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La distruzione di Montecassino
di
Marco Liguori
L’abbazia di
Montecassino fu distrutta da un errore di traduzione. Anzi per
meglio dire fu uno scambio tra un nome di genere femminile e uno di
genere maschile alla base dell’eliminazione di uno dei monumenti
della cristianità, a causa di un bombardamento effettuato da una
miriade di aerei anglo-americani.
E’ il febbraio del
1944, le forze alleate sono inchiodate sul fronte di Cassino dalle
truppe tedesche e non riescono ad avanzare di un solo metro. La
"linea Hitler" o "sbarramento Senger", costruito dalle truppe del
Terzo Reich tra i monti Aurunci e la valle del Liri, bloccava il
nemico che si scontrava ripetutamente contro di essa con numerosi
attacchi, respinti con notevoli perdite. Si sarebbe potuto aggirare
subito l’ostacolo con una manovra avvolgente, secondo il piano del
generale francese Juin, ma il comando supremo alleato si volle
scontrare con il muro di Cassino. A nulla era servito lo sbarco ad
Anzio e Nettuno, sulle cui spiagge era rimasto fermo il contingente
guidato dal generale americano Lucas, un "re tentenna" colpevole di
non aver lanciato subito l’offensiva verso Roma per spezzare le
retroguardie tedesche.
Ma l’errore più grave, che costerà un tributo altissimo di sangue
per le forze alleate, fu il bombardamento dell’abbazia e
dell’abitato di Cassino, le cui macerie rallentarono notevolmente la
spinta offensiva delle truppe attaccanti. La distruzione del
monastero fondato da San Benedetto nell’Alto Medioevo fu chiesta a
gran voce dal generale sir Bernard Freyberg, comandante del corpo
d’armata neozelandese, comprendente la 2a divisione di
fanteria della Nuova Zelanda, la 4a divisione di fanteria
indiana e la 78a divisione di fanteria britannica. I
neozelandesi avevano sostituito la 36a divisione
americana, utilizzata negli attacchi alla cittadina laziale, mentre
gli indiani avevano dato il cambio alla 34a divisione
americana (detta dei "Red bull", Tori rossi) impegnata nel
nord del fronte. Entrambe le unità Usa erano state decimate dagli
attacchi contro i tedeschi, che non avevano modificato il
dispositivo difensivo. Quest’ultimo era composto dalla 15a
Panzergrenadier, appoggiata dal grosso dell’artiglieria
del XIV Panzercorps, forte di 180 cannoni, un consistente
numero di carri lanciarazzi Nebelwerfer e una sessantina di
carri armati Panther e Tigre. I difensori erano
agevolati nel loro compito dal territorio impervio, costituito da
rocce brulle presenti in modo particolare sul colle dell’abbazia.
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carro
Tigre |
Tuttavia Freyberg
pensava di riuscire ad accerchiare il nemico, tramite una manovra a
tenaglia condotta a nord dalla divisione indiana, che avrebbe dovuto
conquistare il colle dov’era situata l’abbazia, mentre i
neozelandesi avrebbero conquistato l’abitato di Cassino. Le sue
truppe vittoriose avrebbero scacciato i tedeschi e li avrebbero
incalzati sino ad Anzio a Nettuno, dove si sarebbero ricongiunte con
l’armata alleata rimasta ancora inchiodata sulla spiaggia. Per
portare a termine il suo piano, il generale neozelandese pretese la
distruzione del monastero, che sovrastava la cittadina e la valle
del Liri a 519 metri d’altezza. Secondo Freyberg, i tedeschi avevano
installato un osservatorio di artiglieria all’interno dell’abbazia,
costituito da canoni di grosso calibro, e di conseguenza il celebre
monumento medioevale doveva essere polverizzato tramite un massiccio
attacco aereo. A nulla valsero le proteste del generale Mark Clark,
comandante della 5a armata americana, che considerava il
bombardamento del simbolo della regola benedettina "ora et labora"
un vero e proprio atto vandalico. E Clark aveva ragione.
