1971: Neoavanguardie a Palermo
recensione di Lucio Zinna
Vittorio Riera raccoglie in un fine quaderno due interviste, a Pietro
Terminelli e a Salvatore Di Marco, apparse il 18 e il 25 maggio del 1971
sulla terza pagina del settimanale “Trapani Nuova” (allora curata da Nat
Scammacca): due autori facenti parte, il primo dell’Antigruppo, il
secondo della rivista letteraria “Fasis” attorno alla quale si
raccoglievano alcuni esponenti del Gruppo 63 palermitano. I due gruppi,
di formazione marxista, erano su posizioni contrapposte.
Opportuna appare l’idea di Riera di ripubblicare questi testi, in quanto
documenti, benché parziali, di quel convulso periodo. Utile rileggerli,
se non altro per confermare quel che nella nostra memoria si era andato,
in questi decenni, stratificando, in relazione a quella temperie. Lucide
e gustose le pagine del prefatore, Nicola Lo Bianco, un po’ divertito un
po’ coinvolto nel suo assistere alla diatriba attraverso lo schermo
degli anni trascorsi, più o meno alla stregua dell’intervistatore (“sornianamente
coinvolto”, dice Lo Bianco), con le sue sollecitanti domande,
sottilmente e vanamente desiderose di un ‘incontro’.
Lo Bianco sintetizza egregiamente il clima di allora con i termini
“passione e ideologia”; al di fuori di tale ottica non sarebbe
possibile, oggi, comprendere i termini delle questioni allora dibattute.
Non potrebbero comprendersi, ad es., la ferrea convinzione di Terminelli
– che traspare dalla maggior parte della sua produzione letteraria – di
un’imminente, ineludibile rivoluzione comunista in Italia, né la sua
difesa a denti stretti di un’ortodossia marxista, con bordate degne di
alcuni storici inquisitori della Controriforma. Da qui il polemico
trasferimento di tali posizioni sul piano estetico. Tipica di Terminelli
fu la tendenza ad affermare sotterraneamente il principio secondo cui
uno scrittore più vicino all’ideologia marxista avesse maggior diritto a
considerarsi scrittore. Il marxismo nella sua radicalità si poneva per
lui come unico termometro dell’arte, con aspri giudizi nei confronti di
chiunque egli ritenesse fuori da tali parametri.
E sarebbe stato vano obiettare che l’arte, per sua natura, procede per
la propria strada, sbircia le ideologie solo se e in quanto
contribuiscano a farla essere arte, in caso contrario privilegia i
propri parametri e non valuta un baiocco ideologie politiche o teorie
estetiche, seppure mirabolanti, in quanto le une e le altre, da sole,
ovvero senza la genialità dell’artista, non fanno, appunto, arte. Ma in
quel torno l’arte, da alcuni, veniva data per spacciata, ne era
considerato obsoleto lo stesso concetto. Gli autori de “la scuola di
Palermo” (Roberto Di Marco, fratello di Salvatore, Michele Perriera,
Gaetano Testa) erano, ad es., secondo Terminelli, da scartare, assieme
agli scrittori del Gruppo 63, in quanto, « le loro opere mancano di
questa ideologia ». Insomma, non erano neanche eretici del marxismo,
erano fuori (Sanguineti compreso). Afferma altresì che essi «
intersecano forme di squilibri freudiani » (?) in compromesso con
«strati dei politici della sinistra parlamentare». E dato che questa
sinistra era “parlamentare”, implicava che essi non fossero
sufficientemente né rivoluzionari né comunisti, dunque non considerabili
come scrittori. Un perfetto serpente mordicoda.
Conferma ancora, il documento, la tendenza di Terminelli a certi
“contorsionismi espressivi” (icastica espressione, che mutuiamo da Lo
Bianco), mimetizzati da una profluvie verbale. Esempio: «arrancando
[parla degli autori de “La scuola di Palermo”] dietro esperimenti
americani trasmessi per metempsicosi nell’ipnosi della vita esemplare
della sregolatezza», con riferimento esplicito a Sulla strada di
Kerouac. Cosa è una trasmissione per “metempsicosi”? E “l’ipnosi della
vita esemplare della sregolatezza”? E la “metempsicosi nell’ipnosi”? Si
riesce a comprendere cosa voglia dire, ma – vivaddio – che confusione!
