Le Pagine di Storia

L’editto d’espulsione degli Ebrei dalla Sicilia, 1492

di Rosa Casano Del Puglia

Essere un uomo è un dramma, essere ebreo un altro ancora” (E. Cioran)

La posizione geografica della Sicilia, nel cuore del Mediterraneo, è stata determinante nel dare all’Isola un’identità singolare e complessa risultante dal crogiolo di popoli che vi si sono avvicendati.

Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni hanno lasciato in Sicilia tracce indelebili, ma non meno significativo è il contributo, spesso trascurato, che alla nostra identità hanno dato gli Ebrei eppure la loro presenza nell’Isola è contemporanea, secondo alcuni storici, ai Fenici e, con certezza, risale al momento in cui il primo cristianesimo si diffuse in Sicilia; ne sono testimonianza i numerosi ipogei che, in tutta l’isola, accolgono sia cristiani, sia ebrei.

Sicuramente nella storia degli ebrei siciliani uno degli anni più drammatici fu il 1492, infatti nel marzo di quell’anno i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, emanarono più editti per l’espulsione degli ebrei dai loro domini, uno fu destinato alla Sicilia; in particolare per quest’ultimo decisivo fu il ruolo del Tribunale dell’Inquisizione e dell’inquisitore generale Tomas de Torquemada, dell’Ordine dei domenicani. Le ragioni che portarono all’emanazione dei due provvedimenti vanno rintracciate in ambito politico, religioso ed economico.

Infatti, il crollo dei due grandi modelli universali di matrice medievale, papato ed impero, aveva avuto come esito la nascita delle moderne monarchie nazionali, che nei secoli XI e XII iniziarono ad assumere un potere autonomo svincolandosi dagli obblighi nei confronti dell’imperatore; da qui la necessità di dare il via al processo di formazione di un popolo con una propria coscienza nazionale, unito sotto il profilo linguistico, delle tradizioni culturali e soprattutto sotto il profilo religioso. Nelle varie monarchie europee nella persona del re si esprimeva l’unità della nazione, da qui l’identificazione tra religione del sovrano e religione del popolo, insomma si trattava di rendere concreto il principio dell’“ubi unus dominus ibi una religio“.

Il processo di formazione degli stati nazionali era stato avviato, nel 1066, in Inghilterra ove si era stabilita una dinastia normanna, ad opera di Guglielmo I il Conquistatore, ed ove, in seguito, sotto Enrico II, si era già avuto uno scontro con la Chiesa. Anche la Francia, con Filippo II Augusto prima e Luigi IX il santo dopo, cominciava a liberarsi dalle strutture politiche medievali per avviarsi alla realizzazione di uno stato nazionale francese. La Spagna era in ritardo rispetto all’Inghilterra e alla Francia infatti solo, nel 1469, col matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona si comincerà a porre le basi per la formazione di una moderna monarchia nazionale.

Ferdinando d'Aragona ed Isabella di Castilla

Ovviamente la nascita di questi nuovi soggetti politici comportò, ovunque, pesanti scontri tesi a limitare lo strapotere dei feudatari e le continue ingerenze della Chiesa all’interno dei nuovi stati. Ma in Spagna la situazione era più complessa che altrove, la presenza di ebrei e di musulmani era consistente e di conseguenza compito arduo la formazione di un popolo unito sotto il profilo culturale e religioso. In più è necessario sottolineare l’atteggiamento fervidamente religioso dei sovrani spagnoli, che ebbe un particolare significato e peso politico, considerandosi gli stessi non tanto difensori del papato quanto della cristianità intera. Uniti i regni di Castiglia e di Aragona, attraverso le nozze tra Isabella e Ferdinando un secondo passo, per la formazione di una monarchia spagnola, venne compiuto, nel 1492, con la sconfitta del regno di Granada, roccaforte dei musulmani. il titolo di “Cattolicissimi” re di Spagna, conferito loro dal papa ne legittimava, sicuramente, le imprese. Nel marzo dello stesso anno venivano emanati i due “editti” per l’espulsione degli ebrei dalla Spagna e dalla Sicilia. Il principio dell’“unus dominus ibi una religio” era valso anche in Sicilia che, dopo le dolorose vicende che la videro contesa tra Aragonesi e Angioini con la cacciata di questi ultimi, si staccava da Napoli e diventava un regno indipendente che però finiva, inevitabilmente, col legarsi, per ben quattro secoli, alle sorti della Penisola iberica.

