Questa biografia si limita alle
notizie reperite nelle pubblicazioni: “I Frati Minori Cappuccini
nella Lucania e nel Salernitano” di Padre Mariano da
Calitri del 1940, nell’indagine storica di Francesco
Azzopardi contenuta in “Collectania Francescana” del
1965, ne “L’Impegno Pastorale e Missionario: Roberto Novella da
Eboli” ed infine da estratti che ho fotocopiato
nell’Archivio di Stato di Milano da un Tomo di Giacomo Bosio
dove sono citate notevoli notizie del suo
impegno pastorale oltre alla descrizione del personaggio dal punto
di vista caratteriale ed all’eroico comportamento che Roberto da
Eboli dimostrò nella gloriosa campagna di Malta del 1565.
L’ordine dei Frati Minori Cappuccini nacque nei primi decenni del “Cinquecento”,
come riforma della grande famiglia francescana, con la bolla “Religiosis
Zelus” emanata nel 1528 da ClementeVII. Aveva come
motivazione l’osservanza della regola di San Francesco, la
povertà, la preghiera, l’austerità di vita, l’assistenza e
l’apostolato itinerante e popolare, l’amore per la natura e per gli
uomini. In poco tempo stese le sue radici su tutto il territorio
nazionale sebbene ad Eboli l’Ordine fu fondato nel 1558, molti
ebolitani ne facevano già parte, e, tra questi, Roberto Novella
che vi entrò intorno agli anni 1530-35 e, presumibilmente, fece il
suo tirocinio religioso nel convento potentino di Sant’Antonio la
Macchia, prima casa per novizi aperta dai cappuccini in Lucania
subito dopo la riforma. Per la città di Eboli, che gli diede i
natali, è tutt’oggi ancora uno sconosciuto ed ancor più sorprende,
che negli archivi monastici provinciali non sia neppure menzionato,
come se non fosse mai esistito, forse tutto ciò si può spiegare
perché trascorse la sua vita lontano dalla sua terra, prima nelle
perenni peregrinazioni di apostolato, in seguito la prigionia in
Libia, poi il comando nella difesa durante l’assedio turco di Malta
ed in ultimo le persecuzioni che ebbe a subire dai biechi pregiudizi
di una “inquisizione” pronta ad ascoltare calunnie e menzogne
da delatori improvvisati.
Non si sa con esattezza la sua
data di nascita, dalle affermazioni di Padre Mariano da Calitri
apprendiamo che nacque presumibilmente tra il 1510 e il 1520, perché
quando si trovò a capeggiare i difensori dell’isola a Malta contro i
mussulmani era il 1565 e non superava i cinquant’anni. Apparteneva
alla nobile famiglia Novella che dimorava ad Eboli in via
Atrizzi nello stabile cinquecentesco che attualmente, è ancora
esistente avendo subito lievi danni nel corso dei secoli successivi.
Da una sua lettera spedita il 15 novembre 1580 e diretta al duca di
Mantova Guglielmo Gonzaga, sappiamo che era ritornato ad
Eboli e con lui si trovavano la mamma, una sorella ed un fratello di
nome Lucio. Il Bosio lo descrive “dotato di
una grande personalità, con una mente vigorosa accoppiata ad una
intelligenza superiore alla norma con un’eccellente
preparazione biblica e teologica da farne un ricercato oratore.
Di carattere tenace, battagliero, ingenuo, impulsivo con scatti
improvvisi che spesso rasentavano l’imprudenza, difensore dei deboli
e degli oppressi, sempre pronto a far valere i suoi sani
principi e questo suo agire gli procurò una folta schiera di nemici
e tanti guai; in un periodo della sua vita si trovò tra
gli animatori che volevano la riforma della Chiesa tanto che
subì persecuzioni per poi essere ritenuto martire del libero
pensiero e vittima dell’Inquisizione”.
Nel girovagare per predicare il
Vangelo tra la gente arrivò nel 1553 a San Vito lo Capo, paese
siciliano del trapanese e, mentre si trovava su una spiaggia per il
suo impegno pastorale, si verificò l’incursione piratesca del nipote
del corsaro Dragut. In quel tempo le scorrerie dei pirati
islamici erano all’ordine del giorno nel Mediterraneo e specialmente
lungo le coste “joniche e tirreniche”, padre
Roberto fu catturato insieme ad altri e portato schiavo a
Tripoli dove subì le durissime condizioni carcerarie che i
mussulmani infliggevano agli “infedeli predicatori del
Vangelo”, egli solo con la sua fede ed il suo fascino
carismatico seppe diventare la speranza ed il punto di riferimento
di tutti i prigionieri che lo elessero portavoce e promossero una
raccolta di danaro per chiederne il riscatto e restituirgli la
libertà.
