Le Pagine di Storia

 

Francesco Paolo Di Blasi

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Clips tratte da “Il Consiglio d'Egitto” di Leonardo Sciascia

Un periodo intellettualmente e politicamente vivace per la Sicilia fu quello del viceregno di Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina (1781-1786), che formatosi in ambienti di cultura illuministica, combatté un'aspra battaglia contro i privilegi baronali e l'assetto feudale dell'Isola, attuando delle riforme e suscitando interessi ed energie in senso progressista. Fu grazie a lui che il giovane avvocato Francesco Paolo Di Blasi, di colta e nobile famiglia palermitana, poté sviluppare le sue idee progressiste ispirate dall’illuminismo francese.

Nato nel 1755, era nipote degli abati benedettini Salvatore e Giovanni Evangelista Di Blasi [1]. Appassionato cultore di studi storici e giuridici, fu giudice della gran Corte pretoriana e candidato alla carica di giudice del Concistoro.

Nel suo primo scritto, "La dissertazione sopra l’egualità" (1778) Di Blasi dimostra che, seppure ancora giovanissimo, aveva ben recepito la dottrina illuministica. Questo scritto, liquidato frettolosamente come un centone del Discours di Rosseau, segna in realtà un momento storico in quanto inaugura in Italia un tipo di discorso filosofico, che servirà a spiegare le diverse elaborazioni della dottrina illuministica declinate nel nostro Paese (un altro modello simile – sebbene di stampo più letterario - sarà l’operetta morale del Leopardi, "La storia del genere umano" che uscirà però nel 1824). Per il Di Blasi illuminista, il passato assume l’aspetto di una lunga età di oscurantismo e di aberrazione, dominata dalla forza tirannica dei baroni e dei governanti. Approfittando della ventata di progressismo che aveva investito il Regno con l’arrivo dei Borbone e del Primo ministro Tanucci, nel 1785 propose al Viceré Caracciolo di pubblicare una raccolta delle "Prammatiche del Regno", dal 1339 al 1579, che poi Caracciolo inserì nel suo programma governativo. Era una conquista senza precedenti, che s'inseriva nell'apparato più alto dello Stato con lo scopo, chiarissimo, di limitare se non di eliminare i privilegi del clero e della nobiltà. Nel disegno del Re, compito del Caracciolo era di restaurare l’autorità regale e della legge e contrastare lo strapotere dei baroni siciliani cercando di mantenersi però nell’ambito dell’ordinamento costituzionale vigente. Caracciolo andò ben oltre ed ebbe la capacità di attaccare frontalmente la nobiltà siciliana, la sua arroganza e gli abusi feudali. Tentò anche di modernizzare il Parlamento, proponendo di trasformarlo in un “Congresso” della Sicilia, ma la proposta fece infuriare i baroni più riottosi e retrogradi che erano anche i più potenti. Iniziò così una guerra senza quartiere contro il Viceré.

Di Blasi era profondamente d’accordo con Caracciolo sulla necessità di un nuovo censimento nel Regno e di una nuova valutazione dei beni fondiari per una nuova ripartizione delle tasse, finora ingiustamente ripartite. Si chiedeva, giustamente, il viceré del «Come non si parla mai di un ceto di persone che posseggono li due terzi della Sicilia, e ne rimangono esenti?» Far pagare gli ecclesiastici, alleviare i poveri e far contribuire i ricchi ad impinguare l’erario, fare insomma un nuovo catasto era l’intento del Caracciolo e del Di Blasi. Queste riforme erano sentite come un’esigenza per il Paese, atta ad abbassare la potenza dei baroni e a togliere i privilegi abusivi. Bisogna dire che Caracciolo trovò nel Di Blasi il perfetto modello ideologico e politico, corrispondente alle sue aspirazioni di governante simpatizzante delle nuove idee.

Si trattava purtroppo di un caso isolato o quasi.

Prima del Di Blasi, infatti, l’illuminismo in Sicilia non era mai arrivato a creare nessuna forza capace di contrapporsi al sistema feudale. Si, è vero, c’erano stati De Cosmi, Costanzo, La Loggia, Scrofani e tanti altri, ma si erano limitati a constatare e, al massimo, contestare la miseria morale dei baroni senza però teorizzare un sistema politico alternativo, come invece fece Di Blasi.

Ma ovviamente l’opera riformatrice del suo “tutore” e viceré illuminato non poteva andare lontano, a causa dell’opposizione degli ecclesiastici e dei nobili, che vedevano messi in pericolo i tanti privilegi. Costoro infatti riuscirono a fare richiamare, nel 1785, alla corte di Napoli l’importuno Caracciolo.

