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L'opera dei
poveri vergognosi:
la nascita del pauperismo
a cura di
Alfonso Grasso
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Caravaggio, Opere di misericordia, Pio Monte della Misericordia, Napoli - 1607 |
La nobiltà per li rispetti umani se ne resta il più delle volte nelle miserie
di Silvana Musella
Metodologia della ricerca
Presso il Pio Monte della Misericordia di Napoli è conservato un cospicuo fondo archivistico, le cui carte costituiscono un prezioso materiale per dare voce a coloro che, per estrema vocazione al silenzio, hanno reso le loro presenze evanescenti nel tempo: i poveri vergognosi.
L'archivio è composto da Libri di Conclusioni, in cui venivano registrate le decisioni prese per tutte le opere di misericordia, e da volumi in cui venivano annotate le informazioni relative alle singole opere. I registri di elemosine distribuite ai vergognosi coprono un periodo che va dal 1665 al 1724. A ciascuno di questi è preposto un elenco in cui, divisi per gradi, sono riportati i nomi e i cognomi degli assistiti e la contribuzione corrisposta.
Attraverso lo studio delle Conclusioni possiamo identificare quelli che furono gli atteggiamenti dell'aristocrazia nei confronti dei suoi mèmbri più deboli e trarre importanti notizie sull'immagine che le società di ordine avevano di se stesse e dei fenomeni di mobilità sociale. Ciò ci lascerebbe ad un livello teorico di storia delle mentalità, se i registri delle distribuzioni di cartelle segrete non mettessero in luce realtà altrimenti insondabili, e non ci consentissero di passare alla storia sociale mediante un approccio abbastanza diretto alla reale condizione degli honteux. I richiedenti esponevano i propri bisogni descrivendo le loro condizioni di vita. A volte erano gli stessi deputati del Monte che, in base ad informazioni diverse, spontaneamente, facevano visita a famiglie in sospetto di bisogno. In questi documenti, per una durata di quasi sessanta anni, troviamo dei piccoli flash di vita materiale; le schede personali di ciascun assistito riportano oltre al nome e al cognome, il numero dei mèmbri componenti il nucleo familiare e la contribuzione assegnata dai deputati. In alcuni casi viene indicata pure l'età, un sommario parere sullo stato di indigenza, la descrizione dell'arredo e delle suppellettili, o la motivazione della richiesta di aiuto. Attraverso questa documentazione si è tentato una ricostruzione dell'attività del Pio Monte della Misericordia, inserendola nel quadro religioso, economico e sociale in cui si è mossa questa importante istituzione caritativo-assistenziale nei secoli dell'età moderna. I risultati di questa ricerca invitano, in particolare, ad essere cauti nell'attribuire eccessiva importanza ai valori puramente economici che determinano le trasformazioni politiche e sociali, e a dare giusto peso pure ad elementi non rigorosamente definibili quali le ideologie, le aspirazioni, i pregiudizi e le consuetudini.
Il problema del pauperismo
Fin dagli inizi del '500, il concetto che faceva del povero il rappresentante di Cristo fu sostituito da quello che lo rappresentava come pericolo sociale, propagatore della peste e fautore di disordini. Dunque già da questa data, nelle grandi capitali europee, il problema dei poveri e dei vagabondi s'impose in tutta la sua urgenza. In molte città la scarsezza di viveri, il carovita, la paura delle epidemie determinò politiche che miravano al contenimento del fenomeno e alla reclusione delle vittime. A destare viva preoccupazione erano soprattutto i vagabondi, spinti verso le città dalle frequenti crisi granarie. Ovunque, la forza di impatto del popolo minuto non era trascurabile nel determinare la condotta dei ricchi; ed era di monito a tenere basso il prezzo del pane e dei generi di prima necessità, ed a rifuggire da qualunque speculazione sul grano. E appena il caso di ricordare i tragici eventi del 1585, causati dalla decisione degli Eletti di aumentare il prezzo del pane che portò all'uccisione dell'Eletto del popolo Giovan Vincenzo Storace.
