In Europa sono le grandi
trasformazioni socio-economiche della seconda metà dell'Ottocento a
determinare quel processo di modernizzazione a cui ciascuno stato
interessato - e, nel nostro caso, l'Italia - risponde e la cui
espressione culturale è riconducibile al pensiero filosofico del
Positivismo, basato sulla piena fiducia nelle scienze oggettive o
«positive» e nel progresso economico da esse apportato.
Il dilatarsi degli interessi
nel campo scientifico, le varie scoperte, le nuove tecnologie
avanzate non sorgono casualmente, ma sono strettamente legati alla
struttura della moderna società capitalistica, la quale segue la
logica del profitto, le leggi dell'economia e dell'alta finanza, la
concretezza oggettiva del reale, tratto peculiare, quest'ultima, di
tale fase della cultura europea, l'età del Realismo, in cui viene
conferita primaria importanza ai dati oggettivi, alla realtà così
com'è.
Il progresso, però, come si è
potuto evincere da quanto finora detto, non investe tutti allo
stesso modo, per cui, di contro e al contempo, si assiste anche al
maturare di atteggiamenti contrastanti e rinneganti l'idea di
benessere e di miglioramento economico-sociale.
Alla luce di ciò, sul fronte
della produzione letteraria, il Naturalismo francese, diffuso
intorno alla metà dell’Ottocento, sembra pienamente rispondere a
tale complesso spirito del tempo. Nato, infatti, come espressione
ideologica della nuova organizzazione sociale e industriale della
borghesia in ascesa e, soprattutto, dello sviluppo della ricerca
scientifica, della quale viene assunto il modus operandi
nella composizione dei romanzi
, si fa anche mezzo
di denuncia sociale delle condizioni di povertà, miseria e degrado
fisico e morale in cui imperversano le fasce basse della società non
toccate dal progresso tecnologico-scientifico. Notevole è la lezione
del più importante rappresentante, Émile Zola, secondo la quale,
posto che leggi fisse e deterministiche regolano non solo la natura
ma anche i pensieri e i sentimenti, l'uomo, qualora riesca a
possedere le leggi generali del suo agire, potrebbe operare sulla
società e sull’ambiente per migliorarne le condizioni.
In Italia i fondamenti teorici
e la poetica del Naturalismo francese vengono rielaborati da due
intellettuali conservatori meridionali, Capuana e Verga, e
convertiti nella corrente del Verismo, la quale riprende
sostanzialmente gli stessi concetti promossi dai naturalisti,
assumendo però un carattere fortemente regionalistico e una maggiore
attenzione al mondo rurale.
Infatti, un diverso contesto
storico-sociale distingue l’Italia dalla Francia della metà
dell’Ottocento, rendendo la prima contadina e preindustriale, con
una borghesia conservatrice e convinta dell’estraneità del mondo
agrario al capitalismo moderno, la seconda industrializzata, con una
classe capitalista e borghese, attiva e dinamica.
Essenzialmente, dunque, il
Verismo interpreta il divario economico, sociale e politico che si è
venuto a creare, dopo l’Unità, tra il Nord e il Sud. E' possibile,
poi, rintracciare nelle opere di Verga uno spiccato interesse nei
confronti della “questione meridionale”, di un "problema", come si è
detto, non ancora identificato dalle istituzioni come problema
nazionale.
Nelle opere verghiane lo sfondo
storico ed economico-sociale ritornante è quello della Sicilia della
metà dell'Ottocento, con particolare riferimento al mondo di
pescatori e contadini del catanese, colto nella varietà dei suoi
luoghi e dei suoi paesaggi.
È una Sicilia reale, disegnata
dallo scrittore sotto diverse prospettive: la mentalità chiusa e
gretta ai limiti della giustificazione della monacazione forzata (Storia
di una capinera); la povertà secolare del bracciantato
agricolo, relegato a livelli infimi di vita (Nedda); la
presenza di rituali arcaici basati su antichi codici d'onore,
radicati nei comportamenti e nei modi d'essere (Cavalleria
rusticana); la presenza di vari strati sociali (il bracciante
agricolo, il pescatore, il contadino, il contadino imborghesito,
l'ex muratore imparentato con nobili, l'aristocratico nel pieno del
dissesto finanziario), estranei a qualsiasi forma di reciproca
cooperazione e chiusi nella cieca guerra di tutti contro tutti;
l'ambiguo incrociarsi del tempo mitico, con i sentimenti
miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione
in generazione (Fantasticheria) e del tempo storico,
con la guerra, le malattie, la leva obbligatoria; l'analfabetismo,
la piaga dell'usura, la gravosa politica fiscale sui meno abbienti
con le reazioni del brigantaggio (I Malavoglia).