La suddivisione della Penisola Iberica prima della caduta di Granada

Nel giro di pochi mesi, dopo l’emissione dell’Editto di espulsione del 1492, tanti ebrei si convertirono al cattolicesimo, quelli che non vollero rinunziare alla loro fede furono spogliati dei loro beni e costretti ad abbandonare l’Isola.

Tanti andarono “là dove li portava il vento”, altri emigrarono in Grecia, in Africa o altrove, ma ancora oggi nulla di loro è dato sapere.

Certamente stupisce come la storiografia ufficiale abbia dato così poco spazio a una pagina tanto drammatica della storia siciliana. Uno dei ricorrenti episodi di rimozione storica?

Ci si chiede ancora perché degli ebrei, che abitarono la nostra isola da tempi remotissimi, siano rimaste così poche tracce, pur trattandosi di un popolo la cui cultura ha profondamente inciso nella creazione della identità siciliana.

Le fonti ci sono, le testimonianze archeologiche non mancano, gli archivi conservano ancora documenti preziosi. Un popolo condannato alla “damnatio memoriae” oltre che alla diaspora?

Profilo politico–amministrativo del territorio siciliano sotto i cattolicissimi re di Spagna

Regnanti Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, sotto il profilo istituzionale la Sicilia era suddivisa in due gruppi di comuni. Nel primo formato dalle città regie e reginali, la popolazione si autogovernava sotto la protezione del sovrano, l’amministrazione era affidata ai nobili locali, talvolta anche con la partecipazione borghese e popolare. Erano città regie i principali centri marittimi e portuali Palermo, Trapani, Catania, Agrigento, Sciacca, Marsala, Mazara, ecc. e le più importanti città rurali dell’entroterra siciliano. Si trattava comunque di città ricche e popolose, dove era concentrato un elevato numero di ebrei, città che il potere centrale riteneva importanti dal punto di vista economico e soprattutto per il loro ruolo strategico all'interno del regno. Le cinque città reginali, Siracusa, Lentini, Vizzini, San Filippo d’Argirò e Mineo, patrimonio dotale della regina, avevano un’amministrazione autonoma rispetto a quelle regie, non a caso, nel 1492, vennero promulgati due editti di espulsione degli ebrei siciliani, uno per le città dipendenti dalla Camera regia l’altro per quelle della Camera reginale, in queste ultime la popolazione ebraica era meno consistente rispetto a quella delle città regie. Il secondo gruppo di comuni era costituito dalle città baronali, si trattava di terre infeudate a un barone, conte, duca o altro feudatario investito dal re, consistevano in centri rurali situati all’interno dell’isola: Caltabellotta, Bivona, Butera, Ragusa, Modica, Castelvetrano, ecc. A questo secondo gruppo vanno aggiunte anche le terre ecclesiastiche, appartenenti alla Chiesa, ma nessun ebreo vi risiedeva sebbene in quel momento in Sicilia ci fosse una delle più alte concentrazioni giudaiche dell’Europa occidentale. Dalla struttura amministrativa delle città siciliane dipese la distribuzione geografica degli ebrei nell’Isola, questi, infatti, avendo già ottenuto da Alfonso il magnanimo la libertà di risiedere ovunque volessero preferirono stabilirsi, piuttosto che nei centri feudali, nelle città regie e reginali ove vi era maggiore dinamismo economico e commerciale.

Stato giuridico degli Ebrei in Sicilia

Sotto il profilo giuridico, gli Ebrei siciliani erano servi della “Camera regia”, cioè proprietà e peculio del regio erario, non dipendevano nè dalla nobiltà feudale, né dalle magistrature cittadine, né dalla Chiesa. Nell'Editto di Espulsione siciliano, la loro condizione giuridica è messa in evidenza: “.. E atteso che tutti i corpi degli ebrei, che vivono e risiedono nel nostro regno, sono nostra proprietà, e di essi per nostra real potenza e suprema e imperativa potestà possiamo decidere e disporre a nostra volontà...” [1]

Per quanto attiene agli altri aspetti della vita civile, gli ebrei non potevano aspirare a far parte dei ceti dirigenti, non potevano ricoprire cariche pubbliche, nè avere rappresentanza alcuna in parlamento. Tuttavia la condizione di “servi della Camera regia” li proteggeva, in parte, dalle angherie nei loro confronti diffuse in tutte le fasce sociali dell'Isola, dall'arroganza sia delle magistrature cittadine, che tassavano gli ebrei oltre misura, sia delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti delle Giudecche. Le angherie e le vessazioni erano tanto frequenti da indurre spesso l'autorità viceregia o il re stesso ad intervenire per mettere un freno. In nessun modo, però gli ebrei potevano sottrarsi alla cupidigia e all’arbitrio del sovrano, che spesso per evitare che alla corona venisse meno il flusso di denaro ebreo, si mostrava acquiescente a qualche loro richiesta. In questa casistica rientra il “rapporto pattizio” che gli ebrei riuscirono ad avere col sovrano. Si trattava di questo: le leggi spagnole erano “pazionate” cioè erano frutto di un accordo tra parlamento che proponeva le leggi e il sovrano, che dietro il versamento di una somma di denaro, le approvava. Gli ebrei non avevano una loro rappresentanza in parlamento, tuttavia ricalcando l’iter delle leggi pazionate riuscirono ad ottenere che il sovrano ascoltasse le richieste delle loro Assemblee, si accordavano poi sul donativo, quindi le leggi diventavano “Capitoli”

La Sicilia alla vigilia dell'editto d'espulsione

Religione e cultura in Europa: diffusione delle eresie e degli ordini mendicanti (sec. XIII ca.)

Gli anni tra il 1474 e il 1491 furono contrassegnati, in Sicilia, da una forte tensione tra ebrei e cristiani, in particolare nelle città appartenenti alla Camera regia. A soffiare sul fuoco furono soprattutto le folli e martellanti predicazioni dei frati degli Ordini Francescano e Domenicano, che spesso andavano oltre i dettami della chiesa di Roma e infiammavano gli animi contro il “perfido ebreo”.

L’autorità viceregia intervenne, più volte, per spegnere quei focolai.

I frati Francesco de Donania di Sciacca, Francesco di Aragona, Giovanni da Pistoia, furono ripetutamente sollecitati dal viceré perché si astenessero, nelle loro prediche, dal suscitare odio contro gli ebrei.

Episodi di violenza si verificarono in tutta la Sicilia. Nel 1474 a Palermo, un gruppo di Ebrei era stato condannato al rogo con l’accusa, mai dimostrata, di aver fatto circolare “certi libri falsi e scritture contro la fede cristiana”. Immediatamente dopo, la violenza esplose a Noto e a Modica, furono autentiche stragi, tra le più gravi che si registrarono in Europa.

Della strage di Modica è rimasta una descrizione. “Alcuni giorni fa il popolo di Modica o la maggior parte di esso si è riunito con diversi tipi di armi, come spade e balestre, e messosi a tumultuare ha inveito contro i Giudei di detta terra, abbattendo con violenza le porte delle case, rubando tutto ciò che vi era dentro, portandosi quindi nelle loro campagne, devastando le vigne e appropriandosi del prodotto pendente, come pure continuando a compiere ogni sorta di violenza contro gli ebrei che via via incontravano. Tra maschi e femmine, piccoli e grandi, gli ebrei uccisi furono circa 360” [2]. La drammatica situazione indusse il viceré Durrea ad intervenire, i responsabili furono condannati, l’ordine fu ristabilito.