Era la fine del 1564, aveva
passato ben dodici anni nelle carceri libiche, con mezzi di fortuna
raggiunse la vicina Malta nei primi mesi dell’anno 1565 dove venne
accolto dal Gran Maestro Giovanni de La Valette, governante
dell’isola.
Un manoscritto conservato a
Malta, dice: “Questo Venerabile Religioso (…) essendo
stato schiavo in Tripoli di Barberia, non senza speciale divina
provvidenza, liberato dalla potestà di quei barberi, ed avuta
notizia dell’orribile Assedio di Malta, si ha procurato l’imbarco
addirittura per Malta, ove era giunto poco tempo avanti della venuta
dei Turchi”.
Fra Roberto
seppe in breve tempo guadagnarsi l’ammirazione e la stima dei
Cavalieri dell’Ordine di Malta e, con l’aiuto del vescovo
Domenico Cubelles, ebbe il permesso di soggiornare sull’isola
anche perché aveva informato i Cavalieri che i turchi stavano
preparando un assalto per conquistare l’isola, notizia certa avuta
durante la sua prigionia. In poco tempo fra Roberto seppe
organizzare la popolazione isolana per non trovarsi impreparata nel
momento dell’assedio, infatti, martedì 22 maggio 1565, l’orda
ottomana si presentò pronta allo sbarco. Il Bosio dice: “Dopo
una processione propiziatoria riunita la popolazione fece una dotta
ed eloquente predica, mostrando la gran forza e virtù dell’orazione
e massimamente di quella delle Quarant’hore fatta dinanzi al
Santissimo Sacramento dell’altare con la quale mosse a sì gran
fervore e devozione gli animi di tutti che in quella mattina istessa
se le diede principio”.
Intanto, la flotta mussulmana,
portato a termine lo sbarco di uomini ed armi di ogni genere, saggiò
subito con le numerose batterie il cannonéggiamento della
piazzaforte di Sant’Elmo situata sul promontorio ove oggi sorge la
città di La Valletta. I colpi dei cannoni e l’assalto dei pirati,
ben presto ridussero la fortezza ad un cumulo di macerie,
costringendo lo sparuto gruppo difensivo ad abbandonare quel
caposaldo ritirandosi nel Borgo per preparare una difesa migliore.
Ritornarono a Sant’Elmo il 9 giugno del 1565 accompagnati da
Melchiorre Montserrat e da fra Roberto il quale,
apprendiamo dal Bosio: “… per ergere, confermare e
ricreare gli animi di detti cavalieri con qualche consolatione
spirituale fece loro un sì devoto, efficace e accomodato sermone,
mostrando quanto vana, transitoria e di miserie sia questa vita
humana, e quanto aventurata, degna e gloriosa cosa sia il finirla in
servigio di Dio e il morire per Christo e per difesa della sua Santa
Fede(…). Tutti, dopo che devotamente si furono confessati e
comunicati- è sempre il Bosio che racconta- pareva che nulla
più questa vita non stimassero, e che di venir alle mani con
gl’infedeli ogn’hora mill’anni gli paresse. (…) E perché già
più non si potevan congregar ad udire sermoni per havere
continuamente i nemici alla punta delle picche loro in ogni parte
della fronte, gli andò il devoto e buon frate con un crocefisso in
mano che gli dava devotamente a basciare, tutti visitando e
confortando nelle proprie poste, dove era necessario che se ne
stessero in ginocchioni non potendosi alzar in piedi se non quando i
nemici assaltando facevano impeto per entrare”. Dopo
parecchie settimane d’assedio, il 23 giugno l’avamposto cadde in
mano turca, gli assediati si ritirarono a difesa del Borgo, dove
rinserrarono le fila nel forte di San Michele per rintuzzare
l’attacco ottomano che giunse il 15 luglio e l’orda islamica subì
gravi perdite senza riuscire ad aver ragione della strenua difesa
degli assediati. Dietro le barricate, fra Roberto con il suo
inseparabile crocefisso incitava i combattenti, sempre presente nei
posti più pericolosi e dove più c’era bisogno: tra i difensori delle
mura, tra i feriti dell’infermeria dell’Ordine al Borgo,
condividendo tutti i pericoli della cruenta battaglia, tanto che in
uno dei sanguinosi scontri rimase ferito e ne è rimasta
testimonianza scritta da Francesco Balbi da
Correggio.
