Numismatica

La celeberrima medaglia del 1815

per la fedeltà della città di Pizzo Calabro verso i Borbone

a cura di Francesco Di Rauso e di Salvatore D’Auria

Medaglia in bronzo del 1815 per la fedeltà della città di Pizzo Calabro (collezione Francesco di Rauso, Caserta)

 

ARGENTO

D. FERDINANDUS IV. UTRIUSQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pius Felix Augustus), (Effigie del re coronato a destra, con lunga chioma).

R. OB EGREGIAM URBIS PITII FIDELITATEM ---- (Traduzione: per la notevole fedeltà della città di Pizzo) ( Giglio borbonico), all’esergo: PROSTRIDIE NONAS OCTOBRIS / ANNI R.S. MDCCCXV (9 ottobre dell’anno 1815)

DI GRANDE RARITÀ

DIAM. mm. 49.

RICCIARDI n° 106, SICILIANO n° 53.

Napoli, Museo di San Martino. Manca in argento.

Collezione Banco di Napoli Asta CHRISTIE’S del 1992 n° 107.

Asta AES RUDE S.A. n°17 del 13 Aprile 1996 lotto n°380


La bellissima medaglia presentata in questo articolo, che ricorda un episodio triste per il periodo napoleonico ma nello stesso tempo importantissimo, fu distribuita con apposita cerimonia dal generale Nunziante il 17 Giugno del 1816 ad alcuni cittadini di Pizzo Calabro, che avevano avuto un ruolo decisivo nella cattura di Gioacchino Murat dopo il suo disperato tentativo di riconquistare il Regno Delle Due Sicilie.

Nell’opera di Tommaso Siciliano vi sono studi e ricerche in merito alla coniazione di diversi esemplari in oro, questi ultimi donati dal re Ferdinando IV al comune di Pizzo come ringraziamento per la fedeltà dimostrata dalla città verso la dinastia borbonica. Queste medaglie rimasero custodite presso la casa comunale fino al 1863, anno in cui vennero fuse per ordine del governo. Successivamente il Comune ottenne un risarcimento in lire pari al valore intrinseco delle megaglie (settanta ducati napoletani ciascuna). Quasi tutti i suddetti pezzi furono quindi fusi, ad eccezione di due esemplari (forse tre), di cui uno esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

I “pochissimi” esemplari in argento invece, sopravvissuti ai quasi due secoli di vita, devono essere considerati di grande rarità. Anche se i documenti ufficiali parlano infatti di sessanta medaglie coniate, sicuramente quelli esistenti oggi sul mercato o nelle raccolte private sono complessivamente ben pochi. Il grande esperto e collezionista Eduardo Ricciardi, infatti, aveva nella sua collezione solo l’esemplare in bronzo (ricordiamo ai lettori che quest’ultimo volle donare ai Napoletani la sua collezione e oggi, grazie a questo nobile gesto, possiamo ammirare nel museo di San Martino di Napoli la prestigiosa raccolta).

Dai documenti ufficiali non risultano esemplari in bronzo, ma è evidente che ne furono coniati ed anche se la reperibilità sul mercato di questi ultimi è molto difficile, essi sono meno rari di quelli in argento.

Come già detto, l’apparizione sul mercato degli esemplari in argento è avvenimento rarissimo, specialmente negli ultimi anni: oltre all’esemplare della collezione venduta nell’asta Christie’s nel 1992, si è a conoscenza di un solo altro esemplare, venduto nell’asta del Titano di Zurigo nel 1996 e stimato 20.000 Franchi svizzeri.

L’esemplare in argento qui illustrato è in splendido stato di conservazione e presenta nei campi, impercettibili e numerose mancanze di metallo che appaiono come tanti puntini neri (tipico difetto delle medaglie borboniche di grande diametro, che aveva luogo nel momento in cui il pesantissimo conio batteva con un colpo secco il tondello metallico). E’ una medaglia ricercata anche da collezionisti francesi in quanto commemora un momento storico di grande importanza anche per la Francia: segnò infatti la fine del sovrano napoleonide Gioacchino Murat, che diede la vita per il Regno e che amò i napoletani più dei francesi stessi. Il Murat infatti non si comportò come uno spietato conquistatore, al contrario, fu liberale e innovativo e fece tutto il possibile per far progredire il Regno di Napoli attraverso riforme in grado di favorire il commercio e l’industria. Fece il possibile per manternersi indipendente dall’impero francese, appoggiandosi ora a l’una ora all’altra delle grandi potenze allora in contesa. Tutto ciò comportò un generale miglioramento del nostro “Bel Paese”. Ebbe poco tempo a disposizione, pertanto non riuscì a soppiantare né la preferenza austriaca verso la restaurazione dei Borboni, né il sentimento filo-borbonico che continuava ad aleggiavae nel Regno, specialmente nei centri rurali. Nel momento decisivo, furono infatti gli stessi cittadini di Pizzo a collaborare alla cattura di Murat. L’ironia della sorte volle che fu giudicato da una legge penale che lui stesso aveva promulgato qualche anno prima. Questa legge puniva con la condanna a morte chi fosse riconosciuto colpevole di tradimento e di tentata sollevazione, con atti rivoluzionari, del popolo contro il sovrano. Lo sfortunato ex-re ascoltò la sentenza con freddezza e senza dire una parola in contrario.

