Da sempre il Mediterraneo grazie alla sua
“privilegiata” posizione geografica è stato centro di
attività marinaresche, di commerci e di migrazioni tra
le popolazioni che vi si affacciano e con esse si è
sviluppato anche un intenso traffico piratesco, legato
al commercio delle merci e degli schiavi.
Fernand Braudel ha osservato che nel Mediterraneo la
pirateria può considerarsi un’industria vecchia quanto
la storia e che, in questo mare, essa è più naturale che
altrove e fu praticata in modo aperto da tutte le
popolazioni rivierasche. Un’industria però di cui si
poteva essere, di volta in volta, protagonisti attivi o
passivi e che classificata “pirateria” nel caso dei
corsari barbareschi, veniva addirittura definita
“crociata”, se invece esercitata dai Cavalieri di Malta
o dai Cavalieri di Santo Stefano, anch’essi feroci scorridori del mare.
Le più antiche documentazioni di una presenza
piratesca nel Mediterraneo risalgono al secondo
millennio a.C. con la presenza di navi dell'Asia Minore
e della Fenicia rappresentate nelle iscrizioni
pittoriche dell’antico Egitto. Episodi di pirateria sono
riportate anche fin dai tempi più antichi della storia
Greca e Romana, quando ad esempio, gli Etruschi erano
conosciuti con l'epiteto greco Thyrrenoi, (da cui
deriva il nome il Mar Tirreno) e avevano fama di pirati
efferati. Plutarco attorno all’anno 100 descrisse i
pirati come coloro che attaccavano senza autorità
legale, non soltanto le navi mercantili, ma anche le
città marittime. L'Egeo era un luogo ideale per i
pirati, che si nascondevano con facilità tra le migliaia
di isole e fiordi, dai quali potevano aggredire di
sorpresa e depredare le navi mercantili di passaggio. Le
azioni di pirateria erano inoltre facilitate dal fatto
che le navi mercantili navigavano vicino alla costa e
non si avventuravano mai in mare aperto. Man mano che le
città-stato della Grecia crebbero in potenza,
attrezzarono delle navi scorta per difendersi dalle
azioni di pirateria e iniziarono ad esercitare, a loro
volta la pirateria: erano una vera e propria minaccia
soprattutto per le navi fenice che trasportavano materie
pregiate come ambra, argento e rame.
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Partenza della flotta per Lepanto
(arazzo, Villa del Principe, Genova) |
A quei tempi tuttavia non si faceva differenza tra
"pirati" e "corsari"
(una distinzione europea di epoca moderna). La pirateria
era un modo di essere in guerra senza una dichiarazione
specifica. Achei, Cretesi e Fenici aggredivano città
indifese, le depredavano e catturavano schiavi da
vendere al primo mercato. Con l'estendersi del dominio
di Roma in occidente e in oriente e con l’intensificarsi
dei traffici commerciali, si ebbe un pauroso sviluppo
della pirateria tanto che il senato romano incaricò
Pompeo Magno, di liberare i mari dal terribile flagello,
ma evidentemente non riuscì nell'intento, tanto che
Giulio Cesare, nel 74 a.C. venne fatto prigioniero dai
pirati durante un viaggio verso Rodi. Dopo trentotto
giorni di prigionia nell’isola di Pharmacusa e il
pagamento di un riscatto, una volta liberato, Cesare con
quattro galere da guerra e cinquecento soldati, attaccò
il rifugio dei pirati, recuperò i cinquanta talenti del
riscatto e fece centinaia di prigionieri.
Inserto
Andrea Doria
È estremamente improbabile che qualcuno riesca a
contestare la palma di più grande ammiraglio italiano ad
Andrea Doria, nato a Oneglia il 30 novembre 1466 da una
famiglia che, allora, non faceva parte dell’élite
aristocratica che si contendeva il potere a Genova.
Perso precocemente il padre, Andrea visse in
ristrettezze con la madre fino a quando costei non morì;
dopodiché, a diciotto anni, si spostò a Roma, dove suo
zio Domenico prestava servizio nella guardia pontificia.
|
Andrea Doria |
Otto anni dopo il giovane si spostò a Urbino, mettendosi
al servizio dei della Rovere. Vi rimase solo un biennio,
per passare al soldo di Alfonso d’Aragona, Re di Napoli;
ma dopo le prime sconfitte spagnole contro i francesi,
si risolse a recarsi in Terrasanta per un
pellegrinaggio. Al suo ritorno, cambiò schieramento e si
mise al servizio di Giovanni della Rovere, che gli
assegnò il comando di una compagnia di venticinque
balestrieri a cavallo, dei quali il Doria si valse per
difendere Rocca Guglielma dall’assalto del celebre
Cordoba. Il 23 aprile 1495 l’artiglieria di quest’ultimo
aprì una breccia nelle mura, ma Andrea Doria riuscì a
impedire che gli avversari sciamassero all’interno della
roccaforte gettandogli addosso olio bollente e pece
ardente. In seguito si unì al della Rovere a Senigallia,
per spostarsi nel dicembre 1502 a Genova, dove si mise a
disposizione come mercenario.
Il suo primo incarico di rilievo fu del marzo 1503,
quando venne inviato dal doge in Corsica, dove impiegò
un quadriennio per reprimere la rivolta di Ranuccio
della Rocca.
