa si basa su processi di produzione
arcaici e arretrati, praticamente a costo zero. Lo stesso vale per
l’industria degli zolfi che si avvale di manovalanza minorile a costo
quasi zero.
L‘accordo tra
produttori del nord e latifondisti del sud distruggerà l’economia del
meridione e il divario diverrà incolmabile. Gli agrari meridionali
continuarono a sfruttare la classe contadina rafforzando il proprio
potere politico attraverso l’alleanza con gli industriali del nord. Ma
essendo in mano a questi ultimi il settore produttivo più avanzato,
finiranno per essere questi ultimi a detenere la guida del paese e
lasceranno nell’arretratezza il popolo meridionale, delle cui sorti si
disinteressa il ceto agrario e nobile.
Bisogna anche
dire che il nord non fece e continua a non fare nulla per il benessere
dello Stato. Tranne qualche rarissima eccezione in massima parte gli
hanno sfruttato lo stato nel loro interesse privato, scivolando
nell’esercizio della pura speculazione finanziaria.
Fara Misuraca
giugno 2007
Appendice
Il banditismo sociale
Carmine Crocco
Secondo la legge chiunque appartenga a un gruppo che aggredisce e rapina
a mano armata è un bandito, sia che rapini una diligenza o una banca o
che sia un ribelle o un guerrigliero ufficialmente riconosciuto. Questa
è chiaramente una definizione di massima che mal si adatta a quella
particolare tipologia di banditi che l’opinione pubblica
non considera delinquenti
comuni. Si tratta di norma di forme di ribellioni individuali o di
minoranze all’interno delle società rurali.
I banditi sociali sono ritenuti criminali dal signore o dall’autorità
statale ma sono considerati, all’interno della comunità contadina come
eroi, campioni, vendicatori, capi di movimenti di liberazione.
Importante è capire quando nell’ambito di una società rurale un fenomeno
che possiamo definire endemico
assume rilevanza tale da coinvolgere strati massicci della popolazione e
diventare pandemico.
Molti sono gli esempi di banditismo espresso come fenomeno di massa,
cioè come azione di gruppi armati, in paesi dove il potere è instabile,
inesistente o indebolito da cambiamenti o transizioni. Basta pensare al
periodo delle guerre che nel seicento travagliarono la Germania o delle
rivoluzioni in Francia o in Cina o nell’America latina (Francisco
“Pancho” Villa, ad esempio).
Anche in Italia
i primi anni
di vita dello stato unitario furono per il Mezzogiorno continentale anni
di violente e disperate insurrezioni contadine e di una sanguinosa
guerra per bande nelle campagne.
Il banditismo
sociale è una risposta delle classi contadine alla crisi della società
alla quale sono abituati e in cui da sempre vivono. E’ la manifestazione
di una forma di autonomia e di giustizia. I “banditi” tuttavia, a parte
la volontà di rifiutare la sottomissione individuale, non hanno idee
diverse da quelle della società di cui fanno parte (Hobsbawm, I banditi,
Einaudi). Sono uomini d’azione, non ideologi, sono capi con forte
personalità e talento militare, come Crocco o Ninco Nanco. Il loro
“programma” consiste nel restaurare l’ordine tradizionale, il rapporto
tra potente e debole, tra il ricco e il povero ma entro i limiti cui
sono abituati. Il bandito non vuole abolire i padroni, vuole solo che
questi siano “paterni”. In parole povere il bandito sociale non è un
rivoluzionario è solo un riformatore. E’ la situazione che si venne a
creare nelle campagne del regno meridionale all’indomani della conquista
piemontese: il nuovo padrone non si rivelò paterno, il nuovo sistema era
“rivoluzionario e sovversivo, così come lo era stato nel 1799, ma allora
i banditi trovarono un capo che pensava e parlava come loro, il
cardinale Ruffo, ed ebbero ragione degli innovatori.
Le nuove
classi dirigenti occupanti definirono tutto ciò, "brigantaggio".
Tentarono di farlo passare come un fenomeno di criminalità comune, che
doveva e poteva essere represso con la violenza e insinuarono l’idea che
per stroncarlo definitivamente era necessaria la eliminazione dello
stato pontificio. E per ciò insistettero presso l'opinione pubblica
internazionale sullo stimolo e sul sostegno che ai "briganti" veniva
dalla corte pontificia e da quella borbonica in esilio.
Ma non era
così, l'influenza borbonica e pontificia sul brigantaggio e sui fatti
che esso ebbe a determinare, fu infatti di scarso rilievo e limitata nel
tempo, riconducibile all’intervento di pochi difensori del realismo
quali, ad esempio, il generale Borjes, ben presto abbandonato, se non
tradito, da Carmine Donatelli detto Crocco e lasciato in pasto alle
truppe piemontesi. Proprio perché il “bandito” difende la propria
autonomia ed il proprio concetto di giustizia rifiutando qualsiasi
sottomissione.
Guerriglie e
rivolte assunsero proporzioni tali da mettere a dura prova il nuovo
stato.
Contro i
"briganti" il governo scatenò una repressione feroce. Ai delitti brutali
commessi nel corso delle rivolte rispose con rappresaglie feroci ed
esecuzioni sommarie.
Fu una
"guerra" spietata, la prima dell'esercito “italiano”, fatta, più che di
battaglie, di agguati e selvaggi combattimenti corpo a corpo, di stragi,
di reati comuni e di vandalismi commessi da ambedue le parti. (Vedi
situazione in Iraq, uno stato assolutista e repressivo quanto vuoi, ma
florido. Vedi come è ridotto oggi dopo che uno stato straniero ha
tentato di imporre le sue leggi ed il “banditismo” si è scatenato).
Questa guerra
devastò l'economia di intere province, provocando la distruzione di
decine di paesi e la morte di migliaia di uomini mentre nel nord del
paese si dava il via alla crescita economica.
Fara Misuraca
giugno 2007
vedi anche la monografia "Il banditismo
sociale"
Bibliografia
-
G. Fortunato,
Il
mezzogiorno e
lo stato italiano,
Vallecchi, Firenze 1973
-
A. Gramsci,
La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1966
-
F.S. Nitti,
Napoli e la questione meridionale, Laterza, Bari 1958
-
R. Villari ,
Il sud nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1984
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