A Caracciolo seguì tuttavia Francesco d’Aquino, principe di Caramanico che in qualità di figlio dei tempi, cercò di continuare nell’attuazione di una politica di tipo illuministico. Nel 1788 infatti abolì le “angherie”, cioè le prestazioni obbligatorie e gratuite dovute al feudatario. Nel 1789 decretò l’abolizione della servitù della gleba nelle campagne e deliberò anche la riduzione a quattro seggi su 12 la partecipazione dei nobili nella “Deputazione del regno”, cioè nel governo dell’isola. Come si permetteva il viceré di ridurre così il potere dei nobili? Infatti, l’8 gennaio 1795, il principe di Caramanico mentre si trovava nella “casina della principessa del Cassero nella contrada delle terre Rosse, fu assalito improvvisamente da violenta convulsione che sull’ore 11 del giorno nove seguente gli tolse la vita senza che avesse potuto ricevere il Santo Viatico, né munirsi dell’Estrema Unzione”. Per tutta la notte il principe non aveva avuto alcuna assistenza medica. Nel popolino circolava la voce che fosse stato ucciso su mandato del giovane ministro Acton, favorito della regina Maria Carolina.

Ma tornando al Di Blasi, la sua opera più originale e dove si delinea chiaramente il suo programma politico è il "Saggio sopra la legislazione della Sicilia" (1790). Si tratta di un progetto articolato che prevedeva una radicale riforma della società. Alla sua formulazione il Di Blasi è pervenuto con il consenso autorevole del viceré . Particolare attenzione il giureconsulto di Palermo presta al potere giudiziario. Egli rimette in discussione tutto l’apparato legislativo su cui si era fondato sino ad allora il sistema. Per Di Blasi il ruolo fondamentale dei magistrati e la necessità di un codice di leggi adeguate sono alla base di una nuova società civile. In quest’opera vengono trattati con accuratezza i diversi ruoli del potere giudiziario, la fase istruttoria e la custodia cautelare. La sua attenzione si focalizza inoltre sulla tempestività di questa e la brevità della fase istruttoria. Particolarmente appassionate e di alto profilo etico sono le pagine contro la pratica della tortura. L’autore dedica due interi paragrafi ai tribunali riservati alle azioni civili e a quelli penali, i cui metodi sono discriminanti. Il suo desiderio, invece, è quello di vederli più obiettivi ed equilibrati.

Oltre la riforma del codice delle leggi, il Di Blasi propugna la liberazione degli agricoltori dai molteplici diritti angarici cui erano sottomessi divenendo l’antesignano di quel filone relativo alla questione della terra, del feudo passivo e dei contadini poveri, nonché dei loro diritti e quindi della loro emancipazione. Una questione che non sarà risolta in tutto il Meridione d’Italia fino alla metà del secolo XX.

Il Di Blasi inoltre portò la questione dell’eguaglianza sul piano della prassi facendola diventare una proposta legislativa. E questo gli fu fatale. Oltre che nella giustizia e nel fisco il Di Blasi entrò prepotentemente anche nell’ambito privato. Attaccò infatti la legge del maggiorasco, il diritto alla successione dei beni ereditari negato a tutti i figli tranne che al primogenito, per cui si creavano discriminazioni ed ingiustizie nell’ambito della famiglia. Era questa una delle consuetudini più delicate e gelosamente difese dalla nobiltà. Inoltre faceva oggetto di critica la questione femminile e l’educazione, e affrontava in maniera del tutto nuova la divisione delle classi. In proposito il Di Blasi, nella sua analisi (dal più nobile e ricco all’ultimo agricoltore), assegna ad ognuno un ruolo preciso di competenze e responsabilità in modo che la società così divisa stimoli gli individui a passare nella classe superiore. L’ordine sociale ed economico previsto dal Di Blasi prevedeva addirittura incentivi per i più meritevoli. Per il coraggioso giureconsulto palermitano doveva essere l’istituzione scolastica ad operare una profonda trasformazione della società. Perciò egli auspicava una scuola pubblica e laica, obbligatoria ed uguale per tutti, maschi e femmine. Una grande utopia per i tempi. Il Di Blasi accolse senza riserve la dottrina rousseauniana dell’uguaglianza e la conseguente critica alla società civile.