Il problema di disciplinare i poveri, e di porli al riparo dalla possibilità che la vita urbana offriva di unirsi ai malavitosi comuni, rese necessario il consolidamento dell'apparato statale, in maniera tale da renderlo capace di azioni preventive e offensive nei confronti di quanti minacciassero l'ordine costituito. In molti città si tentò di dar vita ad organizzazioni centralizzate di assistenza pubblica laica; esemplare è il caso di Lione, analizzato da Geremek e da Zamon Davis. In altre si preferì tenere in piedi quella rete di rapporti religiosi e sociali che andava dalle confraternite di quartiere agli ospedali ed agli ospizi con particolari specializzazioni: per vecchi, fanciulle e vedove. Nel complesso l'obiettivo da raggiungere era quello di preservare la forma di un ordine sociale essenzialmente statico, in cui la povertà, intesa con Pullan nel senso ampio di una condizione di insicurezza che induceva gli uomini a ricorrere al lavoro, era parte essenziale.
La Chiesa nei secoli precedenti aveva molto avocato a sé la protezione dei deboli e bisognosi. Con il Concilio di Trento si sviluppò un vivace dibattito intorno all'importanza delle buone azioni, e sulla questione della secolarizzazione del «patrimonio del povero» e dei beni temporali della Chiesa. Sorsero un po' dovunque le congregazioni di carità; queste nuove istituzioni si resero paladine dell'esigenza di un riordino complessivo dell'attività assistenziale, e si organizzarono nominando visitatori parrocchiali, registrando i bisognosi e controllando, con visite mirate, la reale necessità degli iscritti. Già Erasmo nel 1524 aveva sostenuto che l'offensiva contro la mendicità avrebbe dovuto assumere dimensioni generali. Il mendicante di professione, il falso povero, cominciavano ad essere da lui visti come individui più liberi e felici dei rè ed egli stesso insisteva sull'importanza di alcune linee guida, che oggi possiamo dire moderne, come il culto del lavoro, l'amore per l'ordine, la regolarità e la tranquillità.
Con l'affermarsi della Controriforma il problema del pauperismo (intendendo con questo termine quella forma di povertà che non si limita all'ineguaglianza rispetto ad altri gruppi, ma suppone che la sopravvivenza di alcuni dipenda dall'aiuto degli altri) cominciò ad essere guardato anche sotto una luce diversa: i mendicanti non interessavano il riformatore ecclesiastico perché infelici o fraudolenti, ma, soprattutto, perché ignoranti delle verità cristiane e, quindi, peccatori prima che criminali. Per Pullan è caratteristico della Controriforma questo spirito di crociata per la salvezza delle anime che si estrinsecherà, pure, nell'attività di molti ordini religiosi. In numerose città si cominciò a pensare che una risoluzione del problema potesse venire dalla reclusione forzosa degli indesiderati in ospizi ed ospedali. I motivi che spingevano a ciò sono stati così individuati da Fatica:
1) sotto il profilo religioso, perché turbavano nelle chiese il fedele raccolto in orazione;
2) sotto il profilo sanitario perché, spostandosi da un luogo ad un altro erano il principale veicolo di contagio di peste e di mal francese;
3) sotto il profilo civile perché infastidivano, con la loro petulanza, il cittadino operoso che non aveva tempo da perdere.
Bisogna pure ricordare che la cultura della reclusione o del trasferimento forzoso nelle colonie, come avvenne in Spagna ed in Inghilterra, non si limitò al solo mondo della povertà, ma fu applicato indistintamente a tutti i membri deboli e indifesi della società: esposti, abbandonati lungo le vie o alle porte delle chiese; donne lasciate nei monasteri come oblate per non poter disporre di una dote che potesse sposarle o monacarle; fanciulle in pericolo di perdere l'onore e prostitute di professione.
