Con l'espressione “Questione
Meridionale” si definisce lo sproporzionato divario, nelle attività
sociali ed economiche, nell’intensità della vita collettiva, nella
misura e nel genere della produzione, tra le regioni settentrionali
e quelle meridionali dell’Italia; tale divario ha dato luogo ad un
ampio dibattito relativo alle cause del mancato sviluppo economico,
sociale, culturale del Sud dopo l'Unità d'Italia.
Analizziamo di seguito, e più
nel dettaglio, in cosa consiste il grande divario tra il Nord e il
Sud dell'Italia e individuiamo le cause che lo hanno determinato,
ricercando le "precise responsabilità" sullo stato di abbandono e di
miseria del Sud e, in particolare, della Sicilia.
Da decenni, in Sicilia,
l’immobilismo sociale aveva sostenuto l’esistenza di una classe
parassitaria, quella dei baroni, che affittavano le loro terre senza
farvi alcun investimento. In più, i Borbone, dopo le tendenze
riformatrici dei primi anni, promosse da Ferdinando, avevano
rinunciato a modernizzare il Paese; dal XIX sec., infatti, stavano
maturando le condizioni per nuovi sviluppi produttivi: si pensi, fra
tutte, a quelle inerenti agli investimenti in agricoltura da parte
degli inglesi e alle industrie metallurgiche della famiglia Florio.
Quanto alla cultura politica siciliana, essa si era plasmata sui
movimenti italiani più influenti, quello mazziniano e quello
liberale. Alle soglie dell’unificazione vi erano condizioni
politiche, sociali ed economiche che facevano pensare a una realtà
dinamica. A contribuire allo spirito unitario siciliano vi era non
solo l’odio dei siciliani stessi verso i Borbone, i quali avevano
reso il loro territorio una provincia di Napoli, ma anche l’anelito
di poter riacquistare la propria autonomia
. Fu in questo contesto storico che gli eventi
siciliani, come, ad esempio, la Rivolta della Gancia guidata da
Francesco Riso, si fusero ai tentativi di esponenti come Mazzini e
Cavour di unificare tutti i territori abitati da italiani,
costituendo, pertanto, gli episodi cardine del Risorgimento
italiano.
Il 5 maggio 1860 Giuseppe
Garibaldi, con il supporto di Francesco Crispi, salpò da Quarto con
mille “camicie rosse” e sbarcò a Marsala l’11 maggio. Arrivato in
Sicilia Garibaldi si dichiarò dittatore in nome di Vittorio Emanuele
II di Savoia. Con l’aiuto dei patriottici siciliani, detti
“picciotti”, come Riso, Garibaldi riuscì a strappare all’esercito
borbonico le città di Calatafimi, Alcamo ed infine Palermo.
Nonostante il suo intento fosse esclusivamente militare, poiché
mirava all’unificazione, Garibaldi dovette rimanere qualche mese in
Sicilia, impegnandosi in un programma di riforme che verrà soltanto
in minima parte realizzato. Esso prevedeva una rapida
modernizzazione del Paese, con la realizzazione delle prime
ferrovie, l’istituzione delle scuole, la nazionalizzazione e la
distribuzione delle proprietà ecclesiastiche. In concreto,
Garibaldi, ad Alcamo, per ottenere l’appoggio delle masse, aveva
abolito la tassa sul macinato e distribuito incarichi ai nobili,
poiché non poteva prendere decisioni che impegnassero il governo
piemontese. Dopo aver strappato l’ultima città siciliana, Messina,
ai Borbone, Garibaldi risalì la penisola, attraversando quasi tutte
le regioni meridionali e conquistandole. La sua azione si risolse
con l’incontro di Teano del 26 ottobre 1860, durante il quale
cedette le terre occupate a Vittorio Emanuele II e con il quale
finisce simbolicamente la spedizione dei Mille. Con il plebiscito
del 21 ottobre 1860, quasi il 75% dei siciliani votò per
l’annessione al Piemonte, speranzoso che il nuovo governo avrebbe
cambiato radicalmente le condizioni di vita. Ma come disse Massimo
D’Azeglio all’indomani dell’Unità: "Fatta l'Italia, bisogna fare
gli Italiani"
. La nuova Italia, infatti, era
costituita da popolazioni eterogenee sotto il profilo economico,
sociale e culturale.