Castelvetrano, giudecca

La violenza però esplodeva in altri centri della Sicilia: a Monte San Giuliano, a Sciacca, Caltagirone, Castrogiovanni, Taormina, Ragusa, Castroreale, Mineo. In quasi tutta la Sicilia si devastavano le giudecche, si lanciavano pietre, si incendiavano le case degli Ebrei. La “sassaiola santa”, come la chiamavano i cristiani”, si intensificava alla fine della settimana santa, quando gli ebrei erano costretti a chiudersi in casa. Ad Agrigento, nel 1462: Mentre gli ebrei della detta giudecca se ne stavano chiusi, come è costume, nelle loro case [….], molti in forma temeraria e non manifestando timore alcuno della giustizia, credettero abbattere le porte adoperando cunei e mazze e mettendo a fuoco le loro case, attraverso le finestre, e spingendo le fiamme con bastoni per le porte e i buchi delle mura …” [3]. Intervenne, allora, il viceré Bernard de Requsiens, che invitò il governatore della giudecca di Agrigento ad istruire un processo contro gli autori della violenza. Altri richiami furono indirizzati al frate francescano Francesco De Bonomia, di Sciacca: “Predicando voi il Verbo divino in codesta terra di Sciacca vi siete allargato e vi allargate tanto contro gli Ebrei di detta giudecca che, in conseguenza del vostro non regolato predicare, potrebbe accadere, Dio non voglia, qualche disservizio della Sacra Regia Maestà e disturbo della pacifica convivenza” [4]. A Ragusa il viceré De Peralta inviò Pietro Paolo Pisano per proteggere gli Ebrei: “Havimo noviter intiso in la terra di Ragusa esseri congregati certi scavi in numero cinquanta in sissanta vel circa, cum voluntate et interventu di alcuni persuni di la dicta terra seu di li contatu di Modica; li quali scavi hannu aminazatu li judei di la terra predicta volirili tagliari a pezi in lo modo chi altra volta fu facto in la terra di Modica” [5]. Il 6 ottobre 1480 il viceré De Spes scriveva agli ufficiali della città di Trapani: “Alcuni predicatori, e specialmente Francesco di Aragona, vanno predicando per questo regno e talvolta nella predicazione dicono alcune cose contro gli ebrei che facilmente giungono ad incitare i popoli a qualche moto furioso contro loro. Pertanto volendo noi come cosa ragionevole e pertinente il real servizio che gli ebrei non abbiano a subire danno o sinistro alcuno nelle persone e nei beni, ché anzi come servi della camera regia siano guardati e preservati indenni, atteso che sono tollerati dalla Santa romana chiesa in testimonianza della nostra santa fede abbiamo disposto e con la presente vi comandiamo ed ordiniamo che capitando nella detta città qualunque predicatore, e specialmente il detto Frate Francesco, voi dovete ammonirli ed esortarli che predichino onestamente e che non dicano contro gli ebrei cose che possono essere di detrimento e di danno per gli stessi né spingano i popoli a furia, ira e indignazione” [6].

Trapani, palazzo della giudecca

Simili ammonimenti furono rivolti dal viceré al padre quaresimalista di Caltagirone che  “in quella terra dice e fa alcune cose, specie nel predicare contro gli Ebrei, che facilmente contro di loro potrebbe sorgere qualche tumulto” [7]. Altri predicatori di Savoca furono, sollecitati dal viceré “perché si limitassero a predicare il verbo divino e non dicessero cose contro gli ebrei per le quali si potesse generare scandalo o male alcuno” [8].

Nonostante però il dilagare del fanatismo religioso e della violenza, dalla Sicilia, una volta emesso l’Editto, si levarono voci di contestazione contro di esso e di sostegno agli ebrei.

Editto di espulsione – le cause

Nel XV secolo, la massiccia presenza di famiglie musulmane ed ebraiche nella Spagna e nei domini spagnoli indusse re Ferdinando a chiedere ed ottenere da papa Sisto IV, nel 1478, l’istituzione di un Tribunale dell’ inquisizione spagnolo, che competente in materia di fede, non dipendeva dal papa ma dal re stesso. Re Ferdinando nominava l’Inquisitore generale, capo del Consiglio dell’Inquisizione, al papa non rimaneva che ratificare la decisione del re.