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gen. Bernard Freyberg |
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gen Mark Clark |
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E’ stato infatti
provato più volte che alla vigilia del 15 febbraio c’erano nei
pressi dell’abbazia soltanto tre soldati tedeschi di guardia,
incaricati proprio di interdire l’accesso alle truppe naziste.
Quindi non c’era nessun militare all’interno delle mura benedettine:
non c’era quindi alcun motivo per distruggere il monastero. Freyberg
era incalzato dal pessimo umore dei suoi soldati, che ritenevano di
essere "spiati" e colpiti dall’artiglieria tedesca presente nello
storico edificio benedettino. Nel suo libro di memorie, il maggiore
medico americano Luther Wolff impegnato con il suo ospedale da campo
nei pressi di Montelungo (situato ai confini della Campania, non
lontano da Cassino, dove pochi mesi prima gli italiani del corpo di
liberazione avevano combattuto per la prima volta contro i
tedeschi), in cui si curavano i soldati alleati feriti al fronte,
riferisce di un episodio particolare. "I fanti feriti che arrivano
da noi ci dicono che stanno prendendo una batosta terribile per
tentare di salvare l’abbazia di Montecassino e tutti sono furiosi
perché i pezzi grossi vogliono risparmiarla. Dovremmo superare
questo fair play sentimentale. I feriti sono tutti d’accordo:
bisogna distruggere il monastero".
Abate o battaglione?
Il generale neozelandese tuttavia perorò la propria causa nei
confronti del proprio superiore, il maresciallo inglese Harold
Alexander comandante del 15° gruppo di armate in Italia. Lo fece
attraverso un’argomentazione tragicomica, costituita da
un’intercettazione radio mal compresa dagli interpreti inglesi. La
conversazione tra due gruppi di soldati tedeschi recitava "Wo ist
der Abt.?
Ist er noch im Kloster?".
L’ufficiale dell’intelligence inglese tradusse "Dov’è il gruppo?
E’ sempre nel convento?". E qui casca l’asino, nel vero senso
dell’espressione. Lo zelante soldato dell’intelligence alleata pensò
subito che l’abbreviazione "Abt.", corrispondesse al vocabolo
femminile tedesco abteilung, la cui traduzione italiana è
battaglione. Peccato che, nell’eccitazione del momento, non gli
sfiorasse minimamente la mente il pensiero che la sigla tedesca
potesse essere tradotta con il vocabolo più logico e cioè abate,
che è di genere maschile. Questo errore grammaticale, apparentemente
insignificante, ha decretato la polverizzazione del monastero di
Montecassino. Ma c’è un altro particolare ancora più sconcertante e
paradossale. Il generale "Gertie" Tuker, comandante della 4a
divisione indiana, inviò un rapporto al suo superiore Freyberg
dai toni esilaranti. "Dopo essermi dato molto da fare –
scrisse Tuker – e aver cercato in numerose librerie e bancarelle
di Napoli, finalmente ho trovato un libro del 1879 che fornisce
diversi dettagli della costruzione del monastero di Montecassino".
Come dire, alla vigilia di un’importantissima operazione militare
gli alti ufficiali inglesi si erano rivolti ai rigattieri del
capoluogo partenopeo per cercare di conoscere i particolari del loro
obiettivo.
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gen. Harold Alexander
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Gli alleati non
sapevano, dunque, nulla di Montecassino e forse non sapevano nemmeno
con che tipo di esplosivo colpirlo. Per fortuna Tucker lesse
attentamente il libro e comprese che il monastero aveva mura enormi,
profonde 30 metri e alte 5 metri, ed era strutturato come una
fortezza. Comprese quindi che poteva essere attaccata soltanto con
bombe dirompenti ad alto potenziale. Tuker nel suo rapporto si era
permesso anche di fare l’ironico nei confronti dello stato maggiore
alleato, situato a Caserta, che non disponeva di informazioni
sull’abbazia. Il generale inglese sottolineava a Freyberg che il
comando supremo in Italia aveva obbligato un comandante di divisione
"ad andare a rovistare sulle bancarelle di Napoli per scoprire
qualcosa che avrebbe dovuto essere preso in considerazione molte
settimane prima".
Addio
abbazia!
La fine del monastero
era stata dunque decretata. L’ultima difesa era stata affidata al
generale Clark, che considerava il bombardamento di uno dei
monumenti della cristianità come un atto di vandalismo e non lo
considerava un obiettivo militare. Il generale americano riuscì a
frenare solo momentaneamente la richiesta folle di Freyberg, poiché
il II corpo d’armata americano aveva sulla collina di Montecassino
un battaglione, che attendeva di essere sostituito dalla 4a
divisione indiana. I soldati americani erano infatti troppo
vicini all’abbazia, all’interno della linea dell’area definita
"linea di sicurezza dalle bombe". Clark approfittò di questa
situazione per temporeggiare e cercare di tenere a bada Freyberg,
finché il corpo di spedizione neozelandese non avesse assunto la
piena responsabilità del fronte. Ma davanti alle insistenze di
Freyberg, che non voleva deprimere ulteriormente il già basso morale
delle sue truppe, Clark dovette arrendersi e lavarsi le mani del
bombardamento dell’abbazia. Lasciò la patata bollente nelle mani
dell’inglese Alexander, che assecondò senza indugio la richiesta di
Freyberg. Nelle sue memorie, Alexander, giustificò così la
distruzione del convento benedettino. "Quando i soldati si
battono per una giusta causa – scrisse il generale inglese -
e sono pronti a morire o a subire mutilazioni, i mattoni e la calce,
per quanto venerabili, non possono più avere valore delle vite. Un
buon comandante deve tenere conto del morale e dei sentimenti dei
suoi uomini e, cosa non meno importante, i combattenti devono sapere
che le loro vite sono nelle mani di un uomo nel quale possono avere
una fiducia totale. Com’era possibile permettere che restasse in
piedi una simile struttura, dominatrice del campo di battaglia?
L’abbazia deve essere distrutta".
Dunque Freyberg aveva
convinto il suo superiore Alexander. Secondo l’opinione di entrambi,
il "magico" effetto del bombardamento aereo sull’abbazia avrebbe
disorientato il nemico e agevolato la manovra a tenaglia effettuata
dai soldati indiani, esperti nel combattimento in montagna, sulla
collina posta a destra del fronte e da quelli neozelandesi
nell’abitato di Cassino. Questo piano di attacco non era altro che
la copia di quello precedente condotto dalla 34a e dalla
36a divisione americana, con l’aggiunta del violento
attacco aereo. Freyberg, molto arrogante e presuntuoso, pensava che
i suoi soldati sarebbero riusciti dove gli americani avevano
fallito. Il corpo neozelandese era riposato e completo in tutti suoi
effettivi e ciò dava un altro motivo al suo comandante per essere
sicuro del completo successo del suo piano.
Il 12 febbraio 1944 si
richiese l’intervento urgente delle forze aeree alleate. Il
bombardamento era previsto per il giorno successivo, ma le avverse
condizioni meteorologiche non consentivano un’incursione massiccia
dei bombardieri e quindi si dovette rinviare il tutto a pochi giorni
dopo. In questo modo, si riuscì a organizzare e disporre meglio le
divisioni di fanteria che avrebbero dovuto essere impiegate
nell’operazione. Ma soprattutto si ebbe il tempo di avvertire la
popolazione civile e i monaci che ancora risiedevano nell’abbazia. A
tale scopo, gli Alleati lanciarono una marea di volantini su tutta
l’area interessata dall’attacco, in modo che il maggior numero
possibile di religiosi e profughi si potessero mettere in salvo. Il
comandante tedesco del fronte di Cassino, generale Frido von Senger
und Etterlin, cattolico devoto e per giunta terziario benedettino,
aveva già cercato durante le settimane precedenti di convincere
l’ottantaduenne abate Gregorio Diamase e i monaci ad abbandonare il
monastero. I religiosi avevano rifiutato: tuttavia, numerose opere
d’arte e tesori di valore inestimabile erano stati trasportati dai
tedeschi a Roma, proprio in considerazione che l’edificio religioso
poteva subire danni molto gravi. Il pericolo era divenuto realtà e
il generale von Senger mise a disposizione i mezzi di trasporto per
evacuare quanti si trovavano ancora nel monastero. L’abate e alcuni
monaci non vollero però abbandonarlo e restarono all’interno della
cripta.