A Napoli il primo tentativo di grandi concentrazioni avvenne dopo la peste del 1656, con la creazione dell'Ospizio di San Gennaro dei poveri, ma fu messo in pratica in età borbonica, con la costruzione, iniziata nel 1751, del grande Albergo dei Poveri. Fu un tentativo utopico di risolvere attraverso la pietà, l'assistenza e le arti la questione della mendicità nella popolatissima capitale. La svolta definitiva alle idee sulla povertà fu data, infine, dalla critica illuministica all'ozio e dall'esaltazione della virtù del lavoro. Il concetto dell'importanza del lavoro come mezzo di sostentamento che poteva liberare dalla povertà è evidente già in una conclusione del Pio Monte del 1632 in cui si stabilì “si dismetta in tutto l'opera d'inviare il pane et altro a Somma et Casali convicini, conforme s'è fatto sin hora per servitio de' poveri scampati dall'incendio della voragine della montagna del Somma quali da questo suddetto Monte si sono mantenuti nel casale di S. Nastasia e propriamente nella chiesa di S. Maria dell'Arco, stante l'awiso avuto, che di già, per grazia di N.S. il paese s'è slargato e per tutto vi è travaglio per lo che detti poveri possono andare a travagliare e sostenere con le loro fatiche”. Il problema divenne così quello di cercare mezzi coercitivi efficaci o incentivi morali e materiali tali da indurre, nell'uomo libero, l'affezione al lavoro. La complessa contraddittorietà non sfuggiva agli illuministi. Questi non trovavano sufficiente la reclusione, come soluzione al problema della mendicità, ma erano convinti della necessità che i reclusi producessero ricchezza, cioè che quanti alloggiavano negli alberghi dei poveri, o in istituzioni simili, rendessero allo stato più di quanto costavano. Antonio Genovesi, nelle Lezioni di Commercio, per risolvere in maniera efficace il problema dei mendicanti e dei vagabondi, ritorna più volte sulla necessità di coniugare reclusione e lavoro produttivo: l'alimentazione gratuita viene da lui considerata l'effetto di una mala carità. Si comincia a considerare il lavoro stesso come una forma di assistenza ai poveri, un mezzo per la loro educazione e socializzazione. Secondo il Genovesi era convinzione diffusa che l'inferiorità di alcune nazioni, nel concerto dei popoli civili, derivasse, in gran parte, dalla resistenza e riluttanza al lavoro. Trovare o suggerire i mezzi per vincere quella resistenza era il problema nella cui soluzione si misurava la police di una nazione. Come molti suoi coetanei anche Genovesi definisce il lavoro dolore, ma lo considera anche una legge naturale e un dovere per coloro che appartengono al basso piano delle repubbliche. Ciò comporterà, secondo Fatica, che la rieducazione del povero al lavoro non è operazione che si conclude con successo nel breve volgere di anni: essa si attua in un arco di tempo lungo con gli stessi ritmi lenti con cui avviene la scoperta del contributo primario del lavoro alla ricchezza delle nazioni. La penetrazione della cultura del lavoro negli strati bassi della popolazione cittadina europea dipende dalle resistenze opposte alle operazioni reclusive e riabilitative.