Rintracciamo alla base della
riflessione di Verga sul degrado dell’ambiente siciliano il rifiuto
verso le ideologie progressiste contemporanee, che egli considera
fantasie infantili e causa di rivolgimenti sociali. Ciò implica
un’accettazione critica della realtà esistente: il pessimismo
verghiano si esprime, così, nella visione che la società sia
dominata da una lotta disumana per la vita
, dallo sfrenarsi
delle ambizioni, dallo scatenarsi degli antagonismi, dalla brutalità
dell’avidità dell’uomo. E di fronte all’egoismo individuale, che è
una radice del progresso, e ai soprusi della società moderna Verga
si prefigge il compito di studiarli per documentare e far conoscere
ciò che accade. Nell’Introduzione de I Malavoglia (1881),
infatti, scrive: (...) "Solo l'osservatore, travolto anch'esso
dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai
deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare
dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia
disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei
sopravveggenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi
anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani"
.
A questo obiettivo è legata
anche la sua attività presso la rivista «Rassegna Settimanale», di
cui è uno degli autori, e grazie alla quale, insieme a Franchetti e
a Sonnino, cerca di far conoscere sul piano nazionale le condizioni
in cui versa il Meridione. In particolare nell’Inchiesta in
Sicilia del 1877, Franchetti e Sonnino affermano: (...) "Il
lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena del
minerale in sacchi o ceste" (…) "La vista dei fanciulli di
tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe
a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore
delle armonie economiche"
. L’influenza in
Verga della loro opera è evidente sia in Rosso Malpelo (1878)
sia ne I Malavoglia, relativamente alle tematiche affrontate
dello sfruttamento dei bambini nelle miniere, della corruzione, dei
danni provocati dalla leva militare alla popolazione, del sistema
tassativo che colpisce solo i poveri, ma, soprattutto, della tesi
secondo cui l’usura sia il cancro che distrugge l’economia siciliana
impedendo lo sviluppo della piccola proprietà
. In particolare, è
nella novella Rosso Malpelo che emerge la realtà di povertà e
sfruttamento delle classi disagiate, in cui i “carusi” sono
costretti a lavorare. In più Verga compie una serie di parallelismi
tra gli animali da lavoro e le condizioni crudeli e le modalità
disumane in cui i bambini e i ragazzi sono costretti a lavorare
nelle miniere di zolfo. Al tema dello sfruttamento si associa quello
economico, in quanto i lavoratori vengono pagati con quanto basta al
loro sostentamento. Parallelamente alle novelle, Verga compone il
Ciclo dei Vinti, in cui afferma di voler condurre (...) "lo
studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e
svilupparsi, nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel
benessere". E, attraverso i protagonisti dei cinque romanzi
componenti il ciclo, presenta al lettore gli aspetti negativi di
questa nuova società borghese, presa dalla "lotta pei bisogni
materiali". insistendo sull’avidità, sull’egoismo e su quanto vi
è di "meschino negli interessi particolari".