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gen. Frido
von Senger und Etterlin
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La mattina del 15
febbraio era caratterizzata da una giornata limpida e serena. Era un
invito a nozze per gli aviatori americani e inglesi per poter
effettuare il bombardamento. Dopo un rapido consulto con i generali
al fronte, sir Henry Maitland Wilson, comandante in capo delle
truppe Alleate nel Mediterraneo, mise a disposizione le forze aeree
per l’operazione. Nel marasma dell’attacco, non fu colpevolmente
preparato un coordinamento fra i vari stati maggiori per lanciare la
fanteria all’attacco non appena il bombardamento fosse cessato. Ciò
vanificava l’effetto concreto dell’azione aerea, sempre che ci fosse
stato per gli attaccanti. Questo fu l’errore ancora più letale, che
decreterà il fallimento definitivo del piano Freyberg. Gli alti
comandi Alleati mostrarono ancora di più la propria insipienza,
mostrando di non avere riguardo per le proprie truppe. Queste ultime
furono lasciate oltre la distanza di sicurezza dai possibili
obiettivi del bombardamento: in pratica, il fuoco "amico" poteva
falcidiare la fanteria americana, neozelandese e indiana ancor prima
della reazione tedesca. Altro che il rispetto della vita umana
evidenziato da Alexander nelle sue memorie!
Dagli aeroporti di
Napoli e Foggia decollarono attorno alle 9,00 gli aerei alleati.
Iniziarono la "festa" 142 quadrimotori, le celebri fortezze volanti
B 17, che lanciarono su Montecassino e sulla città sottostante 450
tonnellate di bombe esplosive e incendiarie da alta quota. Una
seconda ondata di altri 118 B 17 colpì ancora il monastero e sventrò
la martoriata Cassino. Completarono l’opera altri attacchi condotti
da bimotori B 25, B 26 e A 36 che sganciarono gli ordigni a
un’altezza più bassa. In totale, furono 776 gli apparecchi
impiegati. A mezzogiorno e mezzo, ben 746 pezzi di artiglieria
vomitavano fuoco sulla cittadina laziale, disintegrandola
completamente: il cannoneggiamento cessò soltanto nel primo
pomeriggio. Curiosamente, nonostante le 1.250 tonnellate di bombe
aeree le mura dell’abbazia resistettero quasi interamente. Un
ufficiale tedesco, Rudolf Bohmler, presente all’interno
dell’edificio con i monaci, così racconta il bombardamento nel suo
memoriale. "Nella piccola stanza dell’abate si stava appunto
terminando la preghiera delle ore canonicali del sesto e del nono,
quando, alle parole pro nobis Christum exora, una tremenda
esplosione turbò la pace. Scoppiarono le prime bombe: erano le 9,45.
L’effetto nel monastero fu spaventoso. Terribili esplosioni
lacerarono l’aria e riempirono i locali di polvere e di fumo
soffocante. Non soltanto il monastero, ma tutta la montagna vacillò,
come se fosse stata scrollata dalla mano di un gigante".
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Ma come fu vissuto il
bombardamento nel campo Alleato? Il generale Clark così descrive la
tremenda giornata del 15 febbraio. "Quando il mio orologio
stava per segnare le 9,30, sentii i primi rombi dei motori degli
aeroplani che venivano dal sud. Tentai di rendermi conto della loro
posizione. Poi all’improvviso il boato di un’esplosione. Per errore,
gli aerei americani avevano sganciato sedici bombe. Parecchie
caddero presso il mio posto di comando, facendo volare schegge
dovunque". Il racconto del generale Usa prosegue così. "Poi,
quattro gruppi di imponenti fortezze volanti passarono proprio sopra
di noi e qualche istante dopo lasciarono cadere le loro bombe sulla
collina del monastero. Avevo visto soltanto da lontano la celebre,
antica abbazia, dalle opere d’arte inestimabili e insostituibili. Ma
quando quel mattino, le esplosioni lacerarono la collina, compresi
che non avrei più potuto ammirarla da vicino".