Del 1513 fu il suo primo incarico come mercenario di
mare. Con una sola galea, il Doria doveva disturbare il
vettovagliamento alla roccaforte di Briglia, che i
francesi di Luigi XII utilizzavano come base per
assediare Genova. Andrea risolse la situazione
rendendosi protagonista di un abbordaggio ai danni della
nave che si occupava dei rifiorimenti. Grazie a quella e
ad altre azioni, si guadagno la carica di prefetto del
porto, che comportava la responsabilità delle difese
navali dalle incursioni dei pirati musulmani, poi
equipaggio sei galee a proprie spese e agì con contratti
di mercenariato in proprio, sempre contro i saraceni. Di
grande rilievo, in particolare, fu la battaglia che
combatté a Pianosa il 25 aprile 1519, quando fu
aggredito da una flotta di tredici galere del re di
Tunisi, che riuscì a sconfiggere sottraendo sei vascelli
agli avversari.
Nel 1521 si propose al servizio del re di Francia
Francesco I, per conto del quale, nel 1524, vettovagliò
Marsiglia durante l’assedio cui l’avevano sottoposta gli
spagnoli. Ma il condottiero andò ben oltre i propri
compiti, e riuscì anche ad allontanare dal porto la
flotta imperiale, largamente superiore alla sua, per
inseguirla lungo la costa, approfittandone per
saccheggiare Savona e Varazze. Quindi affrontò in
battaglia l’ammiraglio spagnolo Hugo de Moncada,
sconfiggendolo e facendolo prigioniero.
Dopo la sconfitta francese di Pavia, il Doria passò al
servizio di papa Clemente VII, che cerco di rifornire da
Civitavecchia durante il sacco ispano-tedesco di Roma
del 1527. Dopo la caduta della città capitolina, ripassò
al servizio dei francesi, per conto dei quali riprese
l’assedio a Genova, che aveva già iniziato nel corso
dell’estate 1526 al servizio del papato. Nell’agosto del
1527 favorì, anche in termini diplomatici, la resa della
sua città, il che gli valse la nomina a luogotenente del
re di Francia nel Mediterraneo e l’ordine di San
Michele. Ma i frequenti contrasti strategici con la
corte francese, e il mancato rispetto degli accordi da
parte del sovrano, che non aveva restituito Savona ai
suoi concittadini, lo indussero a passare, il 30 giugno
1528, agli imperiali, per uno stipendio annuo di 72.000
ducati d’oro, quasi doppio rispetto a quanto percepiva
dai transalpini.
Dall’imperatore, il Doria ottenne l’incarico di
luogotenente generale ed il comando dell’intera flotta
dell’impero. Per conto del nuovo committente esordì
liberando Napoli dall’assedio francese, facendo
pervenire alla città vettovaglie da Ischia e dando il
colpo di grazia alle forze transalpine, già provate
dalla peste. Quindi si spostò a Genova, che occupò il 12
settembre, raccogliendo a fine ottobre la resa del
governatore francese, che si era asserragliato nel
Castelletto. Carlo V lo insigni del Toson d’Oro e del
principato di Melfi, nonché del Cancellierato di Napoli
e del marchesato di Tursi; avrebbe potuto conseguire
anche il dogato, ma era un uomo d’azione, e si
accontentò del titolo di "Padre e Liberatore della
Patria", e di far parte del collegio di cinque sindaci a
supporto del doge, dedicandosi alla lotta contro i
musulmani di Solimano II.
Dopo un’altra spedizione fallita sulle coste africane
nell’estate 1531, si fece promotore di una campagna in
Grecia per costringere i turchi, profondamente incuneati
in Europa centrale, a guardarsi il fianco marittimo.
Nell’estate 1532 opero pertanto lungo le coste
elleniche, conquistando Corone e Patrasso, respingendo
l’anno successivo un tentativo turco di riconquistare il
primo caposaldo, sconfiggendo la flotta di Lufti Pascià,
e costringendo i musulmani ad arretrare il fronte
interno verso est.
Sul fronte marittimo, Solimano trovò un degno
contraltare al Doria lasciando mano libera al pirata
algerino Khair ed-din, detto Barbarossa, che si rese
protagonista di una serie di incursioni lungo le coste
italiche e della conquista di Tunisi. Alla volta di
quest’ultima si diresse Andrea Doria, partendo nel
maggio 1535 da Barcellona, alla guida di una vasta
flotta imperiale. Le operazioni a Tunisi, tuttavia, si
rivelarono inconcludenti, sebbene valessero ai cristiani
lo sterile possesso del porto e della città.
L’anno seguente l’ammiraglio sconfisse la flotta turca
nei pressi di Corfù; ma nel 1537 il comando generale
della marina ottomana fu assunto dallo stesso
Barbarossa, e le cose si fecero di colpo più difficili
per il genovese. Da allora, Andrea Doria ebbe varie
occasioni di scontrarsi col pirata algerino: ma nel
1538, a capo di un’altra vasta flotta dei principali
stati cristiani, se lo lasciò sfuggire a Prevesa; e
addirittura evitò di attaccarlo ad Algeri, dove pure si
era diretto nel 1541 con una potente flotta proprio per
stanarlo. Invece, i due si incontrarono amichevolmente
nel 1544 a Genova.
Da allora, i maggiori impegni che Andrea Doria dovette
affrontare furono di ordine interno, relativi, cioè, a
rivolte contro il predominio della sua famiglia e degli
spagnoli, che lo costrinsero a fuggire più volte dalla
città ed a spargere molto sangue per ribadire il suo
potere. Tuttavia, nonostante fosse ormai quasi
nonagenario, ebbe ancora modo di condurre delle campagne
sul mare contro i nemici dell’impero. Nel 1550 condusse
un’azione in Tunisia contro Dragut, soffiandogli due
roccheforti; alla ripresa delle operazioni, l’anno
seguente, colse un nuovo successo a Bou Grara.
