Cent’anni fa, nel 1908, un sisma colpì la regione e
uccise oltre centomila persone. Ecco l’inedito racconto
di un medico testimone del sisma. Il boato, i soccorsi,
l’agonia dei moribondi. |
I terremoti lasciano tracce indelebili nella storia alterando per
sempre civiltà, economie, rapporti sociali, identità collettive.
Quando nel passato hanno colpito popoli e città evolute e
organizzate del Mediterraneo, i terremoti hanno cambiato il corso di
intere società: dall'esplosione di Santorini, a Pompei, al terremoto
dell'Italia meridionale del 1783 (la lista è molto lunga) e le
"ricostruzioni" non sono state mai guaritrici delle ferite ricevute.
Non è soltanto la morte a prendere il posto di quello che c'era
prima; c'è lo smarrimento e lo stupore dei sopravvissuti e dei
testimoni, l'assenza che risucchia, in chi si è salvato, la
percezione del tempo e persino il dolore fisico dei superstiti
feriti.
Questo avvenne nella livida alba del 28 dicembre 1908 a Reggio, a
Messina e lungo le coste a nord ed a sud di queste due città, per
decine di chilometri. Un cataclisma che uccise oltre centomila
persone.
Il 28 dicembre di cento anni or sono era uno dei giorni festosi
delle vacanze di Natale e possiamo immaginare le luci delle due
città, i teatri aperti (a Reggio, la sera del 27 era di scena
un'opera di Verdi), i caffè illuminati e la passeggiata sul Corso,
le signore con pelliccia e manicotti, i bambini felici.
All'improvviso, nel buio, alle 5 e 20, un boato che dura trenta
secondi e un risveglio dentro la morte, la polvere, le pareti, le
travi, i mobili sopra i letti schiacciati. La prima luce dell'alba
illumina il paesaggio del disastro.
Molte sono state le ricostruzioni storiche di quella tragedia che
colpiva un'Italia avviata a una fase di sviluppo economico e di
evoluzione democratica del sistema liberale. Presidente del
consiglio era in quell'anno Giovanni Giolitti ed il re, Vittorio
Emanuele III, era stato salutato come nuovo capo dello Stato otto
anni prima proprio a Reggio Calabria, dove era sbarcato il giorno
dopo l'assassinio del padre. Lo stretto di Messina, soprattutto dopo
l'apertura del canale di Suez, era attraversato dalle navi militari
e mercantili di tutti i paesi ed era ammirato come uno dei luoghi
più affascinanti del Mediterraneo.
E furono infatti navi russe e inglesi, oltre quelle della Marina
italiana, che in quell'alba tragica transitavano per lo Stretto o
erano alla fonda, a prestare i primi soccorsi alle due città ed a
salvare molte vite umane. I marinai, i medici e i chirurghi militari
sbarcati dalle navi fecero per ore e giorni l'impossibile. Purtroppo
le loro testimonianze sono scarse ma molto si sa dell'assistenza e
dell'aiuto da loro dato. Per questo mi pare di particolare interesse
pubblicare alcune pagine del diario inedito di un medico militare di
Reggio, Leonardo Carbone, che, sopravvissuto al crollo della casa,
svolse la sua opera umanitaria e scientifica che gli meritò la
medaglia d'oro al valore civile.
Devo all'amicizia del nipote, l'avvocato Domenico Carbone,
l'opportunità di ricordare l'impegno di un medico nel cataclisma che
a Reggio decapitò una borghesia colta e liberale - anche il sindaco
Demetrio Tripepi, deputato e amico di Giustino Fortunato, morì
insieme alla famiglia -, erede di tradizioni risorgimentali e
garibaldine e con aperture politiche alle nuove prospettive del
"decennio giolittiano".
Anche della Messina liberale, della sua antica Università, della
distruzione provocata dal sisma di opere d'arte (irreparabile la
perdita della celebre Palazzata secentesca) e delle moltissime
vittime resta il ricordo di testimoni illustri, da Giovanni Pascoli
a Gaetano Salvemini, che perdette nel disastro la moglie e cinque
figli. E resta anche il ricordo di alcuni giornali clericali che
videro il terremoto come il castigo di Dio per le colpe degli
anticlericali (siamo nel tempo antimodernista di Pio X).
Nel diario del dottor Carbone vi è il lucido racconto delle prime
ore, quando egli, da solo, tentò i primi soccorsi nei locali
lesionati e cadenti della "Difesa", il distretto della Marina
Militare:
“Io e la mia famiglia usciti all’aperto sentimmo grida altissime e
strazianti venire dalla città nel fragore dei palazzi che
crollavano. Era ancora buio e il freddo intenso. Pieno d'angoscia
pensai allo sterminato numero di vittime e compresi dovermi recare
presto alla Difesa dove potevo dare qualche aiuto. Attraversando
lunghissime macerie, rovine pericolosissime e larghi stagni per
esser rotta la conduttura d'acqua della città, giunsi alla Marina.
Ma che tragitto impressionante! Quanti domandavano soccorso
impigliati in mezzo a travi e macerie (...). Ma di quanti medici ci
sarebbe stato bisogno in quel giorno! Ma erano quasi tutti o morti o
feriti e gli ospedali distrutti. (...)”
“Circa 550 furono i feriti trasportai alla Difesa nelle prime trenta
ore. Quasi tutti i feriti presentavano estese contusioni escoriate
pel corpo per aver subito schiacciamenti in mezzo alle macerie. La
calcina e le pietruzze si internavano e aderivano alle carni in modo
dolorosissimo. I feriti arrivavano in condizioni gravissime, cioè
pallidi, incapaci di qualsiasi movimento e di risposte esaurienti.
(...)”.
“Una povera giovane con frattura del femore sinistro complicata
giunse in stato di stupore: era inutile ogni cura e non lo nascosi
alla madre che l'accompagnava. Questa senza lacrime mi disse: "Ho
perduto già altre figlie sotto le macerie". Quando la figlia morì la
madre mi domandò e io ottenni dal comandante che il cadavere fosse
separato dagli altri … “Se mi togliete questo conforto - essa diceva
- mi annegherò". (...) Una giovane donna con frattura complicata
alla gamba destra mi diceva di non voler morire solo per potere
rivedere un suo figlio a Venezia. Il console austriaco Fleres
trasportato su una sudicia scala presentava frattura complicata e
comminuta intracondiloidea del femore sinistro. Fu amputato dal
prof. Bastianelli, ma era già affetto da delirio e da setticemia per
la quale è morto dopo alcuni giorni. Un giovane signore bellissimo
di quasi venti anni era giunto in condizioni disperate per
gravissima emorragia, avendo il piede destro squarciato, la gamba
sinistra fratturata e ferite alle mani, al viso e al capo. (...)”
“Qualche ricca persona aveva fatto proposta di cure speciali dietro
lautissimi compensi, ma ho fatto comprendere quanto ignominioso era
un cenno simile in tanta sventura. E posso con sicura coscienza
affermare che tutti, poveri e ricchi, senza distinzioni di classi
sociali sono stati egualmente trattati e se vi fu preferenza essa
riguardava persone che ne avevano maggior bisogno.(...) La notte dal
28 al 29 specialmente è stata spaventevolmente tragica, notte
angosciosa, infinita, in mezzo agli infermi che domandavano
soccorso, mentre una pioggia gelata ci rendeva intirizziti e da
Messina si levava estesamente il fioco chiarore degli incendi e il
crepitio delle fiamme distruggitrici. (...) Cercavo di confortare
l'animo degli infermi dicendo che l'alba era vicina e con l'alba i
soccorsi sarebbero venuti da tutte le parti”.
“Venne l'alba finalmente, ma l'orizzonte ancora non mostrava le
desiderate navi. Verso le 8,30 apparve la squadra russa, mostratasi
poi eroica negli aiuti prestati, e alle 9 una nave inglese che mi
portava un aiuto di grandissimo valore. Alle 11.30 giungeva la
squadra italiana ed io mi recai sulla "R. Elena" a riferire e
ricevetti viveri e carne fresca che mi permisero di ristorare i
feriti. (...) Gli infermi si confortavano a vicenda e rapidamente si
erano formate intime amicizie specialmente fra donne, mentre vi era
una forma di dolorosa apatia per le perdite dei loro cari. Quante
persone, senza pianto, mi dicevano: "Ho perduto mia moglie e i miei
figli. Ho perduto i miei genitori e le mie sorelle..." E Si rimaneva
esterrefatti per questa angosciosa rassegnazione”.
“Il disastro avvenuto era talmente imprevedibile ed è stato così
straordinariamente esteso e terrificante che non può dare
sistematici insegnamenti. Quando la radio telegrafia sarà più
diffusa ed estesa, più celeri potranno essere i mezzi di aiuto da
inviare. (...)”
“Alle ore 9 del giorno 31 avemmo la visita di Sua Maestà la quale
rincorò molto gli infermi e il re partendo volle lasciare un grande
aiuto, il prof. Bastianelli il quale, da quel sommo maestro che è,
lavorò fino a sera, riprendendo il suo lavoro il mattino appresso di
buon'ora fino alle due pomeridiane, quando tutti gli infermi erano
trasportati sulle navi per esser trasferiti in altri luoghi di
cura”.
[1] Articolo tratto da La Repubblica, sabato 13 settembre 2008,
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