A Palermo intanto, negli ambienti vicini alla corte di Napoli non si parlava d’altro che di diritti usurpati alla corona da parte dei baroni. Ricordiamo che siamo nel periodo in cui l’abate Vella mette in piedi la sua “Arabica impostura” che vorrebbe far giustizia dei privilegi baronali e restituire al Re la piena potestà sull’isola. Al posto del Caramanico, pertanto e per evitare ulteriori impennate progressiste, non fu nominato un altro Viceré ma un amministratore, l'arcivescovo Filippo Lopez y Royo.

Fu proprio in questo ambiente che preludeva ad un ritorno all’antica arroganza baronale che Di Blasi, rimasto privo di interlocutori illuminati, sembra cominci a vagheggiare l’ipotesi di una Repubblica siciliana. Il momento sembrava opportuno con il Lopez disprezzato dai nobili e odiato dal popolo e il malcontento delle maestranze cittadine e dei contadini regnicoli sempre più diffuso. A tale scopo aveva fatto risorgere l’Accademia degli Oretei, fondata da suo padre, che aveva lo scopo di sostenere il dialetto e la poesia dialettale. Per Francesco Paolo Di Blasi era divenuta una occasione per cercare di dare una identità nazionale siciliana. C’era però qualcosa che non facilitava la realizzazione dell’ideale del Di Blasi. Egli si ispirava alla Francia, a Rousseau e ai giacobini, ma i francesi e i giacobini erano odiati dal popolo che ad essi attribuiva ogni male: dalla guerra dei Vespri alla fillossera della vite. E mentre il Di Blasi vagheggiava la sua rivoluzione che, secondo lui, avrebbe trascinato nelle piazze il popolo e rovesciato il potere vigente, un suo amico e compagno, tal Giuseppe Teriaca, in confessione, rivelò al vecchio parroco della chiesa di San Giacomo alla Marina la presunta congiura. Il complotto avrebbe avuto lo scopo di rovesciare la monarchia siciliana e assieme ad altri congiurati, il Di Blasi progettava, secondo il penitente, di sequestrare il Viceré Filippo Lopez y Royo il venerdì santo del 3 aprile 1795.

Il vecchio parroco convinse il suo fedele, in cambio dell’impunità, a raccontare della congiura al viceré Lopez ed a denunciare i congiurati. Inevitabile per il Di Blasi fu l’arresto, il processo e la tortura in quanto ritenuto reo di congiura per l'istituzione di una repubblicana siciliana. Di Blasi comunque non rivelò mai i nomi di altri congiurati e fu decapitato il 20 Maggio del 1795 nel piano di Santa Teresa, l’attuale Piazza Indipendenza.

Una lapide fissata nel muro della caserma Garibaldi ne ricorda l’esecuzione. La sua vicenda, assieme alla contemporanea “Impostura” dell’abate Vella, è narrata nell'opera di Leonardo Sciascia “Il Consiglio d'Egitto”.

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

Giugno 2010


Note

[1] Giovanni Evangelista Di Blasi (25 luglio 1720 -18 luglio 1812) fu uno storiografo, studioso di teologia, storia ecclesiastica ed epigrafia. Fu uno degli esponenti più attivi della cultura palermitana del suo tempo. Insieme al fratello Salvatore venne avviato in giovanissima età alla vita ecclesiastica entrando nell'Ordine dei benedettini. Studiò a Roma nel collegio di S. Callisto e insegnò teologia nella Badia di Firenze, poi nel Monastero di S. Severino a Napoli e successivamente in quello di S. Pietro a Perugia. Pubblicò le “Tesi filosofiche” ed il “Discorso de la necessità di formare una storia ecclesiastica perugina”. Tornato in Sicilia divenne abate del monastero di S. Martino delle Scale; fu lettore di teologia nel Seminario arcivescovile e nel 1777 Ferdinando III lo nominò regio storiografo. Era zio del patriota e giurista Francesco Paolo Di Blasi; difese l'abate Vella protagonista dello scandalo della cosiddetta «arabica impostura», ma poi dovette ricredersi. Scrisse: la "Storia cronologica dè Viceré, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia”, 1790-92, in cinque volumi; “la Storia civile del Regno di Sicilia”, 1811-21, in 21 volumi. Collaborò con Domenico Schiavo nell'opera “Memorie per servire atta storia letteraria di Sicilia” e col fratello Salvatore creò una raccolta, “Opuscoli di autori siciliani”, che dal 1788 prese il nome di “Nuova raccolta di autori siciliani”.


Bibliografia

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino - il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2010: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato