Le Pagine di Storia

Il mare della Cina

Quando la flotta imperiale, un’armata multiculturale, si fermò alle porte d'Europa

 

Seicento anni fa, salparono da Nanchino oltre duecento navi: bastimenti militari, vascelli per la ricerca scientifica, giunche mercantili. Un’armata invincibile di quasi trentamila uomini che allargò il proprio dominio dalla Corea al Giappone, dall'India all’Africa. Una potenza enorme che non fece rotta sul Mediterraneo, scoraggiata dal bottino scarso che vi avrebbe trovato.

Il mare della Cina

di Federico Rampini (1)

Seicento anni fa salpava dalla capitale imperiale di Nanchino una flotta di 208 navi fra ammiraglie, bastimenti militari, vascelli per la ricerca scientifica, grandi giunche mercantili per il trasporto di truppe e di cavalli, di sete preziose e di acqua potabile. Era una invincibile armada con 28mila uomini a bordo, che secondo l'esperta di storia navale Louise Levathes non fu eguagliata nei secoli successivi neppure dagli spagnoli o dagli inglesi all'apice della loro potenza. Solo nella prima guerra mondiale gli oceani avrebbero rivisto un simile dispiegamento di forze. Dal 1405 al 1433 quella "flotta dei tesori" effettuò sette memorabili spedizioni, che dalla Cina la portarono a esplorare e colonizzare i paesi affacciati sull'Oceano Indiano, l'Africa orientale, il Golfo persico e i confini meridionali dell'Egitto.

I cinesi sapevano molte cose sull'Europa ma a causa del suo basso livello di sviluppo non ne erano attratti; non si spinsero fino alle rive del Mediterraneo perché sapevano di trovarvi solo lana, vino e poco altro che volessero comprare. In un'epoca in cui una parte dell'Europa doveva ancora uscire dall'arretratezza del Medioevo, e le repubbliche marinare italiane erano troppo piccole per competere con lei, la Cina era l'unica superpotenza mondiale. L'autorità del suo imperatore Zhu Di - che si faceva chiamare Yongle cioè "gioia eterna" - si estendeva sui mari dalla Corea al Giappone, dall'India all'Indonesia, dal Kenya a Aden.

Sarebbe bastato poco perché i cinesi colonizzassero 1 Europa, cambiando il corso della storia. Non lo fecero, e un secolo dopo furono Cristoforo Colombo e i conquistadores a esportare il dominio dell'uomo bianco nel resto del mondo. Ma l'epopea delle spedizioni navali cinesi - ignorata dai nostri manuali di storia eurocentrici e riscoperta solo di recente da alcuni studiosi come la Levathes - è piena di sorprese. Viene ribaltata l'opinione tradizionale che abbiamo avuto sulla Cina di allora. La credevamo una nazione ricca ma ripiegata su se stessa, orgogliosa e indifferente verso il resto del mondo. Tutto errato, come è falso lo stereotipo secondo cui la Cina anche al suo apogeo fu sempre e soltanto una potenza militare terrestre. Al contrario, l'imperatore Zhu Di volle lanciare le sue flotte alla conquista degli oceani, perché era un neoliberista ante-litteram. Ripudiando la saggezza convenzionale della scuola confuciana, ancora convinta che l'unica fonte di ricchezza e di stabilità fosse l'agricoltura, Yongle incoraggiò invece i mercanti e gli scambi internazionali. Con una visione che oggi appare profetica, era convinto che la Cina aveva tutto da guadagnare dalle esportazioni. «Ora gli abitanti dei quattro mari siano una famiglia sola - decretò l'imperatore della dinastia Ming - che fiorisca il commercio alle nostre frontiere, e dai paesi lontani gli stranieri siano benvenuti fra noi».

Singolare fu anche il protagonista dell'apoteosi navale cinese, Zheng He. Promosso grande ammiraglio all’età di 34 anni dopo essere stato un brillante generale dell'esercito, era un eunuco, castrato da bambino per entrare al servizio dell'imperatore. Nella gerarchia del potere cinese gli eunuchi ricoprivano funzioni cruciali. Lungi dall'essere soltanto i guardiani delle concubine, erano i consiglieri dei sovrani per il protocollo, le finanze della casa reale e la gestione del personale. Ma perfino per le consuetudini cinesi era rarissimo che un eunuco arrivasse a eccellere nell'arte della guerra come Zheng He. L'ammiraglio aveva un'altra peculiarità: era musulmano, a testimonianza di un'epoca in cui la Cina era un crogiuolo etnico-religioso e un modello di tolleranza. All'inizio del XV secolo nella sola capitale Nanchino erano censiti più di centomila fedeli dell'Islam.

