Come osserva il linguista G.I. Ascoli, il Franco
Provenzale è una varietà linguistica che riunisce
insieme, con alcuni suoi caratteri specifici, più
caratteri comuni al Francese ed al Provenzale.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, “non si
tratta di una tarda confluenza di elementi diversi, ma
bensì di un’attestazione di una lingua con una propria
indipendenza storica” tanto che ancora nel Novecento
gli studiosi di linguistica dividevano la Francia in tre
macro aree: quella caratterizzata dalla diffusione della
lingua d’Oil, quella della lingua d’Oc e quella del
Provenzale. Dal XIII secolo, Il Provenzale è parlato
anche nell’alto Tirreno cosentino e nel suo Entroterra,
essendo collegato a quella Comunità Valdese un tempo
molto più diffusa dell’attuale, che ancora oggi è
perfettamente riconosciuta intorno a Guardia Piemontese.
Sulla nascita di tale comunità Jean Paul Perrin, storico
e guida spirituale della stessa comunità vissuto nel
XVII secolo, osserva che gli stessi Valdesi
“trovarono in Calabria delle terre incolte e poco
popolate, ma fertilissime, come si poteva osservare da
quelle vicine. Vedendo, dunque, che la zona era buona a
produrre grano, vino, olio d’oliva e castagne e che
c’erano monti adatti a nutrire cavalli ed a produrre
legname, si rivolsero ai signori di quei luoghi per
trattare con essi delle condizioni per dimorare nelle
loro terre. Questi Signori – aggiunge il Perrin –
si stimarono felici di avere dei sudditi così buoni che
avevano reso le loro terre popolate e feconde di ogni
tipo di frutti, ma soprattutto perché era gente per
bene”.
Dal punto di vista religioso, gli stessi Valdesi erano i
seguaci di Pietro Valdo, una delle tante figure mistico
religiose che nel medioevo si era allontanata dal
kerigma cattolico e dalla Chiesa. Condannato il pensiero
valdese dal IV Concilio Veronese al tempo di Innocenzo
III, i suoi seguaci furono allontanati dalla propria
terra d’origine ed alcuni di essi trovano accoglienza
anche nella Calabria settentrionale.
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Guardia
Piemontese, la torre d'avvistamento |
La presenza valdese in Calabria andò avanti senza
problemi per alcuni secoli, almeno sino alla pace di
Cateau Cambresis del 3 aprile del 1559 con cui i Re di
Francia e di Spagna s’impegnarono a dividersi i propri
possessi in Italia, con l’appoggio del Papato,
interessato a sua volta a promuovere e favorire le
risposte alla “Riforma Protestante” approvate nel
Concilio di Trento indetto da Paolo III. Capita così che
il Vicereame spagnolo, fin dal
proprio arrivo nell’Italia meridionale, favorì
quella Controriforma che andò ben al di là dell’ambito
religioso nel Sud Italia, bloccando gli ultimi fermenti
di indipendenza politica e di rivolta morale;
affiancando e proteggendo i Baroni del tempo che
continuarono a spadroneggiare sulle popolazioni del
Regno partenopeo.
La feroce repressione dei Valdesi di Calabria ebbe il
proprio epilogo nella cosiddetta “Crociata del Querceto”
del maggio 1561 in cui furono numerosissimi i valdesi
che furono uccisi fra Guardia Piemontese, San Sisto,
Montalto Uffugo.
Fra gli antefatti della stessa Crociata, l’arrivo
dell’inquisitore piacentino Valerio Malvicino,
dell’Ordine domenicano, che arrivò l’11 novembre del
1560 su pressione di don Giovanni Anania cappellano dei
baroni Spinelli. Riconosciuta una vivace comunità
valdese, iniziò la repressione. Gli adulti furono
invitati ad abiurare la propria fede ed i bambini fin
dall’età di 5 anni furono obbligati a frequentare le
scuole catechetiche parrocchiali. Tutti i Valdesi,
inoltre, dovevano essere riconoscibili
dall’abbigliamento ed accettare di essere controllati
anche nelle proprie abitazioni. Negli stessi anni in cui
la violenza del Vicereame si fece forte anche contro
uomini ci cultura come Bernardino Telesio e Tommaso
Campanella, la “Crociata del Querceto” s’inserisce in
uno scenario di malcontento generalizzato, riconosciuto
anche dal viceré Pietro di Toledo che, in una propria
relazione inviata a Madrid nel 1526, collegava le
rivolte calabresi “ai tre malanni principali del
cattivo stato del Vicereame: estorsioni, vendita dei
pubblici uffici, al banditismo”.
Fra i banditi più celebri, quello che creò maggiori
problemi in Calabria al Vicereame spagnolo in Calabria
fu Marco Berardi nativo di San Sisto che per riuscì a
mettere sotto scacco a lungo l’esercito spagnolo,
autonominandosi re su un ampio territorio sull’altopiano
silano fra le provincie di Cosenza e Crotone.
Fuggito dalle carceri cosentine e trovato rifugio nei
boschi della Sila, dopo aver radunato un buon numero di
seguaci, nel 1562 il Berardi chiamato dai suoi seguaci
“re Marcone” iniziò a contestare il potere spagnolo. Nel
1563, con una milizia formata da 150 fuoriusciti, riuscì
ad occupare Cropani che nel 1562 era stata già razziata
da Turchi e decise di avviarsi verso Crotone dove
avrebbe voluto porre la capitale del proprio Regno.
Nella stessa città, il 16 agosto dello stesso anno, “re
Marcone” riuscì a sconfiggere un contingente di soldati
spagnoli guidato dal marchese di Cerchiara, Fabrizio
Pignatelli, che comunque assediata la città, riuscì a
disperdere lo stesso Berardi ed i suoi seguaci.
Leggendaria rimase la sua morte. Secondo alcuni scritti,
infatti, fu trovato morto insieme alla moglie Giuditta
in una grotta nei boschi della Sila, mentre secondo
altri fu sconfitto dallo stesso Pignatelli. Ciò che pare
certo che il suo corpo venne appeso in una gabbia di
ferro appesa al campanile della chiesa cosentina di San
Francesco di Cosenza dove i suoi resti sarebbero rimasti
sino al 1860, quando lo scheletro di “re Marcone” su
ordine di Garibaldi fu seppellito nelle cripte della
stessa chiesa.
Francesco Rizza |