Figlia di Fabrizio Colonna, l'eroe dell'Arte della Guerra di Machiavelli, la marchesina Vittoria aveva tre anni quando Ischia entrò nel suo destino: nel 1495 fu infatti promessa a Francesco Ferrante d'Avalos, castellano dell'isola e condottiero delle truppe imperiali di Carlo V.
La storiografia la ha riservato la categoria della bellezza corporea, della santità istituzionale, della poetica petrarchesca, permeandola però di una sorta di dubbio sistematico: gli elogi che lungo gli anni della Gran Marchesa andarono formulando poeti grandi, artisti e uomini politici rischiano di ottenebrare l’immagine storica, imprigionandola nella retorica. Vi ricorse anche l'Imperatore Carlo V, dopo la battaglia di Pavia vinta dal marito. Si disse dappertutto, in Italia e in Europa, che il primato della vita di Vittoria Colonna fosse l'etica della coscienza, che lei fosse l'Antigone cristiana.
Per tale ragione, Vittoria appare a volte mistificata, senza verità femminile. Invece, come osservò Benedetto Varchi, ella era "veramente donna", e nella sua vita Ischia rivestì un ruolo di crocevia verso tre direzioni: la politica, la religiosità, la letteratura.
Con la dimora di Vittoria la storia culturale dell'isola entra in un evidente mutamento. Il castello, militarmente glorioso, non è più aragonese, bensì "della Marchesa di Pescara", così come la torre antistante non si chiamerà più Guevara, ma "di Michelangelo" sospinto dall'amore, secondo la leggenda, a dimorarvi per intravederla almeno.
Era approdata ad Ischia il 27 dicembre del 1509, giorno delle nozze, descritte come evento memorabile negli annali dell'isola. Vittoria stessa narra che, nate dalla ragion di Stato, si erano compiute nel convincimento d'amore. Tuttavia furono infelici. Narra anche, pur sotto veli poetici, che si negava al marito Francesco Ferrante d'Avalos, che sarà generale in capo dell'armata imperiale in Italia. Ne hanno desunto che Vittoria, la poetessa dell'eros umano e della charitas divina, fosse donna frigida.
In realtà i sonetti ischitani appaiono laboratorio retorico-petrarchesco nelle loro ipotiposi emotive, ma anche stoica angoscia per le illusioni cadute sui progetti.
Nel quadro, scoperto di recente ad Ischia, Vittoria appare bionda e bella. Era bionda, ma anche colta. Aveva pure forte disposizione alla danza.
Era uscita dalla grande prova del 1512, quando Ferrante venne raccolto ferito in mezzo ai proverbiali cumuli di morti della battaglia di Ravenna. Però mentre ella passava disperata "da altare ad altare" per la salvezza del marito, come informa un testimone, lui nella prigionia dorata di Ferrara intrecciava amori e versi.
Ma da quella sciagura nacque la poesia di Vittoria e il suo neostoicismo. Stese un'elegia di tono ovidiano e di pensieri più affini a Seneca e Epitteto che alla teologia cristiana. In coerenza un contemporaneo artista la colse in ginocchio davanti alla Madonna delle Grazie insieme con la gloriosa zia Costanza d'Avalos, l'eroina della monarchia aragonese, cantata come Sibilla d'Ischia per la sua saggezza.
In effetti, come si legge in un bel libro di Croce, l'autoesilio della signora avvenne dopo una sua presa di posizione in favore dell'eresia Valdese (una forma di cripto protestantesimo iniziata da un prete calabrese e che trovò molti estimatori a Napoli) che la rese sospetta.
Segno maggiore della sua "guerra intima" sono i versi del Canzoniere del sole, come lo chiameranno, ma lei lo definiva dell'affanno. Quando lascerà l'isola comporrà quello religioso, che sarà una rivoluzione di stile e di pensiero: lo definiranno il Petrarca religioso. In quello ischitano vige il lessico degli stoici, con il predominio di fortuna e delle varianti di fato stella sorte. Che Vittoria persistesse nel neostoicismo si rileva dai suoi scritti e dal suo costume etico, evidenziato in un episodio.