L'ammiraglio Zheng He

La grande flotta che salpò nel 1405 era l'ultima erede di una straordinaria tradizione navale cinese, quasi certamente la più antica nella storia dell'umanità. Molto prima dei fenici, e molto prima che gli antichi greci colonizzassero Creta, già 50mila anni fa gli indigeni della Cina meridionale - le popolazioni Yi - furono i primi "boat people" di cui vi sia traccia sulla terra. Sulle loro scialuppe di bambù migrarono in tutti i mari del Sud fino a popolare Giava, la Nuova Guinea e probabilmente l'Australia. Gli archeologi considerano seriamente anche la possibilità che dei navigatori partiti dalla Cina abbiano attraversato il Pacifico influenzando le civiltà pre-colombiane in Messico. La scrittura, il calendario, la scultura dei Maya presentano somiglianze sconcertanti con le tradizioni dei cinesi e di altri popoli buddisti dell'Asia.

Gli exploit marittimi furono consentiti anche dall'antica superiorità cinese nella scienza e nelle sue applicazioni. Mille anni prima di Copernico e Galileo l'astronomo Zhang Heng aveva stabilito con certezza che la terra è rotonda. Dal sestante alla polvere da sparo, tutte le tecnologie decisive per le esplorazioni e per i combattimenti navale videro la luce in Cina con diversi secoli d'anticipo sull'Europa. Quando Marco Polo arrivò alla corte del Khublai Khan nel 1275, i cinesi avevano già sottratto da tempo agli arabi la supremazia nella marina mercantile sulle rotte tra l'Africa e l'Asia. Nel porto di Quanzhou sulla costa del Fujian Marco Polo scoprì giunche gigantesche usate per sfidare gli oceani: avevano almeno quattro alberi, sessanta cabine individuali per i passeggeri di riguardo (i mercanti), trecento membri di equipaggio e perfino dei giardini pensili a bordo. Una sola di quelle giunche cinesi avrebbe potuto contenere la Nina, la Pinta e la Santa Maria (le tre caravelle di Colombo) tutte insieme.

Quando nel 1403 Yongle diede l'ordine di costruire le nuove flotte imperiali, lanciò uno dei più ambiziosi programmi di opere pubbliche, quasi paragonabile all'edificazione della Grande Muraglia. Ogni provincia dell'impero forni il suo contributo all'assemblaggio di 1.681 fra navi mercantili, militari e logistiche. Fu sfruttata ampiamente la tecnica dei "cantieri a secco", che gli inglesi avrebbero scoperto solo alla fine del secolo. La maggior parte delle navi avevano quattro ponti e una avanzatissima stiva di stabilizzazione con terra e pietre; catapulte incendiarie e cannoni con polvere da sparo; prue rinforzate capaci di resistere all'urto delle barriere coralline. Le ammiraglie arrivavano a 146 metri di lunghézza e 60 di larghezza: tuttora fra le più grandi navi di legno mai costruite nella storia.

Lo scrittore Lou Maotang nel XVI secolo ha redatto la più dettagliata cronaca delle spedizioni navali dei Ming, e le sue descrizioni sono considerate una miniera di notizie dagli storici occidentali. Le grandi "navi del tesoro" - quelle riservate ai comandanti e ai carichi più pregiati di merci per l'esportazione - avevano otto alberi, lussuosi saloni di rappresentanza, ponti coperti con eleganti balconate e ringhiere. Nei tesori caricati in stiva figuravano le porcellane Ming delle manifatture imperiali, e tappezzerie di seta kesi della densità di 24 fibre a centimetro (le tappezzerie francesi dei Gobelin arrivavano a un massimo di 11). A bordo delle ammiraglie viaggiavano squadre di astronomi, meteorologi, medici, farmacisti e botanici, e anche «insegnanti capaci di leggere libri stranieri», cioè traduttori e interpreti versati soprattutto nell'arabo e nel persiano, lingue franche delle rotte navali. Ogni nave militare possedeva 24 cannoni di bronzo in grado di sparare granate esplosive, armamenti che nessuno era in grado di eguagliare a quei tempi. Grazie all'indiscussa superiorità militare della Cina la funzione di quelle armi era soprattutto dissuasiva. L'ammiraglio Zheng He ebbe raramente bisogno di combattere, né aveva per missione l'annessione pura e semplice di terre straniere: non era necessario. Fece alcune operazioni di polizia internazionale, ripulendo i mari dai pirati, o scaramucce brevi con vassalli riottosi in Giappone. Erano episodi minori in una "pax cinese" che regnava incontrastata. Perché dalla Corea a Calcutta, dalla Somalia alla Tanzania i sovrani locali esibivano rispetto e sottomissione verso la dinastia Ming.

Ancora ai nostri giorni sulle coste del Kenya abitano famiglie di mulatti africani che si definiscono «dalla faccia rotonda» e sostengono di essere i lontani discendenti dei marinai cinesi della flotta del tesoro. L'armada navale comandata da Zheng He era cosi vasta che a più riprese, nel corso delle sette grandi spedizioni, si suddivise in più flotte con destinazioni diverse. Oggi alcuni ricercatori (tra cui l'esperto navale britannico Gavin Menzies) sostengono di aver trovato le prove che una di queste missioni secondarie sfociò nella scoperta dell'America da parte degli esploratori Ming settant'anni prima di Colombo, ma questa tesi rimane controversa.

Nel 1433, nel corso della settima ed ultima spedizione da lui comandata, Zheng He si ammalò e morì in mezzo all'Oceano Indiano. Aveva 62 anni. Negli ultimi 28 aveva percorso 50mila chilometri e visitato 37 paesi. Il rito funebre fu semplice. Nella tradizione islamica il suo corpo fu lavato e avvolto in un tessuto bianco. Mentre i musulmani a bordo cantavano e pregavano «Allah è grande», la salma scivolò in mare, con la testa rivolta verso la Mecca.

Il destino volle che la morte dell'eunuco ammiraglio coincidesse con una svolta politica dalle conseguenze profonde. Minacciati dalle pericolose incursioni delle orde a cavallo di mongoli e tartari, i Ming furono costretti a una revisione strategica radicale. Spostarono la capitale da Nanchino a Pechino, città situata molto più a Nord e senza sbocchi sul mare. La potenza navale non era più una priorità militare. Di colpo la difesa della Cinesi giocava sulla terraferma. La svolta strategica si accentuò fino al XVII e XVIII secolo sotto la dinastia Qing: l'impero lanciò campagne di conquiste terrestri che ingigantirono la sua estensione incorporando gli sconfinati territori del Tibet, Xinjiang, Mongolia, Manciuria. Quella espansione continentale allargò le frontiere a dismisura, fino a disegnare le dimensioni della Cina odierna.

La morte di Zheng He segna uno spartiacque simbolico, tra la storia che poteva essere e quella che è stata davvero. La Cina si ritirò dai mari proprio quando le nascenti potenze europee osavano affacciarsi sempre più lontano dal Mediterraneo. Eccitati anche dai racconti di Marco Polo i grandi navigatori italiani, spagnoli e portoghesi esploravano nuove rotte. Il missionario Juan Gonzalez de Mendoza, autore di una delle prime storie occidentali della Cina, nel 1585 ammoniva i sovrani europei a seguire l'esempio dei Ming: «Mentre erano occupati in conquiste straniere, i tartari e altri vicini li invasero facendo gran danno. Perciò essi impararono per la loro quiete e profitto a lasciare in pace i paesi più lontani». Spagnoli e portoghesi, olandesi e inglesi non seguirono i consigli di Mendoza. La ritirata della potenza cinese dai mari del sud-est asiatico aprì nuovi spazi di conquista agli europei.

Un giorno i loro appetiti si sarebbero scatenati contro la stessa Cina, penetrando nei suoi territori e umiliando gli eredi di quell'imperatore che era stato a un passo dalla conquista del mondo.


Tratto da: Federico Rampini, La Domenica di Repubblica, 21 agosto 2005

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