Non considerando questo
aspetto, Cavour, protagonista del decennio precedente al 1860 e capo
del governo nel 1852, per timore di insurrezioni popolari e di un
intervento degli eserciti amici dei Borbone, aveva esteso a tutto il
territorio la legislazione del Regno Sabauda che prevedeva la leva
obbligatoria, la tassa sul macinato e gli addizionali.
I governi successivi, scartando
l'ipotesi federalista o regionalista, optarono per un forte
accentramento, con ripartizioni amministrative rette da un prefetto,
in quella che venne definita “Piemontizzazione”. I prefetti che
venivano assegnati ai diversi territori erano per lo più piemontesi
e questo si risolveva in incomprensioni con la popolazione. Furono
trascurate dallo stesso Cavour e dal governo centrale l’autonomia e
le leggi speciali che la Sicilia possedeva sotto i Borbone e che ora
aspirava a mantenere. Già con Garibaldi erano nati in Sicilia
malcontenti diffusi circa la repressione di Bronte; ancora più
accentuati divennero all’indomani dell’Unità, con l’affermazione del
fenomeno del “Brigantaggio”. Tale forma di banditismo si esprime in
azioni di rivolta da parte del proletariato rurale e di ex militari
borbonici, spinti da diverse problematiche sociali ed economiche.
Giustino Fortunato, personalità
storica e politica rilevante e uno dei rappresentati più importanti
del Meridionalismo, riteneva che il brigantaggio fosse espressione
della miseria in cui versava il sud e che per eliminarlo era
necessario evitare l’isolamento del meridione e attuare un’azione
politica volta al suo sviluppo con la costruzione di una rete
ferrovia, stradale e infrastrutturale, con la promozione
dell’attività industriale. Al riguardo i contadini e i braccianti si
resero conto dell’impossibilità di realizzazione di una tale forma
di sviluppo, ma anche di una riforma agraria, fondamentale per il
loro sostentamento in quanto in Sicilia il settore più sviluppato
era quello agricolo, e, quindi, della distribuzione delle terre
della Chiesa; anzi si videro gravati da nuovi carichi fiscali per
loro insostenibili e da una politica economica nettamente
svantaggiosa. Inoltre la leva obbligatoria, che aveva determinato
una riduzione sensibile della manodopera, e il confluire delle
ricchezze dello stato dei Borbone nelle casse dello stato
contribuirono a un ulteriore impoverimento della Sicilia, in quanto
esse furono reinvestite soprattutto nell’industria e nelle
infrastrutture del Nord. Ad alimentare le rivolte popolari dei
briganti e ad aumentare il malcontento incise la politica liberista
del nuovo Stato, che ostacolò la produzione locale a vantaggio delle
grandi imprese nordiche. Un esempio di questa “disattenzione” del
governo sabauda verso il Meridione può essere costituito dal mancato
finanziamento di 80 milioni di lire ai Florio per la costruzione di
un cantiere navale a Palermo, a fronte, invece, dei 150 milioni di
lire ceduti alle industrie del Nord per le ferrovie.
Con l’Unità, non furono posti
sotto un unico Stato popoli eterogenei per tradizioni, cultura e
mentalità, ma vennero “nazionalizzate” le diverse condizioni
economiche dei singoli territori.
Di fronte ad un Nord dal ceto
borghese pieno di iniziative e volto agli investimenti capitalistici
e ad un Sud in cui emergevano un sistema agricolo primitivo e
semi-feudale e timidi elementi di un qualche processo di avviamento
all'industrializzazione, la politica fiscale adottata dal nuovo
governo non fu omogenea, in quanto il primo venne avvantaggiato e il
secondo ulteriormente impoverito. Essa “faceva sì che l’Italia
settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese,
pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia
meridionale, con il 27% della ricchezza, pagava il 32%”
.
