l’incanto
della vita dissepolta
Recensione di Nicola Lo Bianco
Anche il tempo, ormai compiuto di quell’epoca, ma soprattutto lo spazio
è la trama di questa straordinaria scrittura poetica, straordinaria
perché semplice, semplice perché priva di tutti gli artifici retorici
impliciti in ciò che definiamo poesia.
Una geografia, reale e metaforica, dei luoghi e dei paesaggi, degli
animali e delle persone, tutti quanti insieme a condividere l’impervia
“trazzera” della vita: quella delle campagne del dopoguerra,
tutt’attorno a Vicinzinu, anche lui partecipe, che guarda, ascolta,
scopre.
Allora “caruso”, oggi Vincenzo Ognibene poeta e pittore, che fa
risorgere con la memoria dell’infanzia, l’umile grandezza di quel
villaggio.
Villaurea, piccolo borgo di contadini lungo la regia trazzera che da
Buonfornello arriva fino a Cerda e oltre.
Ai piedi delle Madonie, lungo le terre bagnate dal fiume Grande, cioè
dal fiume Himera, toponimo della città greca, la città di Stesicoro, il
poeta degli Inni agli eroi.
Da Villaurea, che i contadini chiamano col nome proprio del feudo “Signura”,
si distende il piano dove si trova il sito archeologico dell’antica
città.
Questa antichità, di nomi, di luoghi, di cose, ha a che fare con la
poesia di Ognibene, semplicemente perché il mondo di cui parla è
tramontato come quello di Stesicoro. Ci ha lasciato ruderi, frammenti,
tracce, modi secolari di vita e di lavoro, un’impronta di vera autentica
civiltà, quella della parola che corrisponde propriamente alla cosa, che
è essa stessa “cosa”, res, in greco pragma, non flatus vocis.
Ecco, a quei frammenti corrispondono questi frammenti poetici, il cui
fascino sta proprio nella sorprendente capacità di fare rivivere quella
realtà nominandola, riducendo cioè alla mera denominazione lo scarto tra
linguaggio e fatto.
Nessuna accensione nostalgica, nessuna movenza di canto elegiaco, eppure
versi e strofe vanno componendo una struggente metafora esistenziale,
della povertà, della fatica, della iniqua costrizione al feudo, ma
verace, dove il pane è pane, il dolore acquisto di conoscenza, e la
gioia è contentezza, non nevrastenico sfogo all’ emarginazione,
all’idiotismo sociale.
Dunque, vita dissepolta ha anche il senso di liberata dal cumulo di
detriti,, di macerie morali, dai “vermi di fumazzara” (p.29), dai vermi
del letamaio, del cosiddetto “progresso”: l’ammasso di conoscenze in
gran parte inutili e distorcenti, l’insignificanza della natura e degli
oggetti, l’“ignoranza emotiva”, l’intrinseca stoltezza della maniera di
vivere.
E’ come se il poeta riportasse alla luce l’essenza, la causa prima del
nostro stare su questa terra, simile alla ragion d’essere del “fiume
Grande”: il senso e il valore del lavoro, l’amicizia, l’amore, il
riposo, il piacere di un clarinetto e una chitarra, il gioco. Ma anche
la legge non scritta del più forte accompagnata pur sempre da principio
del “rispetto”, patrimonio di tutti e di ciascuno.
A noi che siamo immersi nella baraonda di un “ricchissimo nihil”
(Zanzotto), scoprire che i vari risvolti di quel modo di essere hanno
anima e matrice comune ci sorprende.
Scopriamo, o riscopriamo, che non c’è profilo di civiltà, quale che sia,
senza uno stile, e questo stile Vincenzo Ognibene riproduce nel
contenuto e nella forma.
Abbinirica donna mimidda!
Muli, cani, crapi e cristiani
turnavanu nzèmmula doppu
na iurnata di travagghiu
dda nna trazzera chi passava
davanti a casa di me nanna.
Al di là, o al di qua, della scienza, della storia, della presuntuosa
intelligenza, il poeta ha saputo cogliere, secondo il dettato di Ezra
Pound <ciò che ami rimani/il resto è scorie>, parole e immagini sepolte
nella nostra coscienza, nella nostra perduta fisica conoscenza della
natura.
Una specie di memoria poetica, che d’un sol colpo ridimensiona tutte le
pretensioni e i falsi splendori del nostro tempo.
Una voce che viene dal profondo e da lontano, che contraddice la
desolante costatazione di Gustav Jung, secondo cui <nessuna voce giunge
più all’uomo da pietre, piante, animali, né l’uomo si rivolge a loro
sicuro di venire ascoltato>.
La Villaurea Signura di Vincenzo Ognibene è un microcosmo, non
idilliaco, lo ribadiamo, ma integralmente umano, dove sussiste un
rapporto di interdipendenza e comunanza affettiva con l’ambiente, non
esclusi acque pianori montagne.
Una corrispondenza, un percepibile canto corale, a più voci, dove il
poeta è parte ed eco egli stesso, perché la memoria di quel tempo
potrebbe essere, e in tanta parte è, memoria di chi ha vissuto quei
luoghi.
Invero, Ognibene non inventa, propriamente non crea: persone,
situazioni, conoscenze, sono quelle di tutti, quelle che ciascuno di
loro potrebbe raccontare e, talora, racconta.
L’invenzione è nel trascegliere, e nella scelta degli scorci
esistenziali egli rivela la sua pregnante vena poetica.
Rivela che ha saputo ritrovare dentro di sé, e rappresentare, insieme
alla sua fanciullezza, la “perduta infanzia del mondo”.
L’“anima” di questa poesia, liberata dalle insopportabili vittimistiche
psicologie, sfrondata del trucco degli orpelli letterari, è quella che
potremmo definire di casta semplicità:
Patri di dda sutta, io nicareddu, lestu
t’acchianu u taianu di cavatuna ccu sucu
e mbriacatu du ciavuru
ti sentu o suli cantari.
…
…(p.44)
Nicola Lo Bianco |