Non era neanche vero che i maggiori esponenti del Gruppo (« i giganti
della neoavanguardia del Gruppo 63 », quelli di Palermo erano i nani),
si fossero “serviti” dei poeti e scrittori della beat generation
americana (sono citati, oltre Kerouac, Ferlinghetti e Borroughs), dato
che la neoavanguardia italiana tendeva al neoformalismo, con ripudio del
“messaggio”, compreso quello politico, mentre la neoavanguardia
americana puntava sul messaggio, a principiare da quello politico. In
quel contesto, furono a Palermo i giovani del Gruppo Beta (1965-1971),
che interagì dialetticamente, non pedissequamente, con il Gruppo 63, a
stigmatizzare, prima dell’Antigruppo, l’avventatezza di una
sperimentazione tutta pencolante sulla forma; fu questo Gruppo
satellite, che considerava la letteratura una “operazione sull’uomo”, a
sentirsi vicino alla beat generation, in quanto espressione di
una ricerca poetica in cui non si verificasse uno iato tra significato e
significante.
Ma torniamo al linguaggio terminelliano. Citiamo, sempre a proposito
degli esponenti del Gruppo 63: «I tempi lunghi (del piazzamento delle
loro opere) sono stati frustrati, svirilizzati e accorciati dalla
barella del dimenticatoio.» Bene la metafora: nel dimenticatoio si è
come in barella: né sul campo né in ospedale, in transito tra l’uno e
l’altro e anche tra vita e morte. Resta da considerare come potessero
quei “tempi” essere “accorciati” da una barella. E ancora: « Ritardata
consequenzialmente è la nuova formazione epigona (di vecchi e giovani),
un continuo-discontinuo dalle orecchie otturate al mondo circostante,
liete di potersi impinguire di un ozio tardo-romantico di estrazione
novecentesca con un io esasperato proprio per la natura fuorviante e
obbediente agli “ideali di falsa coscienza”.» Magnifiche davvero queste
“orecchie (otturate) liete di potersi impinguire” (di un “ozio
tardo-romantico” etc.)!
Orientato anch’esso su posizioni polemiche, appare più equilibrato il
discorso di Di Marco, il quale aveva sostenuto, in linea con il Gruppo
63, la concezione di uno scrittore « al di là dell’impegno e del
disimpegno » e da qui prende le mosse Riera nella sua intervista. Di
Marco precisa in che senso: «Quando io dico che lo scrittore deve oggi
collocarsi – almeno come disposizione mentale – al di là dell’impegno e
del disimpegno, penso in realtà di affermare una cosa semplice e cioè
che lo scrittore debba sentirsi impegnato a guadagnare e a difendere
quella sfera di autonomia della intelligenza, della immaginazione, del
gusto o, se vuoi, della coscienza, senza di che mi pare impossibile che
egli possa realizzarsi e come scrittore e come uomo.» Una posizione non
intransigente, sulla quale non sarebbe stato difficile convenire, ma che
era rifiutata secondo una logica conflittuale. E infatti Di Marco parava
il colpo, come si suol dire: «[…] mi pare assai sciocco il discorso di
chi distingue libertà che vengono prima da libertà che vengono dopo,
separate le libertà collettive da quelle individuali, le libertà sociali
da quelle professionali. Io ho sempre pensato che la libertà è tale
proprio perché, nel suo farsi, non tollera discriminazioni del genere.»
Appare evidente, nel corso dell’intervista, che Di Marco ambisse
l’approdo a un superamento (egli che si era, fino a pochi anni prima,
seriamente impegnato, a livello internazionale, su una possibilità di
dialogo tra cattolici e marxisti, ricercandone i punti di contatto), ma
avvertiva anche che tale logica risultava impraticabile dall’altro lato
della barricata e ne rimaneva come interiormente irritato, lasciandosi
lambire dal fuoco della conflittualità. Non esitava, in quel contesto, e
secondo il gioco al massacro praticato a livello nazionale, a
considerare lo scrittore e la letteratura quali «istituzioni malate di
un mondo borghese e conservatore già in disfacimento».