La situazione napoletana
A Napoli, nei secoli XVII e XVIII, la distribuzione della ricchezza non era più compressa entro i limiti di rigide stratificazioni sociali, non era più solo appannaggio dei nobili o di una fascia ristretta di cittadini che rivestissero particolari cariche. Le fasi ed i momenti culminanti, che videro, in un lungo processo, lo spezzarsi dell'unità sociale ed economica delle tradizionali classi dominanti ed il consolidarsi di nuove classi medie, o borghesi, sono state individuati dalla storiografia di questi anni nel corso della crisi secentesca, che ebbe nel Mezzogiorno i suoi momenti più salienti intorno al 1620; poi dal 1640 al 1648, e successivamente nel periodo di trapasso dalla dominazione spagnola a quella austriaca. Alle famiglie di antica nobiltà avviatesi nel corso degli anni ad un lento, a inesorabile processo di sclerosi, si affiancano, nel governo della capitale, numerose famiglie di estrazione popolare. Sebbene l'appartenenza al patriziato urbano comportasse particolari privilegi, essa imponeva pure un tenore di vita dispendioso e non facilmente sostenibile. Il problema dunque dell'impoverimento delle classi detentrici del potere era coscientemente sentito. Sebbene già in tempi normali Napoli rappresentasse una meta agognata dalle misere plebi rurali perché, rispetto alle altre città del Regno, godeva di particolari privilegi - l'esenzione dalle imposte dirette, un sistema annonario che garantiva sempre il prezzo politico del pane - era soprattutto in periodi di carestia, quando la città bloccava al suo interno le risorse alimentari per evitare questioni di ordine pubblico, che vi si riversavano gli strati più umili della popolazione delle campagne circostanti, unendosi agli indigenti cronici già presenti stabilmente nella cerchia muraria, e ai ceti manifatturieri che, nei momenti di crisi, erano i primi a risentirne. Bisogna poi considerare altri due fattori che rendevano la situazione napoletana particolarmente instabile nei momenti diffìcili. In primo luogo l'alta densità di popolazione, e secondariamente la forte incidenza di calamità naturali, epidemie e congiunture avverse. In mancanza di censimenti precisi, dal momento che la città non era sottoposta alle numerazioni in virtù delle esenzioni fiscali, la popolazione è stata stimata dal Capasse, con una cifra approssimativa per eccesso, intorno alle 500.000 unità per gli anni che vanno dal 1636 al 1656. A seguito degli effetti della peste di quest'ultimo anno la popolazione si sarebbe poi ridotta a 140.000 unità. I vuoti si colmarono molto lentamente se intorno al 1742 il numero degli abitanti oscillava intorno alle 305.000 unità. Il Capaccio nel suo Forassero del 1634 offre una descrizione piuttosto verosimile della stratificazione sociale napoletana. Ad una diversificazione dei tipi di nobiltà contrappone una diversificazione del popolo. Lo suddivide in: gentiluomini; professionisti (avvocati, magistrati, dottori); mercanti e commercianti. Al di sotto di queste fasce sociali vi era poi la plebe, anch'essa rigidamente compartita in: quelli che con il loro mestiere godevano di una condizione civile come gli artigiani in genere ed in particolare i lanaioli, i setaioli e gli stampatori, e che per questo potevano essere anche considerati facenti parte della terza fascia del popolo e cioè i mercanti e i commercianti; quelli che van declinando dalla civiltà; ed infine quelli per cui l'autore nutre il massimo disprezzo, coloro che con infiniti esercizi si riducono a tanta bassezza e conducono un'esistenza ai margini, basata sulla furberia, sulla passività e sull'attesa. Come in molti paesi le decisioni adottate a Napoli dai Viceré, nei confronti di questo problema, non assunsero carattere di politica assistenziale, bensì quello di controllo. È interessante notare come, nella prammatica del 1586, il principio del lavoro stabile sia uno degli strumenti di controllo sociale e serva a differenziare il povero onesto dal vagabondo. Nello specifico settore della sanità pubblica si appuntarono, poi, i luoghi comuni propri delle contrastanti categorie sociali: da un lato le classi egemoni, timorose di contagi, attribuivano ai poveri e ai vagabondi le maggiori responsabilità nella diffusione delle pestilenze; dall'altro i poveri accusavano i governi di seminare con veleni la peste in maniera tale che fossero colpiti soprattutto gli indigenti che erano tanti. La pericolosità di questa massa senza regola si rese evidente nelle varie sollevazioni popolari, ma si può dire che queste non furono mai portatrici di un nuovo ordine sociale e quando, con un atto rivoluzionario, riuscirono a dar voce alle loro aspirazioni si espressero in grida semplici e con parole che inneggiavano a concetti conservatori e negativi. Classico esempio nel 1647 le parole d'ordine dei seguaci di Masaniello:
Non vogliamo gabelle, viva il rè di Spagna, mora il malgoverno.