Presto il Tribunale fu esteso anche in Sicilia, dove era di fatto un’appendice di quello spagnolo, infatti il papa, non vedendo di buon occhio quell’operazione che avrebbe rafforzato i poteri di Ferdinando nell’Isola, aveva rifiutato il suo consenso al re Cattolico. Una trattativa era stata avviata da Papa Innocenzo VII, ma la faccenda era rimasta irrisolta. (L’Inquisizione in Sicilia sarà riconosciuta solo il 27 luglio del 1500, da papa Alessandro VI. Borgia, spagnolo) Nell’Editto di espulsione siciliano, che sostanzialmente è diverso da quello spagnolo, il ruolo dell’Inquisizione e del Primo inquisitore Tomas de Torquemada è ripetutamente sottolineato; le ragioni verranno esposte più avanti.

Tomas de Torquemada

Le cause che concorsero all’emanazione dell’Editto siciliano, nel 1492, furono tante non tutte incisero in eguale misura, ma certamente il clima arroventato che si era creato in Sicilia, negli anni tra il 1487 e 1491, fomentato dalle folli predicazioni dei frati francescani e domenicani accelerò i tempi. Realizzato l’obiettivo di fare della Spagna un moderno stato nazionale, re Ferdinando, intendeva ora farne uno stato assoluto. A questo scopo era necessario modificare il rapporto tra la Sicilia e la Spagna e più precisamente liquidare i margini di autonomia di cui godeva l’Isola. Il programma, però, coinvolgeva anche la Chiesa di Roma, in considerazione degli interessi che questa aveva nell’Isola. In Sicilia, nonostante negli anni precedenti l’Editto di espulsione del 1492, l’odio antigiudaico avesse avuto come esito le stragi di Modica e di Noto e nonostante focolai di tensione fossero esplosi in tutta l’Isola, il Tribunale dell’Inquisizione e il successivo Editto di espulsione suscitarono l’ostilità del popolo e dei ceti dirigenti isolani, i quali capirono subito che il vero obiettivo di Ferdinando consisteva nel liquidare la semiautonomia di cui godeva la Sicilia. Le lotte tra gli inquisitori e i giudici siciliani, una volta fondata l’Inquisizione, vertevano sulla giurisdizione e su alcuni reati riservati dal re di Spagna al Tribunale e rivendicati dalle magistrature siciliane al proprio foro, ad es: il controllo degli stranieri, quello sulla stampa e sugli scritti provenienti dall’estero, sulle navi in ingresso nei porti, il fatto che i Siciliani potevano essere giudicati solo da giudici siciliani, con l’Editto si intendevano anche colpire i privilegi di alcune città che in una certa misura limitavano il potere regio, senza dire che il diritto comune e la procedura penale venivano stravolti dalla ferrea regola del segreto che caratterizzava tutto il processo inquisitoriale. Resistenza ed opposizione si registrarono anche da parte dei vescovi, che vedevano usurpata parte della loro giurisdizione, del potere politico, del viceré e del Parlamento, oltre che dai giuristi e dai giudici dei tribunali laici, che si opposero allo strapotere della giurisdizione inquisitoriale.

Sul versante della Corte pontificia, il papa continuava a ritenere la Sicilia feudo della Chiesa di Roma, inoltre nell’Isola vigeva ancora il regime della Legazia apostolica e re Ferdinando, per diritto di nascita  legato pontifico”, esercitava in Sicilia poteri di patronato sulla chiesa locale, si occupava degli aspetti finanziari e della nomina dei vescovi, che il papa era tenuto a ratificare, insomma Ferdinando era al tempo stesso papa e re, tant’è che era chiamato “Sacra Maestà”. L’autonomia dell’Isola, che re Ferdinando intendeva liquidare, si identificava, in parte, anche con i diritti rivendicati dalla Chiesa di Roma. In Sicilia non solo il problema di estendere il tribunale dell’inquisizione spagnola non era del tutto definito, ma l’unica inquisizione legittima era quella vescovile, che non aveva alcun potere in merito all’espulsione e che dipendeva dal papa; in più il clero siciliano, presente nel braccio ecclesiastico del parlamento, con la copertura della Curia romana e l’appoggio delle città demaniali, difendeva la giurisdizione vescovile piuttosto che il Tribunale dell’Inquisizione. In Sicilia regnava il caos, esistevano due inquisizioni quella vescovile, unica legittima, e il tribunale spagnolo voluto da re Ferdinando e dall’Inquisitore Tomas de Torquemada. Nonostante il clero siciliano, subito dopo l’emanazione dell’Editto, sostenesse d’accordo con la curia di Roma, la giurisdizione vescovile, la bilancia pesava dalla parte di Ferdinando, infatti gli ebrei erano servi della camera regia, non dipendevano né dalla Chiesa, né da dai nobili feudatari, né dalle magistrature cittadine erano proprietà e peculio del re che disponeva anche dei loro corpi, come si legge nel testo dell’editto di espulsione siciliano: “E atteso che tutti i corpi degli ebrei che vivono e risiedono nei nostri regni, sono nostra proprietà e di essi per nostra real potenza possiamo decidere e disporre a nostra volontà [9]. La Chiesa di Roma e il clero, in virtù della servitù della camera regia potevano pronunziarsi solo se si verificano contrasti tra la legge mosaica e il rispetto dei dogmi cristiani, avendo, la giurisdizione vescovile, solo valore di verifica e di controllo.