Il 29 agosto fra Roberto
al cospetto del Gran Maestro e dei Cavalieri dell’Ordine disse di
aver avuto una visione durante le orazioni e di aver sentito una
voce che lo assicurava “che l’ira di Dio se era placata dietro
l’intercessione della Vergine Maria e dei Santi Protettori
dell’Ordine e dell’isola di Malta, Giovanni Battista e Paolo e che
le forze Cristiane sarebbero state vittoriose e il nemico avrebbe
lasciata definitivamente l’isola libera da ogni assedio”.
Infatti la forza turca,
decimata, batté in ritirata il 13 settembre del 1565 per far ritorno
sconfitta a Costantinopoli: l’assedio era durato quattro mesi, le
perdite erano state dolorose per entrambi gli schieramenti e toccò a
fra Roberto da Eboli, ancora convalescente, fare una
predica “ornata e copiosa” ascoltata da tutto il popolo in
lacrime.
Fra Roberto
ritenne compiuta la sua missione a Malta, dove aveva rifuso tutto il
suo spirito francescano, aveva voglia di rivedere la sua famiglia e
di ritornare alla vita conventuale che Malta non poteva offrirgli
essendo sprovvista di conventi. Salutati i tanti amici, il Gran
Maestro ed il Vescovo, fra Roberto partì per Napoli. Il suo
passaggio in questa città è provato da una lettera datata 29
novembre 1565. Nello stesso periodo soggiorna ad Eboli con la sua
famiglia che non vedeva dal tempo della sua cattura nel trapanese,
voleva riprendere la sua missione evangelica, ma ebbe l’amara
sorpresa da uno scritto del vicario generale cappuccino fra
Evangelista da Cannobio, il quale gli ingiungeva di
lasciare il saio, decisione presa in seguito a voci che circolavano
negli ambienti dell’Ordine cappuccino per il comportamento tenuto a
Malta che avrebbe dato luogo a “scandali et eccessi ”; era
accusato di aver ricevuto danaro versato alla propria famiglia e di
essersi fatto accompagnare da una donna di malaffare durante il
rientro in patria. Per tutelare il suo buon nome, fra Roberto
scrisse al vescovo di Malta, mons. Cubelles, per avere un
attestato della sua condotta a Malta con la seguente lettera
autografa:
Reverendissimo monsignor mio
padrone in Christo osservandissimo.
Se io havesse saputo che doveva correre tantii
infortunii et travagli in queste parti oltre quelli
ch’ho passati in Tripoli et in Malta non mai sarei
partito dalle falde di vostra signoria reverendissima.
Li travagli miei sono tali et tanti che non posso non
farne parte a lei acciò m’aiuti et rimedii a quelli col
suo favore, non però con altro che col vero.
Monsignor mio, vostra signoria reverendissima saperà che
venuto in Evoli ho trovato una lettera del reverendo
padre generale in cui si come credevo di trovare alcun
conforto de’ tanti miei affanni, trovai il colmo d’ogni
mia tribulatione, poi che in quella et in due altre mi
comanda che debba lasciar l’habito di cappuccino, perché
tiene aviso che in Malta io ho fatti molti scandali et
eccessi, né vuole ancor che da me pregato con lettere
lasciarme andar da lui, né intenderme in modo alcuno.
Tanto è che son stato astretto retirarme tra li padri di
Santa Maria di Giesù, cioè de’ zoccolanti.
Non so quando mai da superiore si usò tal giustitia,
condennare di tal sentenza un suddito senza admettere le
sue difese; io per me vivo in tal rammarico che se come
Iddio m’è testimonio non dispenso la mia vita in altro
che in sospiri et pianto, et in scrivere questa lettera
mi è stato bisogno con l’una mano tener la penna et con
l’altra sciugarmi gli occhi.
Supplico vostra signoria reverendissima che voglia
degnarsi per amor delle piaghe di quel Giesù che tanto
pietosamente ci ha liberati in quello assedio fare un
publico essamine della mia vita sinché so stato in
Malta; et se pure si truova alcun huomo o donna che di
me habia ricevuto scandalo io sarò contentissimo che si
sappia per tutto il mondo et ne sia punito più tosto in
questa che nel’altra vita.