In mancanza di una presenza statuale tutta l'organizzazione assistenziale finì col gravare su confraternite e luoghi pii dal momento che anche la Chiesa, tanto attiva in epoca medioevale nella gestione diretta di ospedali e nell'elargizione delle elemosine per mezzo del clero secolare e regolare, si astenne sempre di più dall'intervento diretto nell'assistenza e nella beneficenza pubblica, pur continuando a mantenere un controllo vigile sulle istituzioni assistenziali laicali che si occupavano del problema. Nella Napoli dell'età moderna un ruolo di grande importanza svolsero le congregazioni di arti e mestieri, attive nei confronti degli immatricolati dell'arte e delle loro famiglie, garantendo aiuti di vario genere in caso di infortunio, di malattia, di invalidità o di impoverimento. Gli statuti stessi, meticolosamente, prevedevano i tempi e le forme dell'assistenza; pertanto, oltre che indubbi vantaggi materiali, gli assistiti continuavano a sentirsi, in un certo senso, integrati nella società e saldamente inquadrati, conservando un senso di identità la cui perdita, come può vedersi nei casi di vagabondaggio forzoso, provocava grandi sbandamenti in masse di popolazione che, spinte da siccità, carestie, guerre ed altro ad abbandonare le terre di appartenenza, le attività abituali, gli oggetti quotidiani e a tentare la ventura in città più grandi, spesso finivano nella malavita. Vi era poi una grande quantità di confraternite laiche che estendeva la rete dell'assistenza a tutta la città. Alcune di esse si limitavano a sovvenire i soli iscritti, altre, specifiche categorie di persone, altre ancora agivano su base territoriale, limitando la propria attività al territorio di pertinenza parrocchiale o alla circoscrizione civile. Oltre a queste altre strutture operavano sul territorio napoletano: i conservatori ed i ritiri per fanciulle e vedove, gli ospedali e i monti familiari o di pietà. Questi ultimi, favoriti dal fervore religioso della Riforma, cominciarono dalla metà del '500 a praticare prestito su pegno. L'affermarsi di questa attività pignoratizia alleggerì molto le condizioni di coloro che, costretti dal bisogno, cadevano vittime delle speculazioni di mercanti, per lo più stranieri, e degli usurai che, insieme agli ebrei, e incuranti delle scomuniche papali, concedevano il prestito a interessi altissimi. Il progressivo sviluppo dei monti di pietà fece sì che questi si sostituissero in tutte le loro funzioni ai banchi privati dei mercanti, divenendo così banchi pubblici. L'assistenza delle associazioni laiche si basava sempre e solo sul denaro dei privati, alcune di esse percepivano tasse di iscrizione e quote mensili dagli ascritti, ma, in genere, la parte più cospicua del patrimonio delle istituzioni assistenziali era costituita dai lasciti e dai legati testamentari. Nel periodo preso in esame i poveri continuavano ad essere menzionati nei documenti di ultime volontà: la riparazione dei torti fatti era una condizione necessaria per l'accesso al regno dei cieli e la liberalità nei confronti dei più bisognosi era il mezzo più sicuro per il riscatto dei peccati. La beneficenza dunque svelava il suo duplice volto: se da un lato permetteva che le frange più bisognose della popolazione, e per questo più esposte al peccato, potessero godere di un'occasione di riscatto, dall'altro essa era fatta pure nell'interesse di coloro che attraverso questo meccanismo si liberavano del peso dei peccati e della paura dell'inferno. Ma chi erano i poveri in una società preindustriale e quale era l'atteggiamento delle classi agiate verso di loro?