Iscrizione ebraica della sinagoga di Siracusa

Le ragioni per cui nell’Editto siciliano viene continuamente sottolineata la figura dell’inquisitore Tomas de Torquemada e il ruolo dell’Inquisizione, assenti in quello spagnolo, vanno ricercate proprio nello scontro tra la Chiesa di Roma e re Ferdinando. Il papa si era rifiutato di acconsentire al disegno di Ferdinando di estendere il Tribunale anche in Sicilia. Ora cacciare gli Ebrei dalla Sicilia proprio a nome del Torquemada e dell’Inquisizione costituiva senz’altro un punto a favore del re cattolico, che agiva liberamente soverchiando l’autorità del pontefice. Fu questa complessa ed intricata maglia di relazioni, che intercorrevano tra la Spagna la Sicilia e la Chiesa di Roma, a indurre re Ferdinando e l’Inquisitore generale Tomas de Torquemada a stendere, per la Sicilia, un editto di espulsione diverso da quello spagnolo, studiato nei minimi particolari, in modo da poter reggere a qualsiasi genere di protesta, che il Cattolico si aspettava sia da parte del pontefice che da quella delle autorità siciliane.

Emanato il decreto la Chiesa di Roma non se ne rimase zitta, appellandosi al diritto canonico secondo cui i re cristiani non potevano espellere gli ebrei, ma l’Editto di espulsione era blindato, l’istituto della servitù della Camera regia, ivi incluso a bella posta, lasciava mano libera a re Ferdinando.

Nell’Editto, gli Ebrei venivano accusati sia di sollecitare i cristiani ad abbandonare la loro fede per abbracciare l’ebraismo: “…dai Padri inquisitori della eresia e apostasia, siamo informati che sono stati trovati molti e diversi cristiani i quali sono passati o ritornati ai riti giudaici […] e che di detta eresia ed apostasia sono stati causa i giudei e le giudee dei nostri regni..”, sia di praticare il prestito ad usura “…. Troviamo che i detti giudei per mezzo di gravissime ed insopportabili usure divorano e inghiottono i beni e le sostanze dei cristiani, esercitando con nequizia e senza pietà la pravità usuraia contro i detti cristiani…” [10]. Accusa pesante, anche quest’ultima, specie se si considera da quale pulpito veniva la predica!

Non se ne rimasero zitti neanche i Siciliani, che da politici consumati reagirono con determinazione e prudenza, contestarono una ad una le accuse a carico degli Ebrei scrivendo che in Sicilia non avevano mai tentato di convertire i cristiani e che il credito ad interesse veniva da loro praticato conformemente a quanto stabilito dalla Regia Curia e dalle Bolle pontificie “Se fossimo a conoscenza - scrissero - che gli ebrei costituissero causa di fomentare l’eresia o che per le loro conversazioni con i conversi provocassero occasioni di infedeltà, supplicheremmo Vostra Real Maestà non già che fossero espulsi, bensì che venissero bruciati” [11]. Affermazioni queste che insieme all’accusa di usura vennero condivise dalle più alte magistrature siciliane e dallo stesso inquisitore La Pena rappresentante, in Sicilia, dell’Inquisitore generale spagnolo Tomas de Torquemada.