Mi scrive il Padre che io ho avuti molti scudi in Malta
et che l’ho portati a’ miei parenti. Vostra signoria
reverendissima si degni anco deporre et informarsi se
alcuno mai m’ha dati altri danari eccetto quelli che lei
mi inviò a tempo della mia infermità. Si lamenta perchè
è venuta meco suor Giovanna monaca cappuccina, la qual,
come credo che vostra signoria reverendissima sa, è
venuta per complere il voto di andar a nostra Signora di
Loreto. In questo mi farà ancor gratia porre in carta se
costei è donna di sospetto o mala fama, et come credo
che lei sa quanto governo da madre mi fè nella mia
infermitade, et lei volse accompagnarsi con me per
venire più secura et honorata; adesso mi dicono per la
menor cosa ch’io ho menata meco una cortegiana.
In questo et in ogni altra cosa che mi oppongono chiamo
per testimonio Christo et tutta la corte del cielo, et
espetto che vostra signoria reverendissima mi favorisca
in mandarmi questa informatione o fede in atto pubblico,
o che sia in favore o disfavor mio con la verità, che
questo deseo et non altro; et vostra signoria
reverendissima sia certa che, sino a tanto che non habia
tal fede, io vivo una vita pur troppo dolorosa et
infelice. Potrà essendo servita inviarmila qua in Napoli
nel luogo de’Padri del osservanza, che si dice l’hospidaletto,
dove io sto per stanza, et sia certa che io gli restarò
obbligatissimo et da Nostro Signore ne riceverà mercede.
Ho già inviate le sue lettere in Roma; quanto al fatto
del vicario non ho potuto far cosa veruna perché con
questi travagli né so andato né penso così presto andare
in Salerno. La priego che perdoni alle cose del mondo,
quai corrono a questo modo et m’hanno impedito di
servirla come desideravo.
Et con ciò finisco e gli bascio humilmente le mani con
supplicar Nostro Signore che la serbi in sua gratia;
sempre me raccomando al signor Pietro, al signor donno
Andrea et al signor don Giuseppe.
Di Napoli, li 29 novembre del 1xv (1565)
Di vostra signoria reverendissima humil servo in Cristo
Fra Rubberto da Evoli.
(Sul retro) “Al
reverendissimo monsignor vescovo di Malta suo padrone in
cristo osservandis-simo. Subbito subbito, Malta. |
Il vescovo di Malta,
Domenico Cubelles, non tardò a dare risposta per testimoniare e
per difendere l’amico fra Roberto con una lettera del 7-9
gennaio 1566 “Die septimo mensis ianuarii 1566 a Nativitate
Domini”, nella quale dichiarò di conoscere l’accusato fin dal
giorno del suo arrivo e di averlo presentato al Gran Maestro, di
averlo incaricato di tenere gli esercizi spirituali cattolici sia ai
Cavalieri dell’Ordine, sia al popolo nella chiesa del Borgo.
Aggiunse, inoltre, di aver sempre visto in fra Roberto “un
bon religioso et homo di buonissima vita et fama, senza mai haver
dato scandalo alcuno de’ fatti soi a persona nata”,
descrivendone lo spirito religioso che aveva manifestato durante
tutto l’assedio e dichiarando non veritiera l’accusa mossa ed
affermando che il denaro dato al frate proveniva dalla curia ed era
appena sufficiente al suo sostentamento. Non mancò di dare
spiegazioni sulla donna di malaffare che lo avrebbe accompagnato nel
rientro in Italia, si trattava della cappuccina “soro Ioanna
monica scapucina per donna virtuosa et bona religiosa,
et non intese parola mala alcuna dire di questa
religiosa”, rimarcando che né lui, né il Gran Maestro, né altre
persone avevano notato alcunché di scandaloso in tale compagnia.
Alle dichiarazioni del vescovo tre giorni dopo, 12 gennaio, si
aggiunsero quelle del gran maestro Fra Giovanni de La
Valette e di altri dodici venerabili Cavalieri a discolpa totale
del loro confratello che eroicamente aveva contribuito a non far
cadere in mano infedele la loro amata patria. “Come il rev. Padre
fra Roberto de Evoli dell’Ordine de’ Capoccini ha predicato
qui in Malta nella nostra Chiesa conventuale per tutto il spatio
della quadragesima ultima passata, con buona, christiana,
salutifera, canonica et ecclesiastica dottrina, et con ogni virtuoso
essempio et morigerata vita; et non solamente questo, ma ancora nel
passato longo assedio dell’armata turchesca, dal principio insin al
fine di quello, tanto dentro quanto fuori di questa città et
fortalezza di San Michele, senza spargnar in modo alcuno sua persona
et vita propria in tutti gli assalti, continuamente con ‘l crucifixo
da una et l’arme da un’altra mano, con franchezza d’animo et
christinesche instruttioni et conse animando gli altri al medesimo,
ha contra turchi molto animosamente combattuto et fatto tutto quel
che ad uno perfetto defensoree de la fé christiana debitamente si
conviene. La onde noi, mossi da tante sue buone operationi, havemo
voluto fargli senza altra istantia benignamente le presenti aciochè
il tutto ad ognun un sia in ogni luogo et tempo manifesto et chiaro.
