ARGENTO
D. FERDINANDUS IV. UTRIUSQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pius Felix
Augustus), (Effigie del re coronato a destra, con lunga chioma).
R. OB EGREGIAM URBIS PITII FIDELITATEM ---- (Traduzione: per la
notevole fedeltà della città di Pizzo) ( Giglio borbonico),
all’esergo: PROSTRIDIE NONAS OCTOBRIS / ANNI R.S. MDCCCXV (9 ottobre
dell’anno 1815)
DI GRANDE
RARITÀ
DIAM. mm. 49.
RICCIARDI n° 106, SICILIANO n° 53.
Napoli, Museo di San Martino. Manca in argento.
Collezione Banco di Napoli Asta CHRISTIE’S del 1992 n° 107.
Asta AES
RUDE S.A. n°17 del 13 Aprile 1996 lotto n°380
La
bellissima medaglia presentata in questo articolo, che ricorda un
episodio triste per il periodo napoleonico ma nello stesso tempo
importantissimo, fu distribuita con apposita cerimonia dal generale
Nunziante il 17 Giugno del 1816 ad alcuni cittadini di Pizzo
Calabro, che avevano avuto un ruolo decisivo nella cattura di
Gioacchino Murat dopo il suo disperato tentativo di riconquistare il
Regno Delle Due Sicilie.
Nell’opera di Tommaso Siciliano vi sono studi e ricerche in merito
alla coniazione di diversi esemplari in oro, questi ultimi donati
dal re Ferdinando IV al comune di Pizzo come ringraziamento per la
fedeltà dimostrata dalla città verso la dinastia borbonica. Queste
medaglie rimasero custodite presso la casa comunale fino al 1863,
anno in cui vennero fuse per ordine del governo. Successivamente il
Comune ottenne un risarcimento in lire pari al valore intrinseco
delle megaglie (settanta ducati napoletani ciascuna). Quasi tutti i
suddetti pezzi furono quindi fusi, ad eccezione di due esemplari
(forse tre), di cui uno esposto nel Museo Archeologico Nazionale di
Napoli.
I
“pochissimi” esemplari in argento invece, sopravvissuti ai quasi due
secoli di vita, devono essere considerati di grande rarità. Anche se
i documenti ufficiali parlano infatti di sessanta medaglie coniate,
sicuramente quelli esistenti oggi sul mercato o nelle raccolte
private sono complessivamente ben pochi. Il grande esperto e
collezionista Eduardo Ricciardi, infatti, aveva nella sua collezione
solo l’esemplare in bronzo (ricordiamo ai lettori che quest’ultimo
volle donare ai Napoletani la sua collezione e oggi, grazie a questo
nobile gesto, possiamo ammirare nel museo di San Martino di Napoli
la prestigiosa raccolta).
Dai
documenti ufficiali non risultano esemplari in bronzo, ma è evidente
che ne furono coniati ed anche se la reperibilità sul mercato di
questi ultimi è molto difficile, essi sono meno rari di quelli in
argento.
Come già
detto, l’apparizione sul mercato degli esemplari in argento è
avvenimento rarissimo, specialmente negli ultimi anni: oltre
all’esemplare della collezione venduta nell’asta Christie’s nel
1992, si è a conoscenza di un solo altro esemplare, venduto
nell’asta del Titano di Zurigo nel 1996 e stimato 20.000 Franchi
svizzeri.
L’esemplare in argento qui illustrato è in splendido stato di
conservazione e presenta nei campi, impercettibili e numerose
mancanze di metallo che appaiono come tanti puntini neri (tipico
difetto delle medaglie borboniche di grande diametro, che aveva
luogo nel momento in cui il pesantissimo conio batteva con un colpo
secco il tondello metallico). E’ una medaglia ricercata anche da
collezionisti francesi in quanto commemora un momento storico di
grande importanza anche per la Francia: segnò infatti la fine del
sovrano napoleonide Gioacchino Murat, che diede la vita per il Regno
e che amò i napoletani più dei francesi stessi. Il Murat infatti non
si comportò come uno spietato conquistatore, al contrario, fu
liberale e innovativo e fece tutto il possibile per far progredire
il Regno di Napoli attraverso riforme in grado di favorire il
commercio e l’industria. Fece il possibile per manternersi
indipendente dall’impero francese, appoggiandosi ora a l’una ora
all’altra delle grandi potenze allora in contesa. Tutto ciò comportò
un generale miglioramento del nostro “Bel Paese”. Ebbe poco tempo a
disposizione, pertanto non riuscì a soppiantare né la preferenza
austriaca verso la restaurazione dei Borboni, né il sentimento
filo-borbonico che continuava ad aleggiavae nel Regno, specialmente
nei centri rurali. Nel momento decisivo, furono infatti gli stessi
cittadini di Pizzo a collaborare alla cattura di Murat. L’ironia
della sorte volle che fu giudicato da una legge penale che lui
stesso aveva promulgato qualche anno prima. Questa legge puniva con
la condanna a morte chi fosse riconosciuto colpevole di tradimento e
di tentata sollevazione, con atti rivoluzionari, del popolo contro
il sovrano. Lo sfortunato ex-re ascoltò la sentenza con freddezza e
senza dire una parola in contrario.