Pur attaccando il decreto nella sua ragion d’essere, complessivamente, i Siciliani agirono con oculatezza, avevano capito che con quell’Editto re Ferdinando, assieme agli altri suoi scopi, cercava l’occasione per entrare in conflitto con i siciliani e avere l’opportunità di revocare tutti i privilegi di cui godeva l’Isola. Era insopportabile l’idea che un monarca, che esercitava poteri assoluti nei suoi vasti domini, vedesse limitata la propria sovranità in Sicilia. Consapevoli di questo, le magistrature siciliane evitarono di accendere la miccia, elencarono i danni economici che avrebbe subito l’Isola e la stessa Camera Regia, danni incalcolabili se si considera che gli Ebrei spendevano circa un milione di fiorini l’anno per abiti, bevande, cibi, che sarebbe stata la fine dei fruttuosi rapporti di affari tra ebrei e cristiani e che, essendo gran parte degli ebrei artigiani, sarebbero venuti a mancare tutti quegli arnesi da lavoro, utili alla pesca, all’agricoltura all’edilizia, che essi stessi producevano.

Portale (Hechal) della sinagoga di San Filippo d'Argirò (1454). Chiesa del SS. Salvatore

Fatte queste considerazioni, fu deciso di circoscrivere il contrasto alla sola espulsione degli ebrei, ben sapendo che nulla si poteva fare per i “servi della Camera Regia”.

Gli Ebrei avrebbero dovuto lasciare la Sicilia entro il 18 settembre 1492, un lasso di tempo troppo breve per risolvere tutti i problemi conseguenti al loro esodo. Perciò i magistrati di Palermo chiesero ed ottennero dal re alcune proroghe, la data ultima della partenza venne fissata al 12 Gennaio 1493.

Re Ferdinando avrebbe voluto che l’esodo avvenisse in modo spettacolare così da avere risonanza in tutta l’Europa; ma al contrario i Siciliani ed il Consiglio Generale ebraico organizzarono le cose in maniera che tutto avvenisse con ordine e senza suscitare clamore.

Assieme all’Editto furono emanate le istruzioni per la sua attuazione, per le questioni patrimoniali si davano pieni poteri al viceré. I beni degli Ebrei non vennero confiscati ma prima di partire furono costretti a venderli, si fece loro obbligo di regolare la loro posizione con l’erario regio e con quello municipale (gizia, gabelle, dazi, regalie etc), e di sanare le questioni finanziarie crediti – debiti con i cristiani. Tutto quanto rimaneva loro poteva essere trasferito, tramite lettere di cambio, nella nuova residenza. Poterono portare con sè poche cose: un materasso, una coperta un paio di lenzuola e un misero bagaglio.

La vendita dei beni degli ebrei fu un autentico terno al lotto per i cristiani, le loro proprietà vennero strappate a prezzi bassissimi, nell’inventariare i loro beni la Chiesa di Agrigento si appropriò di numerosi oggetti preziosi, il famelico sostituto del locale capitano arrivò a confiscare anche le elemosine per i poveri; senza dire che a Nicosia, Trapani, Marsala, Sciacca, Mineo, così come in altri numerosi centri della Sicilia, tanti pubblici ufficiali non disdegnarono di ricorrere a frodi ed estorsioni e spesso, dietro pagamento di una consistente somma, “agevolarono” gli ebrei nel fare sparire, tramite passaggi di proprietà ad amici cristiani, i loro beni.

Sinagoga a Castabellotta

Nei confronti degli ebrei, c’era stato nel corso degli anni, un autentico salasso economico ed ora l’ingordo re Ferdinando considerando che alle casse del regno sarebbero venuti meno gli introiti relativi a tasse, balzelli, regalie etc, sborsati dagli ebrei, impose loro una sorta di “tassa d’uscita” per la somma di 125 mila fiorini, una cifra enorme equivalente al valore di quanto avrebbero dovuto versare in circa due anni e mezzo di tassazione diretta.