L’occasione perduta
Dopo il bombardamento
aereo, iniziò il tiro micidiale dell’artiglieria pesante che
proseguì ininterrottamente per oltre due ore di fila. Secondo la
logica, alla fine del bombardamento ci sarebbe dovuto essere
l’immediato attacco della fanteria per sfruttare meglio l’effetto
psicologico devastante per i difensori tedeschi: invece mancò
completamente il coordinamento con le truppe di terra. Ciò anche a
causa del rifiuto dei soldati neozelandesi di attaccare in pieno
giorno. Avanzò la sola 4a divisione indiana verso quota
593, poco al di sotto della cima di Montecassino, tenuta saldamente
dai tedeschi, che iniziavano a occupare anche le rovine
dell’abbazia. Questa operazione era importantissima visto che era
impossibile conquistare l’abitato di Cassino finché le truppe del
Terzo Reich avessero mantenuto la collina con la basilica. Sembrava
un’ironia della sorte, ma era la conseguenza logica del
bombardamento Alleato. Freyberg aveva voluto la distruzione
dell’abbazia, poiché pensava che i soldati nemici fossero al suo
interno con alcuni cannoni. Ciò non era vero e ora i tedeschi
occupavano le sue macerie e sparavano comodamente contro gli
attaccanti posti nella pianura di Cassino. Insomma, un gentile
regalo dei generali Alleati che costituì un vero e proprio fiasco
militare!
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Il marasma nel campo
inglese e americano era tale, che il tentativo di assalto delle
truppe indiane fu frenato. Infatti, quando il comandante della 7a
brigata indiana si era recato al comando della 34a
divisione americana per il cambio di consegne, gli fu detto che
quota 593 era saldamente in mano ai soldati Usa. Niente di più
falso! E così gli indiani dovettero attendere la notte tra il 15 e
il 16 febbraio. Una compagnia del I Battaglione Royal Sussex attaccò
le balze più basse di quota 593. I soldati inglesi resistettero a
lungo. Il resto del battaglione attaccò di slancio alla baionetta
dando rinforzo ai propri commilitoni. Quando sembrava che l’accanita
resistenza tedesca stesse per affievolirsi, accadde un episodio
curioso. Un soldato tedesco lanciò un segnale con tre razzi verdi,
forse per segnalare a delle truppe di rinforzo la propria posizione.
Sfortunatamente per gli indiani, quello era anche il segnale di
ritirata del Royal Sussex. Il comandante del battaglione,
disorientato completamente dal segnale, ordinò la ritirata e i
soldati britannici ripiegarono trasportandosi decine di feriti. Le
perdite alleate ammontavano a 16 ufficiali e 162 soldati senza
approdare a nessun risultato.
Il secondo attacco
alleato, ben più consistente, avvenne soltanto nella notte del 17
febbraio. Un altro giorno perso per intaccare le difese tedesche. Il
XXVIII battaglione maori, appartenente alla 2a divisione
neozelandese, attaccò la stazione di Cassino e, sotto un
violentissimo fuoco di mortai e artiglieria, riuscì ad andare oltre
la massicciata della ferrovia, in mezzo alle mine poste
meticolosamente dai difensori. I genieri cercavano di disinnescarle,
per poter consentire il passaggio dei carri armati. Le macerie
lasciate dal bombardamento erano un altro regalo per le forze
tedesche che vi si erano inserite al loro interno e nelle cui fila
combattevano anche diversi soldati cosacchi nemici giurati
dell’allora Unione Sovietica comunista e degli Alleati,. Si
combatteva metro per metro, palmo a palmo, muro per muro. Alle prime
luci dell’alba del 18 febbraio le truppe maori avevano conquistato
la stazione, mentre i genieri avevano lavorato duro per tutta le
notte nella loro opera di bonifica. Tuttavia non potevano proseguire
durante il giorno: sarebbero stati falcidiati facilmente dal fuoco
nemico. Così i genieri dovettero abbandonare il campo di battaglia,
lasciando i maori isolati e senza la possibilità di essere
supportati dai carri armati. Questi ultimi, anche se fosse stata
portata a termine l’opera di sminamento, difficilmente avrebbero
potuto operare a causa delle macerie dei palazzi di Cassino. Solo
quando nelle settimane successive arriveranno i bulldozer americani
a smuoverle, i mezzi corazzati potranno spiegare in parte la loro
efficacia. A nulla servì il bombardamento con proiettili fumogeni,
voluto dal comando britannico per cercare di disorientare i tedeschi
e proteggere le proprie truppe.