Sulla copertina della presente rivista è riprodotta una litografia di inizio novecento sulla quale il Gioacchino Murat ordina, qualche momento prima della fucilazione, di salvare il viso e mirare al cuore. Ho ritenuto opportuno riportare nei righi successivi l’interessantissima ed originale cronaca di un cronista dell’epoca “Pietro Colletta”, essa ci porta indietro nel 1815 e ci fa rivivere in modo particolare l’ultima e disperata impresa di re Gioacchino che ebbe inizio il giorno in cui quest’ultimo partì da Ajaccio (Corsica) e terminò nel momento in cui si trovò di fronte ad un plotone d’esecuzione.


Historia

Nella notte, che fu del 28 settembre, la piccola armata salpò di Ajaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, animosa la schiera, allegro il re: fallaci apparenze. Per sei dì l’armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l’uno dei quali tenea Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocchè quelle armi non assai potenti al successo, né così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel Regno discordie civili, tirannide e lutto. L’animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi disperato ed audace, stabilì di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno. Era l’8 ottobre, dì festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: “Viva il re Murat”. Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità dell’impresa. Murat, viste le fredde accoglienze, accellerò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch’egli sperava amica, non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell'infantado, devoti ai Borboni, questi per genio, e quegli per antichi ed atroci servigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta e, non con l’armi, coi saluti risponde. Crebbe per l’impunità l’animo ai vili: tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere, ma Gioacchino lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce. Ingrossando le nemiche torme, ingombrato d’esse il terreno, chiusa la strada, non offre scampo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca valeggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbara (era il nome del condottiero); ma quegli l’ode e più fugge per far guadagno delle ricche sue spoglie: ladro ed ingrato. Gioacchino, regnando lo aveva tratto dall’infamia di corsaro, e benchè Maltese, ammesso nella sua marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia, ma forza d’uomo non basta, e mentre si affatica, sopraggiunge Trentacapilli coi suoi molti; lo accerchiano, lo trattengono, gli strappano i gioielli che portava al cappello e sul petto, lo feriscono in viso; e con atti ed ingiurie in mille modi l’offendono; fu quello il momento dell’infima sua fortuna, perché gli oltraggi di villana plebaglia sono più duri che morte. Così sfregiato lo menarono in carcere nel piccolo castello, insieme ai compagni, che avean presi e maltrattati. Prima la fama e poi lettere annunziarono alle autorità della provincia quei fatti, né furono creduti. Comandava nelle Calabrie il general Nunziante, che spedì a Pizzo il capitano Stratti con alquanti soldati. Per telegrafo e corriere seppe il governo i casi del Pizzo: spavento del corso pericolo, allegrezza dei successi, ancora sospetti e dubbiezze, odio antico, vendetta, proponimento atroce, furono i sensi del ministero e del re. Fu eletto difensore il capitano Starace, che si presentò all’infelice per annunziar, il doloroso ufficio presso quei giudici. Ed egli: “Non sono miei giudici, disse, ma soggetti; i privati non giudicano i re, né altro re può giudicarli perché non vi ha impero su gli eguali: il re non ha o altri giudici che Iddio ed i popoli.” Il tribunale militare riunito in tutta fretta sentenziò la condanna a morte di Gioacchino, e la sentenza venne udita dal prigioniero con freddezza e disdegno. Menato in un piccolo recinto del castello, trovò schierato in due file uno squadrone di soldati; e non volendo bendar gli occhi, veduto serenamente l’apparecchio dell’armi, postosi in atto di incontrare i colpi, disse ai soldati: Salvate il viso, mirate al cuore. Dopo le quali voci le armi si scaricarono, ed il già re delle Due Sicilie cadde estinto, tenendo stretti i ritratti della famiglia, che insieme alle misere spoglie furono sepolti in quel tempio istesso che la sua pietà aveva eretto. Questo fine ebbe Gioacchino nel quarantesim’ottavo anno di vita, settimo del regno. Era nato in Cahors di genitori poveri e modesti; nel primo anno della rivoluzione di Francia, giovinetto appena fu soldato ed amante di libertà, ed in breve tempo uffiziale e colonnello valoroso ed infaticabile in guerra, lo notò Bonaparte e lo pose al suo fianco; fu generale, maresciallo, gran duca di Berg; e re di Napoli. Mille trofei raccolse in Italia, Alemagna, Russia ed Egitto; era pietoso ai vinti, liberale ai prigioni, e lo chiamavano l’Achille della Francia, perché prode e invulnerabile al pari dell’antico. Ambizioso, indomabile, trattava colle arti della guerra la politica dello Stato. Grande nell’avversità, tollerandone il peso; non grande nelle fortune, perché intemperato ed audace. Desideri da re, mente da soldato, cuore di amico. Decorosa persona, grato aspetto, mondizie troppe, e più nei campi che nella reggia. Perciò vita varia, per virtù e fortuna, morte misera, animosa compianta. (Pietro Colletta).


Articolo pubblicato in:

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