La virtù salvifica di quella somma fece sì che la Corona emanasse, subito dopo, un Capitolo che prevedeva l’amnistia generale per i reati attribuiti agli ebrei, quel Capitolo li salvò dall’arroganza di tanti ufficiali regi e locali. Dopo l’Editto di espulsione, infatti, ad Agrigento, Sciacca e Caltagirone, senza andare troppo per le lunghe, erano state chiuse le moschite ed arrestati i proti. A Cammarata il barone aveva avuto la geniale idea di sequestrare tutta la comunità ebraica e rinchiuderla nella moschita per sei giorni. Il barone di Ciminna si era limitato, bontà sua, agli arresti domiciliari. Queste misure, dettate solo dall’arbitrio, vennero annullate subito dopo l’emanazione del Capitolo relativo all’amnistia.

Dopo quindici giorni dalla data di emanazione dell’Editto, fu pubblicata dalla Corona una lettera con la quale si dava agli ebrei la possibilità di evitare l’esilio purché si convertissero al cristianesimo. I due provvedimenti furono a bella posta distanziati nel tempo, re Ferdinando sperava in questo modo che la conversione degli ebrei apparisse come un fatto spontaneo, piuttosto che come una costrizione.

Ai tanti ebrei che si convertirono, venne promesso che sarebbero stati trattati come i cristiani, promessa che fu totalmente disattesa e diede vita alla tragedia dei marrani. Altri rimasero fedeli al loro credo religioso, rinunciare alla loro fede non era una scelta circoscritta alla sola sfera religiosa, si trattava di rinunciare alla propria identità a cominciare dal nome per finire ad uno stile di vita che nulla aveva a che fare col loro passato. Non ci sono dati certi, ma a lasciare la Sicilia fu buona parte della popolazione ebrea ivi residente, ne risentì profondamente l’economia dell’Isola, alcuni paesini interni rimasero pressoché deserti.

La diaspora fu solo meridionale e mediterranea, gli ebrei si diressero infatti a Napoli, Firenze, in Calabria, nel nord Africa o in Turchia.

Dai paesini interni dell’Isola, affrontando un viaggio spesso lungo centinaia di chilometri, si raccolsero per la maggior parte nei porti di Messina e Palermo, da lì si imbarcarono.

Con compostezza e dignità lasciarono la Sicilia, la terra che avevano abitato per secoli, che avevano amato e vissuto come la loro propria terra. Le loro sinagoghe, acquistate dai cristiani, vennero adibite ad altri usi, furono chiuse le loro scuole, scomparvero i loro libri, la loro cultura, le loro tracce, la loro memoria. Tutto quanto fu sommerso da un inquietante, drammatico silenzio che dura da troppi secoli.


Note

[1] Editto per La Sicilia, 1492

[2] Lagumina, II, Documento DLXXIX, 23 agosto 1475

[3] Lagumina, II, Documento CDLXXXIV, 26 aprile 1462

[4] Lagumina II, Documento DCCXXXIV, 16 marzo 1490

[5] Lagumina II, Documento DCVII, 11 agosto 1477

[6] Lagumina II, II, Documento DCVII, 11 agosto 1477

[7] Lagumina II, Documento CXCII, 16 marzo 1490

[8] Lagumina II Documento DDCCXCII 16 marzo 1490

[9] Editto per la Sicilia, 1492

[10] Editto per la Sicilia, 1492

[11] Editto per la Sicilia, 1492


Bibliografia

  • F. Renda – Storia della Sicilia, vol. II - Sellerio, Palermo.

  • F. Renda – La fine del Judaismo siciliano – Sellerio, Palermo

  • M.S. Messana - Il santo ufficio dell’inquisizione, Sicilia 1500-1782 I.P.E.

  • S. Simonsohn – Tra Scilla e Cariddi – Viella.

  • A. Scandaliato, N. Mulè – La sinagoga e il bagno rituale degli ebrei di Siracusa - Giuntina.

  • S. Luzzati, R. Della Rocca – Ebraismo - Electa

  • B. e G. Lagumina – Codice diplomatico dei giudei di Sicilia - Palermo.

  • A. Scandaliato – Judaica minora sicula – Giuntina.

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Pagina a cura di Rosa Casano Del Puglia. Riproduzione, anche parziale, vietata. Pubblicato dal Portale del Sud nel mese di Maggio dell'anno 2013

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