I paracadutisti nazisti
contrattaccarono alla metà del pomeriggio, sostenuti dai lanciarazzi
Nebelwerfer e dai carri armati Panther e Tigre.
I soldati maori ripiegarono in buon ordine, lasciando 130 uomini sul
campo. Le cose non andavano meglio ai fanti indiani, impegnati nella
conquista di quota 593. Quest’ultima avrebbe dovuto essere
conquistata alla baionetta, poiché era impossibile utilizzare
l’artiglieria. Questo perché la terra di nessuno era ampia soltanto
settanta metri e i proiettili avrebbero colpito indistintamente
indiani e tedeschi. Conquistato l’obiettivo i cinque battaglioni
dell’11a brigata indiana avrebbero dovuto scendere per il
clivo della collina e raggiungere la zona settentrionale
dell’abitato di Cassino, congiungendosi con i maori. Ma fu un
disastro. I fucilieri del battaglione Rajputana raggiunsero quota
593, ma furono respinti, lasciando 196 uomini sul campo. Gli altri
battaglioni di gurkha persero 250 soldati, senza conquistare
un solo centimetro di terreno. Tutta la divisione indiana dovette
retrocedere sulle linee di partenza. Così era terminato in un
fallimento l’assalto effettuato dopo il bombardamento aereo, tanto
desiderato da Freyberg. Il comandante von Senger und Etterlin
completò l’occupazione dell’abbazia polverizzata. Inoltre, fece
disporre dai suoi genieri le mine tutt’intorno al territorio del
monastero. L’offensiva del corpo neozelandese proseguì sino alla
fine di marzo, ma senza esiti apprezzabili. Le perdite complessive
Alleate nel periodo gennaio-marzo ammontarono a 52.130 morti. Gli
americani avevano avuto 22.219 caduti, i britannici 22.092, i
francesi 7.241 mentre gli italiani del corpo di liberazione (che
combattevano al fianco degli inglesi) 398. La battaglia di Cassino
sembrava la prova lampante della validità del principio enunciato
dal generale prussiano Karl von Clausewitz nel suo trattato "Della
guerra", e cioè che "la difensiva costituisce la forma più
potente della guerra".
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L’armata in esilio trionfa!
Ma la frase di
Clausewitz era già stata messa in discussione dal suo contemporaneo
Napoleone che diceva che "chi sta dietro le fortificazioni perde".
Ciò vale soprattutto per l’esercito che non dispone di mezzi
sufficienti per un valido contrattacco. I tedeschi non facevano
eccezione a questa regola. I rinforzi giungevano con il contagocce e
prima o poi gli ostacoli naturali e delle macerie non sarebbero più
stati sufficienti a contrastare l’offensiva Alleata. Dopo la seconda
e la terza battaglia, arrivò il quarto (e finalmente decisivo)
tentativo di conquistare Cassino. Protagonista dell’operazione "Diadem"
fu il corpo d’armata polacco, comandato dal generale Wladislaw
Anders, che dipendeva dall’8a armata britannica.
L’operazione fu organizzata in gran segreto dal maresciallo
Alexander, che spostò in gran segreto dal fronte sull’Adriatico a
quello di Cassino gran parte delle divisioni dell’8a
armata. La 5a armata americana (comprendente anche il
corpo di spedizione francese, il Cef) fu spostata interamente nella
parte bassa dello scacchiere operativo, tra il mar Tirreno e il Liri.