Prima di ritirarsi, Andrea Doria agì ancora in Corsica,
conducendo la repressione di una ribellione, come mezzo
secolo prima. Concluse la propria carriera nel 1559 a
Napoli, la cui difesa sostenne contro le truppe francesi
e papali, per morire, novantaquattrenne, il 25 novembre
dell’anno successivo.
Valutazione
Se Andrea Doria fosse rimasto uno dei tanti capitani
mercenari sul suolo terrestre, probabilmente la Storia
si sarebbe scordata di lui. Seppe invece aprirsi un
nuovo fronte e trovare la sua dimensione sul mare,
divenendo un mercenario di altra categoria, in un ambito
dove la concorrenza era senz’altro minore e la necessità
di una specializzazione maggiore.
Dotato di un’ampia visione strategica, acquisì in breve
tempo un’accurata conoscenza dello scacchiere in cui
operò nel corso della sua lunghissima carriera, ovvero
il bacino mediterraneo, e dell’arte della navigazione;
la sua competenza, la solidità che contraddistingueva il
suo modo di agire, le temerarie azioni di cui sapeva
rendersi protagonista, lo resero il più richiesto ed il
più pagato degli ammiragli della cristianità. Non fu in
grado di fare miracoli, al contrario del suo antagonista
Barbarossa, ma i suoi committenti non riuscirono mai a
fare a meno di lui, anche dopo scacchi, come quelli
subiti dal rivale algerino, che sarebbero costati la
carriera e forse la vita ad altri ammiragli.
Profondamente invischiato nella politica europea e ancor
più in quella della sua città, Andrea Doria fu il più
fortunato tra i mercenari che trassero dalla loro
abilità militare vantaggi di carattere politico,
esibendo spietatezza e crudeltà nella vita civile in
misura maggiore di quella dimostrata in ambito militare.
In generale, la sua longevità gli consentì di fruire per
oltre un sessantennio di carriera dell’inestimabile
privilegio dell’esperienza, che lo trasformò in
un’istituzione, probabilmente valorizzata al di là dei
suoi meriti e talenti.
La battaglia: Tunisi
Nel 1512, il senato di Genova assegnò ad Andrea Doria
dodici galere con le quali effettuare una rappresaglia
contro la Goletta, il porto di Tunisi a quel tempo base
dei pirati barbareschi condotti da Aruj, che avevano
appena sottratto alla repubblica una galera. Sebbene la
stagione fosse già tarda, il momento sembrava propizio,
perché il corsaro era stato gravemente ferito nel
tentativo di espugnare una fortezza spagnola, ed alle
difese del porto c’era suo fratello Khizr, più giovane,
destinato a divenire il celebre Barbarossa.
Il turchi non si aspettavano un attacco in quel momento,
e si fecero sorprendere con tutte le navi nel porto,
ovvero dodici galeotte. L’ammiraglio genovese ancoro la
flotta al largo ed inviò a terra un cospicuo contingente
di truppe da sbarco, mentre Khizr affondò meta delle sue
imbarcazioni, per impedire al nemico di impadronirsene,
e poi salpò con le altre sei ad affrontare i genovesi.
Fu un tentativo velleitario, che si risolse in una
disfatta: le galere del Doria erano più robuste e meglio
equipaggiate del leggero naviglio turco, e i suoi
cannoni seminarono lo scompiglio negli equipaggi
avversari. Spazzata via la flottiglia nemica, il
condottiero poté sbarcare altre truppe e respingere i
soldati musulmani entro Tunisi; ciò gli consentì di dare
l’assalto al forte che sovrastava il porto, nel quale i
suoi entrarono in breve tempo, per poi demolirlo. A
Genova, Andrea Doria si portò sei galeotte, oltre alla
nave genovese di cui i corsari si erano impadroniti poco
tempo prima. |
Con la caduta dell'Impero Romano d’Occidente i
commerci marittimi diradarono sempre più e, per alcuni
secoli, la pirateria scomparve dal Mediterraneo, anche
perché nessuna potenza mediterranea era più forte di
quella bizantina. Gli unici che, a partire dall'VIII
secolo, ebbero il coraggio di compiere incursioni
piratesche sui territori bizantini, furono i saraceni
che erano considerati fuorilegge dallo stesso Regno
Arabo di Spagna.
In quel periodo ripresero i commerci mediterranei fra
occidente e oriente, in particolare per opera delle
città marinare italiane: Amalfi, Pisa, Genova, Gaeta,
Venezia; piccole navi mercantili facevano la spola tra i
porti bizantini e quelli delle coste mediterranee
meridionali e occidentali dalla Siria alla Catalogna. E
con essi riprese la pirateria.
Grazie alla pirateria si sono costituiti molti
patrimoni signorili, ma nel passato non si rubavano solo
ricchezze, ma anche uomini, da utilizzare o rivendere
come schiavi, e se erano di alto rango potevano essere
riscattati.
La corsa e la pirateria, endemiche nel mediterraneo,
sono state considerate per secoli come attività da
combattere solo se dirette contro il proprio commercio e
le proprie coste ma da favorire se praticate a proprio
vantaggio. E' solo in tempi recenti, molto dopo la
nascita degli stati-nazione intesi in senso moderno, che
il vocabolo assume il significato odierno, quello di
minaccia per gli scambi commerciali e passeggeri.
In precedenza non esisteva neppure una chiara linea di
demarcazione tra corsa, pirateria e commercio; del
resto, lo stesso trasporto di merci via mare era
un'impresa di vita o di morte, motivata non tanto dal
desiderio d’avventura ma dal guadagno economico.