Datum Melitae in conventu nostro die duodecima mensis Ianuarii MDLXV
ab incarnatione.
Firmato La Valette gran maestro di Malta seguita da altre
dichiarazioni di dodici fra cavalieri e uomini di rango.
Non si sa quale sia stato
l’esito delle dichiarazioni, resta prova del suo comportamento
evangelico irreprensibile che quei documenti forniscono a discolpa
dalle accuse infamanti salvando l’onore dell’eroico frate ebolitano.
Tuttavia rimase inspiegabile il silenzio e la rottura sopraggiunta a
breve con il mondo Cappuccino, frattura insanabile, dovuta al suo
irruente temperamento e, forse al passaggio di Roberto da Eboli
dall’Ordine dei minori cappuccini a quello degli osservanti.
Nel gennaio del 1568, fra
Roberto fu mandato come predicatore dai superiori a Mantova. La
città lombarda era passata dallo stato comunale del medioevo allo
stato signorile rinascimentale: la famiglia Gonzaga ne
deteneva il potere fin da quando Ercole era diventato, nel
1540, marchese del Monferrato. Dal 1550 governava la città il
terzo Duca Guglielmo insieme alla moglie Eleonora
D’Asburgo, figlia dell’Imperatore Ferdinando I, dimorando
in uno splendido palazzo circondati da maestri di tutte le
discipline artistiche. Fra Roberto seppe crearsi il suo
spazio tanto da entrare ben presto nelle grazie del Duca. In
città, con l’apporto di nuove culture, s’erano accentuate le
dottrine eretiche “luterane e calviniste” e, ben presto,
giunsero le persecuzioni dell’Inquisizione, guidata dal
Domenicano Camillo Campeggio, che fece arrestare,
imprigionare e torturare cittadini di ogni ceto senza interpellare
il Duca, seguivano processi sommari, su sospetto o denuncia
di anonimi delatori, che, il più delle volte, infliggevano
l’impiccagione. Fra Roberto nel febbraio del 1568, nella
chiesa di Santa Barbara, osò denunciare dal pergamo la
crudeltà dell’Inquisizione definendo il Campeggio “Sognatore
esemplare di eretici in una città sotto il dominio di un Duca
curatissimo della religione”
ed alla minaccia di non giudicare più
l’operato degli inquisitori, dal pulpito della chiesa di San
Domenico mostrò tutta la sua indignazione per l’operato
inquisitorio anticristiano. La reazione fu immediata: Fra Roberto
venne arrestato a Piacenza il 6 marzo 1568 e su richiesta di papa
Pio V fu condotto a Roma e chiuso nel carcere di Tor di Nona.
A nulla valsero le proteste del Duca Guglielmo per
tentarne la scarcerazione, l’unica concessione gli risparmiò il
carcere duro e fu rinchiuso in una piccola cella con un’apertura
posta nel tetto. All’interrogatorio del 25 marzo del 1569 si
presentò firmando “Fr. Robertus Novella de Ebulo Ordinis
Fratrum Minorum de Observantia”. Nel carcere Fra Roberto
conosce Aonio Paleario umanista, filosofo e teologo che
durante il suo insegnamento per varie città d’Italia, fu a contatto
con i riformatori delle dottrine della Chiesa cattolica e
professandone la riforma l’autorità ecclesiale diventando ben presto
il bersaglio dell’Inquisizione che l’arrestò a Milano (1567)
e portato a Roma venne incarcerato in una cella probabilmente con
Fra Roberto. Scambiandosi le idee, avendo obiettivo comune e
stesso sentire, si attirarono il controllo dell’Inquisizione.
Il 15 marzo 1569 Roberto da Eboli presentò in tribunale
un’accusa di simonia contro Pio V che accusava di aver
offerto denaro ad un nipote del suo predecessore perché inducesse il
cardinale Carlo Borromeo a favorire la sua elezione al
soglio pontificio.