In particolare, è il romanzo
I Malavoglia a farsi portavoce di quella "fiumana del
progresso" penetrata nel sistema arcaico siciliano disgregandone
la compattezza e rovesciandone gli equilibri. L’azione ha inizio
all’indomani dell’Unità e mette in luce come il piccolo villaggio
siciliano di Aci Trezza sia investito da una rapida trasformazione
della società rurale e arcaica. Tale modernità si presenta con
l'introduzione della leva obbligatoria, che sottrae braccia al
lavoro, mettendo in crisi la famiglia come unità produttiva. Si
pensi alla partenza di ‘Ntoni per il servizio militare, che sarà
l’inizio delle difficoltà economiche e delle sventure che rompono
l’equilibrio della famiglia Toscano e turbano l’atmosfera tranquilla
del villaggio. E’ proprio a causa dei problemi economici che i
Malavoglia si inseriscono nel flusso delle trasformazioni
socio-economiche, divenendo negozianti di lupini da pescatori che
erano sempre stati, e, non potendo controllarlo nel loro piccolo, ne
vengono inghiottiti. Il personaggio in cui si incarnano le forze
disgregatrici della modernità è lo stesso giovane ‘Ntoni: egli è
venuto in contatto con la realtà moderna e capitalista e per questo
non riesce più ad accettare l’immobilismo del suo paese. Da qui
nasce lo scontro con lo spirito tradizionalista di padron ‘Ntoni, il
quale è portatore dei valori antichi della famiglia e
dell’attaccamento agli affetti e al focolare, che contraddistinguono
la società siciliana dal resto dell’Italia.
Ad una più attenta analisi,
poi, comprendiamo che Verga non si propone esclusivamente di
criticare l’ottimismo positivistico, ma che dà anche voce
all’estraneità e alla diffidenza dei personaggi nei confronti dello
Stato, visto come vessatore. Gli abitanti del meridione, infatti, si
sentono lontani dal sentimento dell’“essere italiani”, del
combattere e lavorare per la patria, a causa del risentimento comune
contro la tassazione imposta dopo l’unificazione: (...) “Li
dovrebbero abbruciare, tutti quelli delle tasse”
.
L’irrequietezza di ‘Ntoni, che
deriva dalla consapevolezza che si potrebbe star meglio, si esprime
nel desiderio struggente di voler “cambiare stato”
per poter
migliorare le condizioni di vita della sua famiglia. Da tale
intenzione viene subito distolto da padron ‘Ntoni, rappresentante,
come si è detto, della vecchia generazione, il quale in un dialogo
col giovane afferma: (...) “Per me io voglio morire dove son nato”
. In più avvisa il
nipote dicendo: (...) “guardati dall’andare a morire lontano dai
sassi che ti conoscono”, (...) “Chi cambia la vecchia per la
nuova, peggio trova”
.
Ed è questo venire meno della
fedeltà alle origini che viene punito implicitamente da Verga. Il
rimaner legato alle origini, ai valori della famiglia, del lavoro e
delle tradizioni ataviche costituiscono gli elementi di base di
quello che Verga definisce l’“Ideale dell'Ostrica”,
necessario per evitare che il mondo, cioè il "pesce vorace",
divori l’individuo.
Il conflitto generazionale tra
‘Ntoni e padron ‘Ntoni, che é sorto essenzialmente per le difficili
condizioni economiche in cui versa la famiglia, causate da una
“mancata” azione politica italiana, trova punti di contatto con I
vecchi e i giovani di Pirandello, in cui il conflitto scaturisce
tra “i vecchi”, che non hanno saputo tradurre in realtà il progetto
di rinnovamento politico, economico e morale della nazione alla base
del Risorgimento, ed anzi consegnano ai propri eredi un’Italia
corrotta e disgregata, e “i giovani”, oppressi dalla mancanza di
prospettive future, desiderosi di cambiamenti, ma velleitari e
incapaci di elaborare risposte vincenti, soffocati da una società
ormai cristallizzata. Ma il titolo del romanzo, I vecchi e i
giovani, non indica un urto risoluto tra le due generazioni,
volendo piuttosto alludere alla triste eredità morale e civile che i
figli hanno ricevuto dai loro padri. Carlo Salinari, critico
letterario italiano, che ha compiuto studi sulle opere di
Pirandello, scrive: “Nel romanzo si ha l’acuta consapevolezza di
tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto
generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’Unità come
strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in
particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del
socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento
risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della
irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e
arretratezza delle masse”
. Alla base del
romanzo, Pirandello pone, infatti, quell’“ideologia sicilianista”-
molto vicina alla “sicilitudine” di Sciascia che influenzerà e
distinguerà la letteratura dell'isola - come manifestazione
dell’accusa allo Stato di ridurre la Sicilia a colonia piemontese,
di soffocarla con una “piemontizzazione” forzata.