Chi erano i poveri
In linea diacronica i diversi atteggiamenti nei confronti della povertà e della miseria hanno dei contorni molto labili, sia per la lentezza in cui avvengono i mutamenti, sia perché questi stessi non sono mai conclusivi e lasciano sempre margine a recuperi, anche parziali, di emozioni e sentimenti diversi. La compassione si può unire all'odio, la paura al disprezzo, l'assistenza alla repressione. I vari atteggiamenti e le soluzioni proposte o attuate riportano poi al problema di quale posto occupino, in un sistema di valori, la povertà e la ricchezza. Oscuratasi completamente l'immagine del povero di Cristo, nella letteratura contemporanea non vi è più alcun richiamo al messaggio evangelico, mentre assume maggior risalto la figura del povero in sé, come di qualcuno sprovvisto del necessario per vivere, probabile portatore di contagi ed elemento pericoloso perché, non avendo null'altro da perdere, poteva con facilità divenire un sovvertitore dell'ordine pubblico. E importante tuttavia considerare che anche il mondo dei poveri era fortemente variegato al suo interno. Molto diversi potevano essere la natura e i gradi di povertà. L'aggettivo povero poteva essere applicato non solo a coloro che mancavano dei beni necessari alla vita, ma pure e coloro che si trovavano in una condizione di relativa insicurezza e a coloro che erano sprovvisti dei mezzi per mantenere il grado sociale ed un livello di vita ad esso adeguato. Con la diffusione della carità istituzionalizzata si consolidò la necessità di stabilire chi era veramente degno dell'elemosina. Già nel 1542 la Regia Camera della Sommaria, dichiarava: s'eccettuano dalla tassa e contribuzioni dell'industria le persone miserabili che vivono dietim delle fatiche loro personali senza fare mercantia, ne possedono facultà alcuna.
Nel complesso si possono distinguere almeno tre livelli di povertà: al primo appartengono coloro che sono perpetuamente inabili, che possono vivere solo se assistiti, questi sono i cosiddetti poveri strutturali, e tra questi dobbiamo inserire pure le numerose vedove, con e senza bambini; al secondo appartengono persone che ricorrono occasionalmente all'elemosina, Pullan li definisce poveri della crisi e sono i salariati a bassa retribuzione e i lavoratori occasionali rigettati nel campo dell'assistenza al primo accenno di crisi, vi era poi l'ampia fascia di coloro che pur essendo poveri, non erano indigenti, ma soffrivano, comunque, del senso di precarietà e di mancanza di sicurezza comune alle fasce più deboli, tra questi spesso troviamo quelli che non mendicavano e si sforzavano di evitare la vergogna di rivelare le loro necessità. Il famoso manuale di iconologia di Cesare Ripa la cui prima edizione risale al 1593, rappresenta la povertà con un'immagine di donna la cui mano sinistra è indirizzata verso l'alto, indicando il desiderio di elevazione dello spirito umano, mentre la destra regge un masso volendo mostrare come il significato trascendente della povertà sparisca di fronte alle difficoltà e ai pericoli che comporta. Secondo Palumbo quest'immagine visivamente esprime quell'incertezza tra una concezione positiva ed una assai negativa della povertà, caratteristica di questo periodo storico. Ambivalenza questa che è alla base, tra l'altro, di tutto il celebre dibattito tra poveri di Dio e poveri del diavolo, tra poveri e vergognosi, come tali meritevoli del soccorso e poveri oziosi e peccatori, meritevoli di reclusione. Siamo così giunti alla descrizione di quella categoria di poveri che più da vicino ha interessato l'attività del Pio Monte della Misericordia: i poveri vergognosi, così definiti per il loro estremo desiderio di non apparire. In questa difesa della privacy non disdegnarono di ricorrere spesso, in accordo con le classi privilegiate cui appartenevano di diritto e di fatto, ad una specie di dissimulazione onesta. Secondo Ricci sul piano concettuale lo squilibrio tra ricchezze e diritto viene confinato in una dimensione tutta privata e moralistica, quella della vergogna, come se fosse il frutto di una vicenda solo individuale, e perciò stesso non intacca i principi su cui la società si regge. Cercheremo di tratteggiare un profilo di questa classe sociale. Bisogna innanzitutto dire che i poveri vergognosi hanno fatto di tutto per non lasciare tracce individuali, ma il gran numero di istituzioni sorte in molte città per alleviare le loro