La pirateria e la guerra di corsa sono cresciute in
maniera esponenziale nel Mediterraneo nei secoli XV, XVI
e XVII, quando le rivalità fra aragonesi ed angioini
prima e tra francesi e spagnoli poi, si sono acuite a
causa della frammentazione e della conseguente debolezza
degli stati italiani - con l'eccezione parziale di
Venezia
per via del suo dominio sull’Adriatico - rendendo i mari
antistanti la penisola un ambito territorio di
scorrerie.
Durante il secolo XV, tuttavia, la pirateria è ancora
esercitata su scala minima, da piccole imbarcazioni che
attaccano chiunque ed è solo dalla fine del XV e nel
secolo successivo che i pirati si trasformano sempre più
in corsari, e inseriscono la loro azione in un disegno
organico guidato dai governi dei vari Stati o
Città-stato.
Il contesto storico vede da una parte turchi e
barbareschi e dall’altra cristiani. In realtà, di
continuo, si formano e si disfanno coalizioni; nazioni
cristiane in concorrenza tra loro, come la Francia e
l'Inghilterra, appoggiano a turno i corsari turchi
piuttosto che darla vinta alla Spagna e viceversa.
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La flotta in navigazione per Lepanto
(arazzo, Villa del Principe, Genova) |
La guerra di corsa e la pirateria non erano però come
ce le rappresentano i film hollywoodiani. In genere nel
mediterraneo non si assaltavano navi che trasportavano
oro o metalli preziosi - né i corsari erano dei belli e
dannati adorati da eroiche e bellissime donne - anche se
non mancavano gli assalti effettuati, in vicinanza delle
coste dell'Asia Minore, dai corsari dell'ordine
Ospitaliero o da quello di Santo Stefano ai danni dei
galeoni e dei caramussali
che trasportavano a Costantinopoli il tributo annuale
dei sudditi. In genere il bottino era costituito da
carichi di spezie, vino, formaggi, seta, legname,
minerali, derrate agricole, soprattutto frumento dai
paesi produttori ai mercati di consumo
e uomini e donne, da rivendere come schiavi o per
chiederne il riscatto.
Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi
corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova
o Trapani e Palermo.
Scrive Braudel in Civiltà e imperi del mediterraneo
nell’età di Filippo II: “in tutto il mediterraneo
l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi
conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli
’universi concentrazionari’“
La Corsa quindi non è fenomeno solo cristiano o solo
musulmano. Nel Mediterraneo è norma generale, ed è
praticata da Algeri a Tunisi, come da Malta a Genova.
La peculiarità dei pirati barbareschi delle
città-stato come Tripoli, Tunisi, Salè ed Algeri nei
confronti della corsa marittima "non era tanto il
ricorrervi – ché tutti lo facevano - quanto il fatto che
quegli stati avessero trasformato una simile attività
nel principale motore della loro stessa vita economica."
(Lenci, M.,
Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterra-neo, Carocci,
2006). Era il loro modo di far quadrare il bilancio.
È da notare che molte città di mare note come grandi
centri corsari divennero contempo-raneamente, grandi
centri commerciali e si arricchirono notevolmente,
perché per rivendere i bottini, le prede, per
organizzare il riscatto degli schiavi, per armare le
navi, bisognava creare le necessarie infrastrutture e le
giuste condizioni economiche. Si venne a creare un
indotto che sfamava e arricchiva l’intera popolazione.
I principali centri corsari del Mediterraneo furono,
da parte cristiana, La Valletta, Livorno, Pisa, Napoli,
Messina, Palermo, Trapani, Palma di Maiorca, Almeria,
Valencia, Segna, Fiume; da parte musulmana, Valona,
Durazzo, Tripoli, Tunisi, Biserta, Algeri, Tetuan,
Larache e Salé.
Un’analisi dei fatti, scevra quanto più possibile da
preferenze e tifoserie religiose, ci dimostra che
accanto ai costanti attacchi operati dalle coste della
Barberia (grosso modo le coste dell’odierno Maghreb) da
parte di entità statali che dalla «guerra di corsa»
traevano buona parte del loro sostentamento, in terra
cristiana si organizzavano non solo cospicui affari
alimentati dalle attività delle diverse Compagnie
specializzate nel riscatto di individui fatti
prigionieri dai barbareschi (le prime furono gli Ordini
dei Trinitari, dal 1198, e dei Mercedari, dal 1235,
attivi specialmente in Spagna e in Francia), ma
soprattutto dalle vere e proprie razzie a danno delle
città costiere della Barberia attuate dalle marinerie
dei
Cavalieri di Malta e dei Cavalieri di Santo Stefano
(questi ultimi con sede a Pisa e Livorno), veri e propri
corsari, che hanno prodotto il poco noto fenomeno degli
schiavi musulmani che per un lungo periodo della nostra
storia moderna hanno svolto varie mansioni nella nostra
penisola, malgrado a lungo sia circolata l’opinione che
i soli «pirati» del Mediterraneo fossero musulmani.
Inoltre, se per le reggenze di Algeri, Tunisi e
Tripoli il prigioniero valeva essenzialmente il riscatto
(per cui, prede particolarmente ambite erano gli
appartenenti a famiglie d’alto rango. Prigionieri
particolarmente illustri “riscattati” furono il
siciliano Antonio Veneziano
e lo spagnolo Miguel Cervantes
).