Pirandello offre un quadro
drammatico e realistico del mondo siciliano, dando la parola ad un
personaggio del romanzo, donna Caterina, che dice: (...)“Qua c’è
la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi,
la tirannia feudale dei cosìdetti cappelli, le tasse comunali che
succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi
il pane”
. Il
romanzo diviene, quindi, il simbolo di un’economia siciliana ormai
crollata a causa della crisi dell’industria mineraria e della
miseria delle campagne, di un passato agognato e di un futuro
incerto. Dall’opera emerge il pessimismo pirandelliano sulle sorti
della sua terra natale, la Sicilia, Agrigento. Una Sicilia capro
espiatorio sia della Destra storica, fautrice di “tribunali
militari” e di “processi politici ignominiosi”, sia della
Sinistra storica, portatrice di “usurpazioni e truffe e
concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro
pubblico” e “oppressione dei vinti e dei lavoratori,
assistita e protetta dalla legge”.
Oltre alla questione economica
siciliana, Pirandello affronta quella che lui definisce la
“bancarotta del patriottismo”. Egli si sente offeso non solo nel
suo sentimento di patriota italiano, ma anche di patriota siciliano,
poiché, identificando il Risorgimento con il moto garibaldino dei
Mille e dei “picciotti”, è fortemente consapevole del contributo che
la Sicilia ha dato ad un' Unità che si è rilevata ingrata e
deludente.
Verga e Pirandello si ergono a
sostenitori della loro terra, delle loro tradizioni, culture e
valori e riescono a convergere nelle loro opere tutto il dissenso
per una politica che “per la Sicilia” continua a mancare
dall'unificazione. L’Italia per i due autori siciliani non è motivo
di orgoglio, ma diviene oggetto di analisi, di critica e di sdegno.
Grazie alle loro opere il quadro storico, socio-economico e politico
viene a essere presentato realmente e drasticamente senza
sotterfugi.
Una Sicilia depredata in Cicerone e una
Sicilia idealizzata in Teocrito
Così come Verga e Pirandello
evidenziano la realtà di una Sicilia “piemontizzata”, denunciando
una mancata azione politica di un governo “straniero”, cosi Cicerone
duemila anni prima aveva denunziato ai giudici romani le ruberie di
Verre ai danni dei siciliani.
Antica, dunque, risulta essere
la cattiva gestione dell'amministrazione da parte di un potere
lontano e incurante nei confronti della realtà dell'isola.
Nel 70 a.C. si presenta a
Cicerone l'occasione per affermarsi come oratore e per dimostrarsi
uomo politico non disposto a coprire gli interessi dei clan
nobiliari: la provincia di Sicilia, infatti, dove è stato come
questore alcuni anni prima lasciando un buon ricordo di sé, gli
affida l'incarico di promuovere l'accusa de repetundis contro
il suo ex governatore Gaio Verre, giunto al termine del mandato.
Cicerone, così, si reca in
Sicilia per condurre la inquisitio, per raccogliere prove e
testimonianze.
Verre che invano aveva cercato
di evitare il processo e, attraverso un espediente procedurale, di
far sì che l'accusa fosse sostenuta da Q. Cecilio Nigro, suo ex
questore e amico, che naturalmente l'avrebbe condotta
"morbidamente", schiera un imponente collegio di difesa, il quale
sceglie la tattica di "tirare in lungo" il più possibile in modo da
rinviare la conclusione del processo all'anno successivo, quando
Ortensio Ortalo, il più grande e famoso avvocato di Roma e suo
difensore, avrebbe assunto il consolato, e un altro amico, Gaio
Marcello, sarebbe stato pretore.
Ma Cicerone cerca di accelerare
i tempi, pronunciando un serrato discorso di appena un'ora e
passando immediatamente all'interrogatorio dei testimoni.
Verre, convinto che la partita
era stata persa, parte per Marsiglia in volontario esilio e il
tribunale pronuncia un verdetto di condanna, infliggendo
all'imputato una multa.
Cicerone, dunque, vince
trionfalmente la causa e non ha bisogno di pronunciare le cinque
circostanziate orazioni d'accusa che avrebbero dovuto costituire il
"pezzo forte" del processo (Actio secunda), ma non rinuncia a
pubblicarle
.