Sulla
copertina della presente rivista è riprodotta una litografia di
inizio novecento sulla quale il Gioacchino Murat ordina, qualche
momento prima della fucilazione, di salvare il viso e mirare al
cuore. Ho ritenuto opportuno riportare nei righi successivi
l’interessantissima ed originale cronaca di un cronista dell’epoca
“Pietro Colletta”, essa ci porta indietro nel 1815 e ci fa rivivere
in modo particolare l’ultima e disperata impresa di re Gioacchino
che ebbe inizio il giorno in cui quest’ultimo partì da Ajaccio
(Corsica) e terminò nel momento in cui si trovò di fronte ad un
plotone d’esecuzione.
Historia
Nella notte, che fu del 28 settembre, la piccola armata salpò di
Ajaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento,
animosa la schiera, allegro il re: fallaci apparenze. Per sei dì
l’armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre
giorni; due legni, l’uno dei quali tenea Gioacchino, erravano nel
golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto
nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello
sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocchè
quelle armi non assai potenti al successo, né così deboli da restar
subito oppresse, bastavano a versare nel Regno discordie civili,
tirannide e lutto. L’animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi
disperato ed audace, stabilì di approdare al Pizzo per muovere con
ventotto seguaci alla conquista di un regno. Era l’8 ottobre, dì
festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella
piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i
suoi gridarono: “Viva il re Murat”. Alla voce rimasero muti i
circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità
dell’impresa. Murat, viste le fredde accoglienze, accellerò i passi
verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch’egli
sperava amica, non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano
Trentacapilli ed un agente del duca dell'infantado, devoti ai
Borboni, questi per genio, e quegli per antichi ed atroci servigi,
uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e
scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta e, non con
l’armi, coi saluti risponde. Crebbe per l’impunità l’animo ai vili:
tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il
tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere, ma Gioacchino
lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce. Ingrossando le
nemiche torme, ingombrato d’esse il terreno, chiusa la strada, non
offre scampo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure
Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca
valeggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbara (era il nome del
condottiero); ma quegli l’ode e più fugge per far guadagno delle
ricche sue spoglie: ladro ed ingrato. Gioacchino, regnando lo aveva
tratto dall’infamia di corsaro, e benchè Maltese, ammesso nella sua
marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere
e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in
mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia, ma forza d’uomo non
basta, e mentre si affatica, sopraggiunge Trentacapilli coi suoi
molti; lo accerchiano, lo trattengono, gli strappano i gioielli che
portava al cappello e sul petto, lo feriscono in viso; e con atti ed
ingiurie in mille modi l’offendono; fu quello il momento dell’infima
sua fortuna, perché gli oltraggi di villana plebaglia sono più duri
che morte. Così sfregiato lo menarono in carcere nel piccolo
castello, insieme ai compagni, che avean presi e maltrattati. Prima
la fama e poi lettere annunziarono alle autorità della provincia
quei fatti, né furono creduti. Comandava nelle Calabrie il general
Nunziante, che spedì a Pizzo il capitano Stratti con alquanti
soldati. Per telegrafo e corriere seppe il governo i casi del Pizzo:
spavento del corso pericolo, allegrezza dei successi, ancora
sospetti e dubbiezze, odio antico, vendetta, proponimento atroce,
furono i sensi del ministero e del re. Fu eletto difensore il
capitano Starace, che si presentò all’infelice per annunziar, il
doloroso ufficio presso quei giudici. Ed egli: “Non sono miei
giudici, disse, ma soggetti; i privati non giudicano i re, né altro
re può giudicarli perché non vi ha impero su gli eguali: il re non
ha o altri giudici che Iddio ed i popoli.” Il tribunale militare
riunito in tutta fretta sentenziò la condanna a morte di Gioacchino,
e la sentenza venne udita dal prigioniero con freddezza e disdegno.
Menato in un piccolo recinto del castello, trovò schierato in due
file uno squadrone di soldati; e non volendo bendar gli occhi,
veduto serenamente l’apparecchio dell’armi, postosi in atto di
incontrare i colpi, disse ai soldati: Salvate il viso, mirate al
cuore. Dopo le quali voci le armi si scaricarono, ed il già re delle
Due Sicilie cadde estinto, tenendo stretti i ritratti della
famiglia, che insieme alle misere spoglie furono sepolti in quel
tempio istesso che la sua pietà aveva eretto. Questo fine ebbe
Gioacchino nel quarantesim’ottavo anno di vita, settimo del regno.
Era nato in Cahors di genitori poveri e modesti; nel primo anno
della rivoluzione di Francia, giovinetto appena fu soldato ed amante
di libertà, ed in breve tempo uffiziale e colonnello valoroso ed
infaticabile in guerra, lo notò Bonaparte e lo pose al suo fianco;
fu generale, maresciallo, gran duca di Berg; e re di Napoli. Mille
trofei raccolse in Italia, Alemagna, Russia ed Egitto; era pietoso
ai vinti, liberale ai prigioni, e lo chiamavano l’Achille della
Francia, perché prode e invulnerabile al pari dell’antico.
Ambizioso, indomabile, trattava colle arti della guerra la politica
dello Stato. Grande nell’avversità, tollerandone il peso; non grande
nelle fortune, perché intemperato ed audace. Desideri da re, mente
da soldato, cuore di amico. Decorosa persona, grato aspetto,
mondizie troppe, e più nei campi che nella reggia. Perciò vita
varia, per virtù e fortuna, morte misera, animosa compianta. (Pietro
Colletta).
|