Fu proprio Anders a chiedere l’onore di conquistare l’abbazia di
Montecassino. Un compito non facile, visto che i tedeschi dalle
macerie poste sul colle sorvegliavano ogni movimento degli
attaccanti.
"Diadem" ebbe
inizio ai primi di maggio, con un bombardamento di 2.000 cannoni. I
francesi del generale Juin mossero sui monti Aurunci e conquistarono
il 13 maggio l’importante posizione del monte Maio, nella parte
meridionale del fronte, uccidendo ben 5.000 soldati tedeschi. Gli
americani avanzarono nei pressi di Minturno, che conquistarono dopo
una serie di accaniti combattimenti. Ma veniamo a Montecassino. Il
primo assalto polacco contro l’abbazia si risolse in un autentico
disastro. I tedeschi avevano minato tutto il terreno attorno al
monastero e rafforzato la difesa con altri fanti. I polacchi
attaccarono sin dalle prime luci dell’alba, ma furono falcidiati dal
fuoco dei difensori che li puntavano dalla cima del colle. Alla fine
si contarono 4.000 caduti tra le loro fila e Anders fu preso dallo
sconforto. Il comandante dell’8a armata, Oliver Leese, lo
convinse a non demordere dall’obiettivo.
Il generale polacco si
offrì di attaccare di nuovo e convocò il generale Rudnicki, che
comandava i volontari dei Carpazi, per dirgli di preparare le sue
truppe per una nuova azione. Dopo cinque giorni arrivò l’ordine di
operare, mentre la 4a divisione britannica e l’8a
indiana attaccavano con metodica lentezza il centro abitato di
Cassino, protette dall’artiglieria. La divisione britannica riuscì a
venire a capo della resistenza tedesca e a entrare il 9 maggio nella
cittadina laziale. Il giorno dopo i polacchi tentarono un altro
assalto per espugnare l’abbazia, ma furono respinti. Ma nei giorni
seguenti la loro offensiva proseguì con veemenza, finché il 19
maggio i tedeschi abbandonarono precipitosamente il monastero. Una
pattuglia di ulani polacchi del 12° reggimento lancieri, comandata
dal tenente Casimir Gubriel, trovò un gruppo di tedeschi gravemente
feriti, abbandonati dai loro commilitoni. I lancieri presero una
bandiera della Croce Rossa e l’issarono sulle rovine. Un
trombettiere suonò l’Hejnal, un brano militare risalente al
Medioevo. Quelle note sembrarono segnare la fine della battaglia di
Cassino, che era costata tanti caduti da entrambe le parti. Nel
tardo pomeriggio Anders si recò a piedi sino al martoriato monastero
per rendere omaggio ai circa 4.000 caduti del corpo polacco. Nel suo
libro "Un’armata in esilio" (Edizioni Cappelli, Bologna,
1950) il generale polacco racconta ciò che vide giungendo sul colle.
"Il campo di battaglia era uno spettacolo tremendo. Mucchi di
munizioni mai usate e cataste di mine erano sparse qua e là.
Dovunque si vedevano cadaveri di soldati polacchi e tedeschi, a
volte avvinghiati in un abbraccio mortale, e l’aria era contaminata
dal lezzo della putrefazione. Vi erano carri armati rovesciati con i
cingoli rotti e altri che sembravano pronti ad attaccare, con i
cannoni ancora puntati verso l’abbazia. Le pendici, soprattutto dove
i combattenti avevano colpito con minore intensità, erano coperti da
una quantità incredibile di papaveri e i fiori rossi sembravano
stranamente appropriati alla scena. I fianchi delle colline erano
costellati di crateri e cosparsi di brandelli di uniformi e di
elmetti, fucili Spandau, Schmeisser e bombe a mano. Dell’abbazia era
rimasto solo un mucchio enorme di rovine e qua e là spuntava qualche
colonna spezzata. Soltanto il muro ovest era ancora in piedi. Una
campana rotta giaceva a terra accanto a un proiettile di grosso
calibro inesploso e sui muri e sui soffitti dilaniati frammenti di
quadri e affreschi giacevano fra la polvere e l’intonaco".