Il 18 maggio il Paleario
venne interrogato, confermando le accuse di Fra Roberto ne
aggiunse altre, ma, falliti i tentativi di farlo ritrattare, fu
condannato all’impiccagione ed il suo corpo bruciato il 3 luglio del
1570. Fra Roberto si trovava ancora recluso nella rocca di
Ostia e, si apprende dalle carte processuali del 18 marzo 1570,
che aveva ritrattato tutte le accuse per cui trascorse altri quattro
anni in carcere “murato in una camera senza veder altra
aria che per un buco sopra il tetto”.
Il 1 aprile 1574 Gregorio
XIII, successore di Pio V, emise la condanna definitiva
in carcere a vita, ma l’intervento di Guglielmo Duca di
Mantova il 29 aprile 1578 cambiò la pena e fra Roberto
tornò libero con l’ordine di dimorare nel convento dei Frati Minori
Osservanti in Santa Maria in Aracoeli avendo il permesso di
uscirne due volte all’anno: una per far visita alle sette chiese e
l’altra nel giorno della commemorazione dei defunti. Ottenne la
libertà definitiva verso la fine del 1580 con il permesso di far
ritorno nei suoi luoghi d’origine. A casa trovò la famiglia in
condizioni di assoluta povertà ed il 15 dicembre dello stesso anno,
da Potenza scrive un’accorata lettera di aiuto al Duca
Guglielmo.
“Serenissimo signor,
unico mio refugio et speranza.
Se vorrò dire il vero all’altezza vostra, più cordoglio
che allegrezza è stata al cuor mio la libertà resami
doppo dodeci anni, poiché per la morte succeduta, in
quel mezzo, del mio povero padre, ho trovato in casa mia
madre vecchia et povera, et quel che è peggio una
sorella grande, nubile et poverissima, et io quel tempo
che l’arei havuto a faticarmi per porla ad honore l’ho
consumato in pregione, tal che in caso di tanta calamità
non so dove voltarmi, salvo che alle benignissime gratie
di vostra altezza, la qual supplico per quelle piaghe
che nostro Signore sostenne per noi et per pietà di
quella pregione che per servir lei et la sua Mantua ho
sostenuto, che si degni dar soccorso a tanta infelicità
mia, acciò con l’aiuto suo, collocando questa sorella,
et lei ne riporti mercè di Dio, il mondo conosca quanto
bene io impiegai la servitù mia con un re benignissimo
a’ suoi servidori, et io possa, sciolto da ogni
pensiero, attendere con maggior quiete a supplicar
nostro Signore per la felicità di sua altezza et di
tutta la serenissima casa sua.
Mi sarà anco gratia et favor singolarissimo se si
degnerà farmi gratia d’una lettera all’eccellenza del
signor don Cesare,
acciò l’anno seguente
concedesse l’ufficio di San Severino al magnifico Lucio
Novella da Evoli, mio fratello et schiavo di vostra
altezza, acciò così con honorate fatiche et ufficii,
alli quali egli è attivissimo, possa, servendo a quella
serenissima casa per cui semo prontissimi tutti a porre
la vita, acquistar il pane alla povera sua famiglia.
Non spiaccia all’altezza vostra serenissima, signor mio,
dar questo aiuto a me poveretto devotissimo suo
servidore, che con questa speranza io vivo et tutti di
casa mia; potrà dell’uno et dell’altro farmi gratia col
mezzo di monsignor illustrissimo Gonzaga mio signore.
Con questo gli bacio con reverenza il piede e gli
supplico da nostro Signore ogni bene.
Di Potenza, a’ 15 di decembre del’80.
Di vostra altezza
Devotissimo servidore
Fra Rubberto Novella da Evoli
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Questa lettera è l’ultima
traccia lasciata da questo straordinario uomo di fede, in un secolo
che conobbe solo guerre e persecuzioni dottrinali “Fra Roberto
fece la sua parte che noi non presumiamo giudicare. Certo è che il
suo nome non può e non devess’ere dimenticato”.
Con molta probabilità morì ad
Eboli che ancora non ricorda il suo nome, potrebbe dedicargli una
via, magari la strada dove esiste ancora la casa che gli diede i
natali.
Mi auguro che questa ennesima
richiesta venga finalmente accolta dai governanti della nostra
città.
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Mariano Pastore |
Pubblicazione de "Il Portale del Sud", febbraio 2012
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