Un fuoco sacro parimenti alimentato, con diversi tizzoni. Alimentarlo
significava spegnere ogni altro focolaio. Ci riferiamo alla tendenza a
sminuire l’immagine di prestigiose figure del mondo letterario, uno
sport nazionale all’interno di tutte le neoavanguardie. Se ne trova
traccia anche in queste due interviste. Terminelli accenna a
«anchilosati ripristini dei soliti autori esauriti come il recente
Montale delle Sature», Di Marco parla delle «cadaveriche presenze
dei Moravia o dei Pasolini», mentre la letteratura siciliana tocca, con
Sciascia, «il suo più doloroso momento agonico». Insomma, tutti cadaveri
ambulanti, espressioni, per l’appunto, di un mondo borghese in
disfacimento.
Nessuno immaginava, allora, che tra questo mondo borghese in
disfacimento e quello sovietico, sole dell’avvenire, robustoso e forte,
polo di attrazione di tutti i marxisti rivoluzionari, dovesse essere, da
lì a pochi decenni, proprio il secondo a sfaldarsi. Nessuno avrebbe
potuto preconizzare che tra il ‘modello’ capitalistico, con le sue gravi
discrasie e le profonde ingiustizie su cui si reggeva e si regge, e
quello collettivistico, con le sue non meno gravi e diverse discrasie,
con altre sue ingiustizie divenute storiche, dovesse essere proprio
quest’ultimo ad ammainare bandiera, la “bandiera rossa che trionferà”
cantata da milioni di lavoratori nel mondo. Ammainata proprio sulle mura
del Cremlino, nella Piazza Rossa in cui sorge il mausoleo che conserva
le spoglie di Lenin, imbalsamate come la sua rivoluzione. Un regime che
si era abbaffato su se stesso «come un corpo marcio di scorbuto»,
espressione usata da Ippolito Nievo a proposito dell’ingloriosa fine
della Serenissima Repubblica di Venezia minacciata dalle armate
napoleoniche, ma qui, addirittura, senza nessuna armata che battesse
alle porte. Inimmaginabile lo sgretolamento del muro di Berlino come uno
scenario cinematografico in polistirolo espanso.
Altri tempi davvero. Perciò quei due documenti appaiono datati, come se
fossero trascorsi non quaranta ma quattrocento anni. I nostri tempi non
sono migliori. Non sono migliorati senza la deterrenza comunista (che
frenava, a tutela dei più deboli, l’arroganza capitalistica), né con il
transito dal capitalismo al neocapitalismo, in cui le leggi del mercato
valgono più della dignità del lavoro e della persona, con il prepotere
di una finanza aggressiva e spericolata (che qualcuno, spudoratamente,
chiama creativa!), che cerca di contendere il primato alla
politica, che nel Bel Paese va facendosi, a sua volta, sempre più
arruffona e onnivora. Una finanza, ancora, che persegue la logica,
portata agli estremi, del pesce grosso che mangia il pesce meno grosso e
tutti e due, nelle more, mangiano i pesci piccoli, protesa a smantellare
lo stato sociale, con lo stesso Stato che finge di ignorare che se non è
sociale non ha molta ragione d’essere. Non sono migliorati, i nostri
tempi, con altri insospettabili fascismi, con estremismi impensabili,
con il medievale rinfocolarsi di intransigenze religiose, e così via.
E con una letteratura che rischia di ridursi ai margini, in buona parte
soggetta alle esigenze di mercato, fatta per lo più di poeti
equilibristi e narratori di intrattenimento che mimano grandezze
inesistenti e tutti, anche i critici, fingono di non accorgersene, come
nella fiaba del Re Nudo.
Lucio Zinna
Vittorio Riera, Gruppo 63 e Antigruppo. Un frammento di memoria
rivoluzionaria, ILA Palma, Palermo, 2012, pp. 24, s.i.p. |