Un elemento alquanto insolito è
che all’indomani dell’unificazione il Regno delle Due Sicilie non
aveva debiti, al contrario del Regno Sabauda. Il primo seguì una
politica del tutto opposta a quella del secondo, forse meno
redditizia ma sicuramente più economica. Grazie all’opera La
Scienza delle Finanze di Francesco Saverio Nitti e
all’economista Giacomo Savarese, sappiamo che (...) "Il Regno
delle Due Sicilie possedeva due volte più’ monete di tutti gli altri
stati della penisola uniti assieme"
. Le monete degli stati pre-unitari al
momento dell’annessione ammontavano a 670 milioni di lire, di cui
solo 445.2 al regno dei Borbone, mentre i restanti 225 erano
ripartiti tra il Regno di Sardegna, Lombardia, Ducato di Modena,
Parma e Piacenza, Roma, Romagna. Addirittura la Borsa di Parigi, la
più grande del mondo, quotava la rendita del Regno dei Borbone al
120%, la quota più alta di tutta l’Europa. Dagli studi condotti da
Nitti e Savarese è emerso che tra il 1848 e il 1859 vi furono delle
enormi differenze circa la politica economica adotta da questi due
Regni: mentre il Regno delle Due Sicilie non vendette beni demaniali
per fronteggiare i debiti, non impose alcuna nuova tassa, ebbe un
debito pubblico di 411 milioni; il Regno dei Savoia impose circa
venti nuove tasse, vendette cinque beni demaniali per un valore di
15 miliardi di lire ed ebbe un debito pubblico di un miliardo di
lire. Lo stesso Nitti scrisse: (...) "Senza togliere nessuno dei
grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all'unità italiana, che
è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere
che senza l'unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per
lo abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era
necessariamente condannato al fallimento"
.
È pure vero che se il Nord si
presentava più progredito economicamente, socialmente e
culturalmente rispetto al Sud, è altrettanto vero che quest’ultimo,
da studi economici approfonditi, possedeva un sistema economico più
stabile e quindi si trovava in condizioni economiche non effimere.
Cavour era consapevole della
situazione economica in cui versava il Piemonte, poiché Torino aveva
disperato bisogno di liquidi per pagare le indennità finanziarie
(Armistizio di Vignale,1849), imposte dagli austriaci dopo la
sconfitta nella Prima guerra di Indipendenza. Per questo decise di
stipulare, nel caso in cui gli austriaci avessero attaccato, un
accordo difensivo con la Francia (Trattato di Plombières, 1858), il
quale prevedeva di rendere l’Italia una confederazione, dividendola
in quattro aree, compreso il Regno delle Due Sicilie, dal quale
sarebbero stati cacciati i Borbone. E' proprio questo momento la
premessa alla spedizione dei Mille e all’Unità.
Quindi, sostanzialmente, Cavour
promosse “implicitamente” l’Unità, soltanto per rimpinguare le casse
dell'ormai “povero” Regno Sabaudo
.
E le soluzioni che furono
proposte dal neo stato italiano gravarono non solo sull’agricoltura
siciliana, ma anche sull’industria. Il baricentro degli affari,
infatti, si spostò in pochi anni dal Sud al Nord, in seguito
all’investimento dei capitali statali per lo sviluppo delle aree
industriali del Nord. Le fabbriche dell’ex Regno delle Due Sicilie
vennero vendute, con metodi non molto chiari, a privati, al fine di
ottenere ulteriori somme liquide.