Montecassino oggi
Il centro abitato di
Cassino è stato completamente ricostruito. Se si osservano le
riproduzioni delle cartoline del 1942 in vendita in città e
raffrontandole con quelle attuali, si nota che non esiste più un
solo palazzo dell’epoca. Nelle foto di allora compare la funivia,
costruita per collegare la cittadina con il colle dell’abbazia,
completamente distrutta dai combattimenti.
Uno dei
suoi pali, rimasto ancora in piedi dopo i
bombardamenti, era stato ribattezzato in modo sinistro dagli alleati
"hangman hill", la collina dell’impiccato. Nelle vicinanze di
questo traliccio erano caduti tanti soldati alleati: era un punto
strategico per la conquista di Montecassino, più volte oggetto di
scontri sanguinosi. In città era celebre la figura di un contadino,
detto "u’ fissatu" (il fissato) perché dopo la fine della
battaglia si recava tutti i giorni a vedere se la sua casa ritornava
in piedi. Diventò il simbolo della ricostruzione e fu persino
intervistato alla radio.
Sulla strada che conduce a Sant’Elia Fiumerapido sorge il cimitero
di guerra tedesco, a cui fu donata nel 1964 una lampada votiva
dall’allora Pontefice Paolo VI. Sulla via Casilina è stato posto il
cimitero di guerra inglese. E’ un grande giardino, al centro del
quale, tra le tombe, troneggia un grande altare con la scritta "their
names live for evermore", i loro nomi vivono per sempre. Anche
l’abbazia è stata completamente ricostruita. I lavori terminarono
nel 1952, ma purtroppo il vecchio abate Gregorio Diamase non vide il
nuovo complesso monastico, poiché morì pochi giorni dopo il
bombardamento aereo del 1944. Si sono perduti numerosi affreschi,
sculture e tante opere d’arte che purtroppo i tedeschi non
riuscirono a trasportare a Roma. Il terreno attorno al monastero fu
bonificato solo in parte dalle mine. La cura adoperata dai tedeschi
per collocarle fu tale che ancora oggi, a distanza di 58 anni, tali
ordigni sono presenti nella zona. Infatti, se si prova ad andare
dalla basilica verso il cimitero dei soldati polacchi si noterà che
esiste un sentiero piuttosto stretto, ai cui bordi sono state poste
le recinzioni con dei cartelli recanti la scritta "attenzione
pericolo mine". Nel cimitero polacco, posto di fianco al clivo di un
colle, riposa accanto ai suoi soldati il generale Anders, morto nel
1961. Al suo ingresso è stata collocata una lapide con questa
iscrizione: "Noi soldati polacchi per la nostra e la vostra libertà
abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi al suolo italiano
e i nostri cuori alla Polonia".
Nei locali adiacenti alla cripta della basilica è stato approntato
un museo della battaglia e le fotografie del lungo lavoro di
ricostruzione. In esso sono stati collocati in varie sale gli
armamenti e le uniformi adoperati dai tedeschi. In particolare, tra
le numerose armi si può ammirare una Mg 42, evoluzione della Mg 34,
una mitragliatrice pesante che sparava migliaia di colpi al minuto,
adoperata ancora dopo la guerra dagli eserciti della Nato. Alla
termine della visita, si può leggere una lapide, in cui si ricorda
che i lavori per il rifacimento dell’abbazia è dovuto al contributo
economico dello Stato italiano. Ciò sfata la leggenda che il celebre
monumento della cristianità sia stato rimesso in sesto con i soldi
dei governi Alleati, che lo avevano ridotto a un mucchio di rovine.
Marco Liguori
Tratto da www.storiainrete.com
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Il sito è dotato di una vasta galleria fotografica dedicata ai numerosi
ritrovamenti di residuati bellici, ad album fotografici, ai
bombardamenti aerei subiti dalle nostre grandi e piccole città.
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