Nell'Actio prima della
In Verrem, con lo scopo di ottenere il giudizio di
colpevolezza sull'imputato, l'oratore cerca di far sentire in colpa
i senatori romani che troppo spesso hanno assolto i governatori
posti in stato d'accusa dalle province. Ne viene, pertanto, fuori
una disanima sull'esercizio del potere anche da parte dei senatori
romani che dovranno giudicare Verre.
"Già da un pezzo ha
messo radici un'opinione esiziale per la repubblica e pericolosa per
voi, un'opinione che si è straordinariamente diffusa per il gran
parlare che ne fanno tutti non solo da noi ma pure tra i popoli
stranieri: che cioè da tribunali come quelli attuali nessun uomo
facoltoso, per quanto colpevole, potrebbe mai uscire condannato. E
adesso, proprio in un momento così critico per la vostra classe e
per la giustizia che è nelle vostre mani, quando c'è gente pronta ad
attizzare con pubblici comizi e proposte di legge l'odio che si
nutre contro il senato, ecco portato in tribunale come imputato Gaio
Verre, un uomo già condannato dalla pubblica opinione per la sua
vita e le sue azioni, ma già assolto, stando alle sue speranze e
alle sue affermazioni, per le immense ricchezze che possiede".
Cicerone fa riferimento
all'odio e all'ira che non soltanto il popolo romano ma anche i
popoli stranieri, come ad esempio quello siciliano, hanno maturato
nei confronti dell'ordo senatorius.
La pessima applicabilità delle
leggi e il mancato rispetto del loro valore fanno sì che la classe
senatoria venga riconosciuta non come garante della giustizia che
detiene, ma come colei che, tutelando e sostenendo chi possiede
ricchezze, incentiva le diseguaglianze sociali, sia dentro, sia
fuori la città di Roma. Il Senato è, dunque, discreditato
nell'esercizio del potere e si attira, pertanto, la "vergogna
comune".
Cicerone lo biasima per
l'annullamento di "quel sacro rispetto della verità che è proprio
dei tribunali" e, così facendo, arriva a rendere evidente che
allo stato è mancato un vero tribunale.
I senatori dovranno allora
riguadagnare la stima perduta, riconquistando la simpatia del popolo
romano e soddisfacendo il popolo straniero con la condanna di Verre,
"uomo che ha ridotto la provincia di Sicilia alla totale rovina".
"Sotto il governo
di costui i siciliani non hanno potuto ottenere il rispetto né delle
loro leggi né dei decreti del nostro senato né dei diritti comuni a
tutte le genti; in Sicilia ognuno possiede solo quel tanto che si è
riuscito a sottrarre a questo campione di avidità e di dissolutezza
o perché ne ignorava l'esistenza o perché gli pareva superfluo tanto
ne era sazio".
Cicerone identifica Verre con
il governante che ha giudicato le cause secondo "capriccio" e
che, con la forza dell'"iniqua sentenza", ha privato delle
proprietà il padrone.
Le malefatte riguardanti la
cattiva amministrazione della Sicilia sono tante: il nuovo e
criminoso sistema di tassazione sulle proprietà agricole; il
torturare e giustiziare come schiavi cittadini romani; l'apertura ai
pirati e ai predoni di città e porti fortificati e sicuri; il fare
morire di fame marinai e soldati siciliani; il perdere con grande
disonore del popolo romano ottime e utilissime flotte.
Il pretore ha, inoltre,
spogliato l'isola degli antichissimi monumenti: delle statue, delle
opere d'arte appartenenti alle comunità che volevano, così,
abbellire le loro città, dei santuari più venerati, dei quali ai
siciliani non è stata lasciata nessuna immagine sacra di discreto
pregio.
Nei ritratti che Cicerone
esegue, Verre, così tanto vergognosamente dissoluto, e l'ordo
senatorius si fanno, dunque, rappresentativi dell'uso non
equilibrato e fortemente egoistico del potere, principale motore
delle calamità che affliggono la Sicilia.
Il mal governo dell'isola ci
consegna, così, l'immagine di una Sicilia amara, lontana dal tempo
degli dèi, dall'infanzia del mondo, dall'età di semplicità e di
innocenza che i poeti cantavano.
Il mal governo dell'isola ci
consegna, così, l'immagine di una Sicilia amara e depredata che
sembra richiamare quella che Verga e Pirandello dopo duemila anni ci
hanno dato.
In particolare dall’analisi che
Cicerone, Verga e Pirandello hanno compiuto, sul piano di una
letteratura più impegnata, come la prosa di stampo realistico o
un’orazione, emerge una Sicilia storicamente “avvelenata” da una
politica colonizzatrice e non governatrice, ma sul piano abbiamo ben
altre immagini della Sicilia, come luogo non da cui evadere, ma come
meta dell’evasione. Questa angolo di prospettiva ci viene offerta da
Teocrito di Siracusa, nei cui idilli, pur non mancando l'artificio
letterario, si possono cogliere immediatezza e spontaneità della
campagna siciliana, semplice e ingenua, felicemente colorita e
sonora, a cui il poeta alessandrino pensa come sfondo sereno in cui
svolgere la sobria naturalezza della vita di ogni giorno.
Emergono gli aspetti più
delicati e più semplici della vita della gente, per lo più umile, ma
sempre laboriosa e onesta, le cui passioni si acquietano e le cui
speranze sono consolatorie, ed è diffuso un sereno e gioioso senso
della vita.
Due sono, infatti, gli elementi
costitutivi di questi componimenti: la natura e l'uomo.
L'uomo con i suoi canti, le sue
preoccupazioni, i suoi amori felici o infelici occupa una posizione
dominante; la natura fa da cornice, ma appare spesso così fresca e
intatta che sembra permeare tutto di sé e diventare a sua volta
protagonista.
Sempre uguale a se stessa, la
campagna di Teocrito è quella nel pieno rigoglio dei frutti,
dardeggiata dal sole accecante delle ore calde e afose della
giornata, da cui l’ombra degli alberi e il fresco mormorio delle
fonti offrono un confortevole riparo a mandriani e pastori. Essa è
una natura “benigna”, favorevole all’uomo, dalla quale però emerge
un forte individualismo per la vita solitaria vissuta dai suoi
abitanti con i suoi pregi e difetti.
Pertanto, il
paesaggio d'ispirazione siciliana, tra concretezza e atmosfera
rarefatta ed evasiva, si staglia in tutta la ricchezza e nello
splendore dei suoi elementi caratterizzanti: sole, spighe, cactus,
viole, giacinti, rose, crescioni, mele, lenticchie, otri, aceto,
rocce durissime, cani che assaggiano salsicce, capre, pecore, lupi,
rane. E' “Demetra, ricca di frutti, ricca di spighe” che
rende “questo terreno buono a faticare”, in cui i braccianti
stringono i covoni e battono il grano, scansando il sonno e
riposandosi nell'ora più calda. Odori, suoni, colori, sensazioni
tattili connotano il paesaggio tra realtà e idealizzazione. Infatti,
in Teocrito si nota una certa tensione tra idealizzazione e
oggettivismo, tra dichiarata aspirazione a descrivere della realtà e
irresistibile tendenza a evadere da essa. Questa sovrapposizione di
reale e fantastico rende la poesia teocritea un unicum nella
letteratura occidentale. Nonostante si parli di “realismo”, in
quanto l’analisi della realtà nasce da una precisa osservazione, la
poesia di Teocrito non presenta i tratti sociologici dell’opera
narrativa di impianto naturalista e verista, ma con ciò essa si
dimostra un palliativo di fronte a quei mali che hanno da sempre
afflitto la società siciliana e a cui non si mai posto rimedio non
solo per una politica “deviata”, come quella di Verre, rispetto a
quelli che sono i reali bisogni del popolo siciliano, ma anche come
disse Pirandello per un'istintiva paura dei siciliani della vita,
per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia
loro sicurezza.
Si affidava al romanzo il compito di fungere da ricerca
sociale e psicologica - attraverso attente e precise
indagini di ordine socio-economico, effettuate direttamente
sul campo, e basate sul rigore scientifico, e, quindi,
l'apertura ad una varietà di osservazioni relative al
costume e alla società - e di porsi come riflesso della
storia morale contemporanea.
M.T. Cicerone, In Verrem, cit., 13-15.
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