condizioni è testimonianza che in essi la classe dirigente riconosceva la parte più sfortunata di se stessa e perciò la proteggeva in modo particolare. I poveri vergognosi, infatti, nella legislazione non furono mai assimilati ai mendicanti e ai vagabondi, e nei loro confronti non scattarono mai le trappole della riorganizzazione dell'assistenza che dette luogo alla grande reclusione. Proprio un giurista napoletano, Giovan Maria Novario sentì il bisogno di scrivere un Tractatus de miserabilium personarum privilegis in cui, secondo Rosa la Figura del povero onesto sollecita l'attenzione dei giuristi alla ricerca di un'ulteriore sistemazione concettuale e formale di una realtà... che esigeva i suoi specifici privilegi nel quadro più marcato di una società di ordini e di ceti come quella italiana del '600. Nel Tractatus non solo vengono precisate complesse eccezioni procedurali a favore dei meno abbienti, ma viene codificata... un'intera casistica in materia patrimoniale e successoria. Nel complesso le definizioni più restrittive limitavano questa categoria a gentiluomini e nobili decaduti e a «persone di civile condizione. Erano un'elite tra i poveri e comprendevano senz'altro persone in grado di lavorare, ma impedite a farlo dalla loro stessa condizione gentilizia e quindi privi di qualunque chance di recupero. Era dato per certo che questi avessero conosciuto tempi migliori e che quindi l'esperienza della povertà fosse doppiamente dolorosa; il loro caso era inoltre più meritorio perché certamente non recavano disturbo, non erano pericolosi in quanto non vivevano da emarginati, ma anzi esprimevano un'estrema volontà di restare fra i ranghi dei meglio integrati. Secondo Ricci tutto il vocabolario della povertà vergognosa, tanto in latino che in volgare, era intessuto di notazioni cromatiche (…) per designare il sentimento del decaduto per cui il colore delle cappe e delle cassette appare come una sorta di rappresentazione fisica dell'originaria metafora vergogna/rossore e nello stesso tempo una segnalazione visibile immediatamente riconoscibile dello stato di povertà vergognosa. Nella già citata iconologia del Ripa si consigliava di vestire di rosso la figura della vergogna onesta essendo questo colore proprio della vergogna. La condizione di questi poveri doveva essere vissuta all'insegna della pazienza e del silenzio. (…) La grande differenza tra la condizione del vergognoso e quella del comune mendicante è tutta nel desiderio di passare inosservati, rispettando l'ordine sociale e la gerarchia esistente. Secondo Ricci La nobiltà vergognosa è prodotta dall'emergenza di spinte alla mobilità sociale, dovuta a circostanze esclusivamente economiche, all'interno di una società di ordini, in cui i criteri riconosciuti della stratificazione sociale non sono esclusivamente e neppure principalmente economici. La carità verso la nobiltà povera mirava ad una difesa discreta dell'ordine sociale. Continua Ricci l'occultamento della povertà del decaduto e gli ostacoli all'avanzamento politico e giuridico del nuovo ricco rispondono ovunque al medesimo bisogno, bloccare la mobilità sociale ascendente e discendente e riaffermare l'immodificabilità delle gerarchie esistenti.
Alla nobiltà, dal punto di vista pratico, non restava che il tentativo di attenuare o occultare il fenomeno mediante forme assistenziali specifiche e segrete, e la preoccupazione di assicurare il rispetto del ceto, impedendo che suoi rappresentanti meno fortunati venissero trascinati nel fango con gli altri mendicanti. I decaduti non erano espulsi dai ranghi della classe privilegiata, semplicemente non partecipavano più ai fasti aristocratici, e come in tutti i campi della vita sociale anche nelle forme di carità veniva osservato un grado: i poveri vergognosi, per il fatto che un tempo avevano posseduto di più potevano aspettarsi di più dalle associazioni sorte in loro difesa. Ma quali erano le cause di impoverimento? Data la grande segretezza che circonda la vita di questi soggetti si possono avanzare solo delle ipotesi. In alcuni casi dall'archivio del Pio Monte emergono documenti a tale riguardo. Certamente tra i motivi possiamo ipotizzare la morte del coniuge per ciò che riguarda le donne, la mancanza di incarichi ufficiali e certamente l'alto numero di figlie femmine che col tempo dovevano degnamente essere maritate o monacate. |
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