Avvenne durante la grande festa nel Palazzo Reale di Napoli dove nel 1536 Carlo V riceveva gli encomi dei signori del Regno e delle dame per la campagna di Tunisi. Giulia Gonzaga, cognata della Marchesa, si appartò chiusa nel recente lutto vedovile. Vittoria, con il medesimo lutto, le spiegò che il proprio dolore non è argomento sufficiente per farlo ricadere sugli altri. E le diede l'esempio, prima danzando e cantando madrigali improvvisati su un liuto. Alla scena assistette il Vescovo di Montepeloso che la trasmise in una cronaca. Dopodiché Vittoria tornò al suo dolore, che era la prigione del letto senza sposo e del cuore senza slanci. Aveva tentato anche di farsi monaca, ma papa Clemente VII lo impedì.
La tragedia era iniziata ad Ischia, quando venne informata che il marito, aspirante alla corona di Napoli dopo la vittoria di Pavia, si andava disponendo alla congiura cosiddetta di Morone, tradendo Carlo V. Vittoria corse a persuaderlo alla lealtà. Ferrante non corrispondeva all'eroe della coscienza delineato nel dramma “La tentazione del Marchese di Pescara” di Ferdinand Meyer, né allo sposo fedele che Vittoria idealizzava nel canzoniere.
Tuttavia Vittoria l'amava, forse perché lo riteneva psicologicamente immaturo, un essere fermo all'adolescenza. Quando un messaggero le portò ad Ischia la notizia che era morente a Milano, ella corse a Napoli, e galoppò, come mirabilmente sapeva, verso Milano. A Viterbo la fermarono con la notizia della morte di Ferrante e svenuta cadde da cavallo.
Coprì la sua tragedia con la dignità della cortesia, fino al punto che persone di ingegno di studi di esperienza ascetica accorrevano al castello attratte dalla bellezza del suo essere, descritto come olimpico.
Ischia divenne l'isola della vedova, visitata da religiosi, poeti e politici. Nel castello la vita scorreva normale e nessuno poteva intuire il suo dolore, cieco più che misterioso, che non impediva a Vittoria di rivestire i panni della donna di Stato e della dama di società.
Il mondo era abbagliato dal castello di Ischia sempre animato da umanisti, da studiosi, da artisti. Vi erano giunte anche tele di Leonardo, la cui Gioconda si identifica con ogni probabilità in un signora di compagnia di Costanza e di Vittoria. La quale, vedova, si descriveva come uccello senza nido, con la mente ad un ginepro del castello, "quel bel ginepro" che nelle tempeste le richiamava la costanza degli stoici, senza tuttavia sottrarla alla voglia di morte.
Quando nel 1532 quarantenne lasciò per sempre l'isola assaporava una fede tutta fondata sull'ansia di espiare. Ma era matura per il recupero di sé, del mondo, della poesia. Svanisce quasi, nel nuovo Canzoniere, l'immagine di Ferrante: si sente sposa di un altro sole, che prima è Cristo poi Dio stesso.
A Roma rivide Michelangelo nel 1536, che la celebrò per nobiltà ed elevatezza di ideali. L’amore di Michelangelo (fu amore platonico ed epistolare, anche perchè Michelangelo era omosessuale), la religione e il cardinale Reginald Pole con il suo carisma la liberarono dalla malinconia. Continuò a scrivere sonetti e lettere fino al la fine.
Nel 1547, anno della morte di Vittoria, i napoletani si sollevarono contro l'istituzione di un tribunale inquisitorio di carattere spagnolo come ci fu in Sicilia e riuscirono ad evitare al vicereame continentale gli scempi dell'inquisizione di Torquemada.
Rimase il Santo Uffizio che aveva ben altre procedure e non si affidava mai a laici per le delazioni, ma perseguiva personalità di maggior rilievo che esprimevano dottrine eterodosse rispetto al dogma vaticano. Non così in Sicilia dove, il volersi ritenere un territorio staccato dal vicereame continentale le valse l'insediamento di un Inquisitore sotto il diretto controllo del Grande Inquisitore Spagnolo.
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