Il modo rapido con cui si era
precipitati all'unità non aveva, dunque, concesso di affrontare
in itinere i problemi dell'accostamento e della compenetrazione
di società, culture, economie a un differente grado di sviluppo:
l'Italia nasceva, infatti, come aggregazione di "pezzi", di stati
regionali, senza avere alle spalle un lungo processo di costruzione
dello stato-nazione. E la prima delle linee di frattura che l'Italia
ereditò fu proprio quella fra il nord e il sud del paese, che prima
ancora che nel divario di sviluppo economico e sociale - con la
cosiddetta questione meridionale, cioè -, si manifestò sul piano
culturale e politico. Alla luce di ciò, lo studioso Paolo Macry ha
notato che fu proprio in quegli anni che presso le classi dirigenti
liberali e l'opinione pubblica settentrionale fu costruito e diffuso
uno stereotipo che avrebbe caratterizzato a lungo l'identità
nazionale, quello del sud come "male" italiano
. Lo stereotipo di un sud "barbaro", estraneo,
anzi ostile, all'Unità nazionale non poté che enfatizzarsi con
l'esplodere del brigantaggio, quando la scelta della più dura
repressione militare parve al governo e all'opinione pubblica
l'unica via per stroncare un conflitto del quale non si
comprendevano le ragioni sociali. In più, ad una più lucida analisi,
si può affermare che la miscela fra l'incomprensione culturale
profonda del sud e dei suoi problemi e l'autoritarismo politico
determinò l'"assenza" dello stato nazionale nelle regioni
meridionali, da cui trasse alimento l'insediarsi di veri e propri
"contropoteri", quali le organizzazioni mafiose
.
Dal 1861 al 1876 l'Italia fu
governata da esponenti della Destra Storica; dal 1875 al 1896 al
governo salì la Sinistra Storica.
Quest'ultima, al contrario di
una Destra di proprietari terrieri e di aristocratici interessati a
difendere lo status sociale e il patrimonio, era costituita da
professionisti che manifestavano una maggiore sensibilità verso la
crisi del Meridione e il progresso. A tal proposito, la Sinistra di
Depretis attuò una politica protezionistica atta a limitare le
importazioni e a favorire il commercio interno, abolendo la tassa
sul macinato e investendo sullo sviluppo industriale del paese. La
Sinistra si mostrò più attenta alla mediazione tra Stato e società
civile sia sul versante della politica economica, sia sul versante
della politica sociale. Nonostante ciò, la guerra doganale con la
Francia condotta da Crispi ebbe conseguenze devastanti in
agricoltura per la Sicilia e il Meridione, favorendo, al contrario,
l’industria del Nord. Inoltre Depretis aveva avviato l’iniziativa di
una serie di inchieste per cercare di comprendere le vere condizioni
in cui versava il popolo italiano, come la famosa inchiesta
Franchetti- Sonnino o quella di Jacini. Tali inchieste svelarono le
difficili condizioni in cui vivevano le popolazioni del sud, ponendo
in evidenza le condizioni in cui lavoravano i "carusi", giovani
costretti a lavorare duramente nelle miniere di zolfo, il fenomeno
dell’emigrazione, che portò milioni di Siciliani a lasciare la
propria terra e a trasferirsi nel Nord o nelle Americhe,
l’analfabetismo diffuso tra i contadini, che evidenzia la carenza di
istituzioni scolastiche e la mancata volontà del governo di
rimediarvi.
Pertanto, e in definitiva, pur
considerando quei tentativi di superamento di tale situazione,
riteniamo che poco e nulla è stato fatto: se, da un lato, l'avvenuto
processo unitario non ha fatto altro che aggravare le condizioni
preesistenti di regressione e arretramento socio-economici, con
l'incuria da parte del neo Stato, che non ha assolto quei compiti di
risanamento a cui era stato demandato, dall'altro, bisogna anche
riflettere sulla serie di scogli insuperabili ed endemici del Sud e,
nel nostro caso, della Sicilia, come la presenza di una mentalità
clientelare, legata agli interessi della borghesia terriera e alla
classe baronale, l'omertà, la paura della mafia, l'ignoranza, in una
spirale intrecciata e continua di cause e conseguenze, confluenti le
une nelle altre, in cui, per l'appunto, risulta, a volte, poco o per
niente possibile individuare il confine tra le prime e le seconde.
Da quanto
detto, abbiamo potuto evincere come l'analisi delle condizioni
economiche del Sud non era soltanto indispensabile per comprendere
le differenze rispetto al Nord e la politica inerte del nuovo regno,
incapace di superare tale impasse, ma era soprattutto
necessaria per far capire agli italiani, e alle personalità
influenti, che la “Questione Meridionale” era innanzitutto una
questione umanitaria e sociale. Questo lo hanno intuito
intellettuali e uomini di cultura come, ad esempio, Luigi Pirandello
e Giovanni Verga.
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