Per i cristiani, invece, i prigionieri diventavano
“schiavi” maghrebini - che raramente venivano richiesti
indietro – i quali diventavano oggetto di commercio
interno e venivano impegnati nel servizio pubblico (ad
esempio come rematori sulle galere) o in ambito
domestico )specie le donne), e particolarmente rilevante
è il fenomeno degli schiavi africani utilizzati in
Sicilia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del
Cinquecento per il lavoro nei campi. Da qui il famoso
detto “Cu pigghia un turcu, è sou” (Chi arraffa
un turco ne diventa proprietario) che fa da controcanto
al più famoso “Mamma li turchi!” (Aiuto madre,
arrivano i turchi!).
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Le flotte schierate a Lepanto (arazzo,
Villa del Principe, Genova) |
Nel 1510 per ordine di
Ferdinando il Cattolico, quel che
rimaneva della popolazione di Tripoli, dopo uno dei
tanti massacri venne venduta a Palermo e arrivarono
tanti schiavi che il prezzo calò e le galere degli stati
di Ponente rinnovarono le loro ciurme e su questa
fiorente attività la tesoreria siciliana lucrava
un’imposta detta “quinta”.
(Trasselli, Da Ferdinando il cattolico, a Carlo V,
Rubettino)
Notizie dettagliate di quel mondo le apprendiamo anche
dall’opera seicentesca di Fra Diego de Haedo
Topographia e historia general de Argel, che ci
rendiconta, tra l’altro, della massiccia migrazione di
italiani verso il regno ottomano. Erano questi,
emigranti della fede che si facevano musulmani, “turcos
de profesion”, e che divenivano corsari e mercanti
di schiavi.
Per quanto concerne il Regno di Sicilia, anche qui si
ebbe una spiccata tendenza a camuffare da “guerra di
corsa” la pura e semplice pirateria necessaria a
supplire la cronica insufficienza del potenziale
marittimo militare fin dai tempi di Re Martino il
giovane. Sono tempi di ferocia e corsari “legittimi”, o
pirati che fossero, imperversavano per il Mediterraneo e
a farne le spese erano, oltre alle galere commerciali, i
poveri marinai che venivano catturati e rivenduti come
schiavi.
Terribili erano i Genovesi tanto che nel 1480 il
Viceré De Spes conclude con Genova un armistizio che
tuttavia fu assai poco onorato, specie dai Genovesi.
Questi infatti godevano di una protezione speciale da
parte di un pirata loro compatriota assai potente: il
cardinale Paolo Fregoso “che ambizioso com’era, più
volte si era impadronito della Ducale dignità; ma
discacciato dalla fazione contraria, e fuggendo, dopo
che il duca di Milano si era impossessato di Genova, si
compiaceva di esercitare lo scandaloso mestiere di
corsaro”
.
Anche i Savoia esercitarono lo schiavismo e la guerra
corsara, dando licenza e autorizzazione a Gugliemo
Prebost di operare nei mari di Barberia. I siciliani
comunque non restano certo a guardare: Il maestro
portolano, Francesco Abatellis, alla fine del 1400, mise
in fuga le Fuste Turche e riuscì a razziare le
principali città della Barberia.
Temibili pirati erano anche gli abitanti di Lipari,
che allora appartenevano a Napoli, spesso alleati dei
pirati e corsari Saraceni e che assaltavano i legni
siciliani, genovesi e quant’altro.
Molti furono i
viceré che armarono galere per fare in
proprio la guerra di corsa, predando con la scusa di
contrastare i pirati turchi. Tra questi ricordiamo il
viceré duca di Feria, che armò un galeone chiamato “Arca
di Noé” e il viceré Bernardino de Cardinas, duca di
Maqueda, che si arricchì moltissimo ma, narra la
legenda, ne morì perché in una cassa portata a corte,
insieme al ricco bottino vi trovarono un cadavere che,
probabilmente morto di peste, contagiò il viceré che
morì di lì a qualche giorno.
Marcantonio Colonna è addirittura accusato di
complicità con il famoso corsaro Uluch Aly, un calabrese
rinnegato con cui intrattenne un carteggio.
Quando, cosa non troppo rara, la carestia colpì
qualche paese mediterraneo, la pirateria venne usata per
procacciare grano. Nel 1516, il viceré Moncada, per
ovviare alla carestia che affliggeva la città di
Messina, concesse il diritto di corsa al nobile Giovanni
Enguili e concesse “di predare tutte le vettovaglie che
ritrovassero”
Senza distinzione di nazionalità o religione. Una tale
abitudine era diffusa anche tra i turchi, i napoletani e
i maltesi.
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Le flotte in battaglia a Lepanto (arazzo,
Villa del Principe, Genova) |
Riguardo il meridione d’Italia,
famoso e importante centro piratesco, di cui si ha buona
documentazione, fu Trapani. Ne il Novellino (a cura di
G. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957, p. 221), Masuccio
Salernitano, scrive «Trapani, cità nobile de
Scicilia, como multi sanno, è posta ne le postreme parte
de l’isola, e quasi più vicina in Affrica che altra
terra de’ cristiani; per la cui accagione i trapanisi
multo spesso con loro ligni armati corsiggiando
discorreno le spiagge e rivere de’ mori, fandove de
continuo grandissime prede, e anco loro sono a le volte
da’ mori depredati; de che spesse volte avviene che, per
contrattare gli recatti de’ pregioni, da parte in parte
vi fanno le tregue, e portano le mercanzie, e comparano
e vendono, e con gran facilità pratticano insiemi; per
la quale ragione pochi trapanisi sono, che non sappiano
le circustanzie de’ paesi de’ mori como sanno le loro
medesme».
Anche Salomone Marino esalta le doti degli «audaci
marinai di Trapani, che coi loro minuscoli liutelli e la
primitiva arma dei ciottoli, non solamente sanno vincere
e predare le fuste e le galeotte dei corsari
barbareschi, ma tengono rispettate le spiagge trapanesi
e paventati e indisturbati esercitano la pesca fin nei
lidi africani” (G. Bonomo, Schiavi siciliani e
pirati barbareschi, Palermo, Flaccovio, 1996, p. 36).
Interessante, e talora intrigante, è la documentazione
raccolta da Bonomo sugli usi che i Trapanesi, ma non
solo i trapanesi, facevano degli schiavi: “A Trapani
tra il 1590 e il 1610, scrive il Bonomo, molti
personaggi che vivevano di rendite di proprietà non
terriere, possedevano e avevano in affitto schiavi e
schiave addetti ai lavori casalinghi. Non sempre chi
comprava schiavi li impiegava direttamente: c’erano
mercanti che li compravano per darli in affitto,
individualmente o a gruppi, a terzi, che li richiedevano
per lavorare nei campi o nelle masserie, per cavare
pietre, per costruire case, ecc.”
Il numero delle schiave superava dell’80 per cento
quello degli schiavi. Almeno nelle registrazio-ni. Nel secolo XVI, le famiglie siciliane che possedevano
schiavi erano tenute a denunziarli e venivano denunziati
sia tra le “anime” che tra i beni mobili (“gabella degli
schiavi e bestie erranti”).
Un quadro delle piccanti vicende domestiche legate
alla presenza di belle e giovani schiave a Trapani nel
secolo XV è fornito da Carmelo Trasselli. Da alcuni
rilievi del 1593 si evince che nelle famiglie presso cui
vivono giovani schiave è frequente la presenza di figli
naturali. “Insomma molte case trapanesi erano di
fatto privati postriboli o, se si vuole un’espressione
meno cruda, dei variopinti ginecei con ragazze di razze
spesso diverse (...)”.
Non meno interessato alla schiavitù domestica era il
clero secolare, presso cui più numeroso si contava in
proporzione l’elemento servile. A Trapani per gli anni
1658-62 su cinque persone che esportano soggetti servili
due sono sacerdoti. Da parte di alcuni addirittura si crede che
quasi tutti gli ecclesiastici possedessero schiave.
Non meno importanti sono i dati che lo stesso studioso
fornisce alla materia dei “riscatti” degli schiavi e ai
“cartelli” affaristico-malavitosi e, forse,
proto-mafiosi che ne gestivano il controllo. A tal proposito riportiamo un brano tratto da G.
Bonanno, Schiavi siciliani e pirati barbareschi
(pp. 138-139 e 142-143): «La parte più angosciosa
della “storia” di Ballature è connessa alle vicende del
riscatto. Dal suo racconto emerge che in Tunisia il
riscatto degli schiavi era in subordine ai traffici
intrattenuti da intermediari della Redenzione di Palermo
per conto di potenti personaggi di Trapani con
altrettanti di Tunisi. Ciò comportava grave danno ai
“poveri schiavi”, quelli non “raccomandati” dai
trapanesi. Ballature era tra i poveri schiavi e di tale
condizione ne faceva personale tristissima esperienza.
Quando l’agognata liberazione gli sembrava prossima,
doveva constatare che altri schiavi venivano liberati
che non avevano più anni di schiavitù - lui era schiavo
da dieci anni -, non erano nella lista dei riscattandi
curata dalla Redenzione, né a questa era stata versata
per loro alcuna somma di denaro a titolo di contributo o
di anticipazione per il riscatto. Gli schiavi liberati
erano trapanesi, privilegiati da quel padron Salvatore e
da altri intermediari al servizio di gente ricca e
potente di Trapani, a quel tempo una delle città più
grandi e ricche del regno di Sicilia. Può suscitare
indignazione per il fatto in sé e il modo di comportarsi
di quel Salvatore, ma non fa meraviglia se i
riscattatori operanti a Tunisi erano “consultori et
amici” trapanesi, compreso un “cappuccino laico”,
esecutori di ordini imposti da Trapani. Ballature
accenna a trapanesi che possedevano navi, scudi d’oro, e
perciò “tanto si facea per la Redentione quanto volevano
quessi trapanesi” che riscattavano coloro per i quali
avevano interesse “et quelli poveretti per li quali le
loro genti si hanno venduto insino alle cenneri”, cioè
si erano spogliati di ogni loro avere, “et racomandati
et allistati”, erano lasciati in catene in Tunisia.
Molti amici di schiavi trapanesi erano armatori di legni
da corsa e disponevano di notevoli mezzi economici.
E’ fuori da ogni ragionevole dubbio che non pochi tra i
trapanesi catturati dai tunisini, da privilegiare per il
riscatto, erano corsari o pirati al servizio di armatori
di Trapani dediti alla corsa o alla pirateria; Trapani
era il porto corsaro per eccellenza, come si è avuto
modo di rilevare. Ballature vorrebbe dire di “altre cose
inconvenienti”, ma di esse ritiene di doverne scrivere
in questa supplica ai rettori dell’Arciconfraternita per
la Redenzione dei cattivi; certe cose, egli dice, non
possono essere dette “per scriptura”. A suo avviso
avrebbero potuto dire molto i riscattati che ritornavano
col vascello su cui anch’egli avrebbe dovuto imbarcarsi.
Ma è da dubitare che i trapanesi avessero voglia (e
licenza) di parlare del loro iter di riscattandi. (...).
Dalla lettera di Ballature alla moglie, e da quel che
egli dice del suo vivere da schiavo, dalla supplica ai
rettori della Redenzione del regno di Sicilia, ci sembra
di poter considerare in via di ipotesi legami di tipo
mafioso tra imprenditori trapanesi di corsa e di
pirateria e autorità tunisine in ordine al riscatto
degli schiavi. (...). Armatori di legni da corsa e
imprenditori di spedizioni di pirati erano a Trapani
persone che contavano per ricchezza, importanti per gli
uffici ricoperti nel governo della città e della
Sicilia: erano ammiragli, viceammiragli, ricchi
mercanti, ebrei, a volte erano cointeressati anche i
viceré di Sicilia. Non si può escludere, a nostro
vedere, che intendendosi coi tunisini non avessero
provveduto a regolamentare, a modo loro, il riscatto di
quei trapanesi che fossero catturati da legni di Tunisi,
i cui padroni, che esercitavano la corsa o la pirateria
o entrambe, erano bey, pascià, militari dei più alti
gradi, personaggi riveriti e tenuti in gran conto nel
loro paese, i quali avevano interessi non dissimili da
quelli dei trapanesi, armatori di navi e imprenditori di
scorrerie di pirati»
(G. Bonanno, Schiavi siciliani e
pirati barbareschi cit., pp. 138-139 e 142-143).
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Il ritorno della flotta cristiana da
Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova) |
L’Opera Pia del Riscatto era stata istituita a Roma
nel 1581 da papa Gregorio XIII (Bono, Corsari
barbareschi,1964) e ciò dimostra che la «redenzione
degli schiavi» non era stata affatto monopolio o
esclusiva dei due antichi ordini medievali (gli Ordini
dei Trinitari, dal 1198, e dei Mercedari, dal 1235,
precedentemente citati) ma che, specialmente negli stati
italiani, era stata esercitata da istituzioni sia
religiose che laiche, fondate e operanti su base
cittadina o «statale».
La più antica fra quelle sorte o risorte dagli inizi
del Cinquecento, in una situazione ben diversa rispetto
ai secoli precedenti è la Casa Santa della Redenzione de
Cattivi di Napoli e successivamente, l’Arciconfraternità per la Redenzione de’ Cattivi a
Palermo.
L’arciconfraternita, costituita da nobili e
gentiluomini, raccoglieva elemosine e contributi da
utilizzare per il riscatto dei “cattivi” (captivi,
catturati) dai pirati barbareschi.
Membro dell’Arciconfraternita di Palermo fu anche il
Principe di Palagonia, reso famoso e immortalato da
Goethe nei suoi diari di viaggio che lo incontrò a
Palermo il 12 aprile 1787.
Qualche istituzione per il riscatto è stata «scoperta» anche in centri urbani minori, o comunque di non
diretta proiezione marittima. Grazie all’attività di
queste confraternite molti prigionieri poterono
ritornare in patria. Lo stesso non avveniva per i
musulmani catturati dai cristiani. Nella seconda metà
del settecento i saraceni schiavi nelle corti siciliane,
italiane ed europee divennero numerosissimi.
Nell’illuminato settecento il possesso di uno schiavo
musulmano divenne uno status symbol.
Inserto
Barbarossa
Quarto figlio di un giannizzero o di un cavaliere di
origine persiana a riposo, che esercitava la
professione di vasaio, e di una donna greca, Khizr,
detto Khair ed-din ("Protett0re della Religione")
dai musulmani, Barbarossa dai cristiani, nacque nel
1478 circa a Lesbo e, allevato nella fede islamica,
seguì il padre nella sua professione di vasaio,
mentre i fratelli maggiori si davano al commercio
marittimo e alla pirateria.
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Barbarossa |
Nei primi anni del XVI secolo si trasferì col
fratello Aruj e due imbarcazioni leggere sulle coste
dell’Africa settentrionale, a Tunisi; prendendo
accordi col sultano hafsida locale, i due si diedero
alla guerra da corsa ai danni del naviglio cristiano
e delle coste italiche e iberiche. In realtà, il
capo era Aruj, mentre il fratello più giovane,
almeno all’inizio, si limitava al ruolo di rematore
di una delle sue navi. L’attività risulto tanto
redditizia che, nell’arco di un quinquennio, i due
fratelli avevano una flotta di 8 galeotte, con la
quale si trasferirono nell’isola di Djerba. Col
tempo, la loro flotta crebbe ulteriormente, come il
numero dei capitani turchi che, attirati dalla fama
delle loro imprese, veniva a porsi al loro servizio.
Nel 1512, pero, i due subirono un rovescio dagli
spagnoli a Bugia, dove Aruj lascio un braccio, e un
altro da Andrea Doria, che il giovane corsaro
incontro per la prima volta, proprio nel porto di
Tunisi.
Alla morte di Ferdinando il Cattolico, nel 1516, gli
algerini chiesero l’aiuto dei turchi per liberarsi
dagli spagnoli. La spedizione contro Algeri fu
affidata ai due fratelli, dei quali, mentre Aruj
procedeva via terra, Khizr avanzava con la flotta.
Se ne impossessarono facilmente, a parte la
fortezza, nella quale rimase insediata la
guarnigione spagnola, e l’anno seguente respinsero
un massiccio tentativo spagnolo di riconquistarla.
Ma nel 1518, con ormai l’intera Algeria in suo
potere, il titolo di governatore generale, ovvero
beylerbey, conferitogli dal sultano, e al culmine
della sua potenza, Aruj si fece sorprendere da un
esercito spagnolo fuori le mura di Algeri e cadde
combattendo col suo unico braccio.
Khizr si affrettò a richiamare l’attenzione del
sultano per farsi confermare i titoli e i possessi
del fratello, appena in tempo per fruire del suo
aiuto nel fronteggiare l’offensiva che subito gli
portarono i principi cristiani, su iniziativa di
Carlo V. Tuttavia, una tempesta devastò la flotta
della coalizione subito dopo il suo arrivo davanti
ad Algeri. Barbarossa ebbe cosi modo di dedicarsi al
consolidamento del possesso del retroterra algerino.
Con l’attenzione di Carlo V attirata in Europa e la
flessione della pressione spagnola dopo lo scacco,
il governatore ritenne che fosse anche giunto il
momento di cacciare gli spagnoli dalla fortezza di
Algeri, il Peñón. L’assedio ebbe inizio il 6 maggio
1530, con un fitto bombardamento, e si concluse due
settimane dopo con una breccia che permise ai turchi
di penetrare nella roccaforte, dove rimasero vivi
solo in 53 su 200.
Nell’estate del 1533 il Barbarossa andò a
Costantinopoli, invitato da Solimano II che lo
voleva come riorganizzatore della marina ottomana.
Un anno dopo, tonava a ovest col grado di ammiraglio
e a capo di una flotta di 84 navi, con l’obiettivo
della conquista di Tunisi. Per non mettere in
allarme il sultano tunisino, si indirizzo dapprima
verso l’Italia, dove aggredì Reggio, che sottopose a
devastazione, riducendone gli abitanti in schiavitù.
Poi risalì le coste tirreniche e saccheggio
Sperlonga e Fondi, prima di scendere verso le coste
africane e presentarsi il 16 agosto davanti al porto
di Tunisi che, scappato il sultano, non oppose
resistenza.
Ma il possesso di un caposaldo cosi prossimo
all’Italia, da parte di un pericoloso personaggio
come il Barbarossa, non poteva non indurre
l’imperatore a una reazione. Carlo V si affrettò
infatti ad allestire una nuova flotta, di ben 600
navi, che giunse davanti alla Goletta, il porto di
Tunisi, il 14 giugno 1535. Il porto cadde subito e
le truppe cristiane poterono sbarcare, costringendo
Barbarossa a combattere a terra, dove si trovò ad
avere a che fare anche con 12.000 schiavi
improvvisamente liberatisi. Fu costretto ad
abbandonare la città, ma Carlo V non lo fece
inseguire, e l’ammiraglio reagì con una
controffensiva in territorio spagnolo, aggredendo le
Baleari e facendo gran bottino.
Dopo di allora, si trasferì stabilmente a
Costantinopoli, per guidare la marina ottomana alla
conquista di solide basi sulla costa ionica
dell’Italia meridionale, che assicurassero lo sbarco
dell’esercito condotto dal sultano via terra sulla
costa opposta, in Albania. La campagna prese avvio
nel maggio 1537 ma, sebbene Barbarossa portasse
terrore e devastazione lungo le coste pugliesi e
poi, dopo la modifica dei piani di Solimano, nelle
isole greche, il solo risultato significativo fu il
cospicuo bottino che l’ammiraglio riporto a
Costantinopoli.
L’anno seguente Barbarossa opero con circa 120 galee
sullo scacchiere delle isole egee, già veneziane,
per riscuoterne il tributo, ed a fine settembre
fronteggiò abilmente la controffensiva cristiana,
cogliendo, sulla flotta della coalizione guidata da
Andrea Doria, la vittoria di Prevesa.
Un altro importante successo contro i cristiani lo
colse nel 1539, quando subentrò ad altre forze
turche nell’assedio della fortezza spagnola di
Castelnuovo, inducendone alla resa la guarnigione.
Divenuto ormai il confidente principale di Solimano,
il Barbarossa fu lo strumento dell’inedita alleanza
tra il sultano e il re di Francia Francesco I. Fu in
quest’ottica che nel 1543 il vecchio ammiraglio
condusse un centinaio di navi nuovamente alla volta
dell’Italia, mettendo ancora a sacco Reggio e le
coste calabresi, per risalire la costa tirrenica,
espugnare la fortezza di Gaeta e devastarne la
città; poi proseguì alla volta della Francia dove, a
Marsiglia, incontrò la flotta transalpina.
Le due flotte congiunte assediarono ed espugnarono
Nizza, prima di svernare a Tolone. In primavera,
Barbarossa riprese la via per Costantinopoli,
seminando nuovamente scompiglio lungo le coste
italiche, dove fecero le spese del suo passaggio
l’isola d’Elba, Procida, Ischia, le Lipari. Fu la
sua ultima impresa: mori nel suo palazzo di
Costantinopoli nel luglio di tre anni dopo, nel
1546, lasciando un figlio che sarebbe divenuto
sultano di Algeri ma, soprattutto, un luogotenente
come Dragut, altro incubo per le marine e le coste
cristiane.
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Dragut, pirata-ammiraglio turco |
Valutazione
Il Barbarossa fu un corsaro che si servì del mare
per procurarsi un dominio a terra, che consolidò con
le sue imprese permettendo all’impero ottomano di
contare su una salda base avanzata nel Mediterraneo
occidentale fino al XIX secolo. La sua guerra da
corsa non fu mai fine a se stessa e, se all’inizio
rispondeva all’ambizione di costituirsi un dominio,
in seguito fu parte essenziale della strategia
aggressiva di Solimano. Il condottiero rimase
pressoché imbattuto in un periodo in cui i turchi,
per mare, solitamente le prendevano dai cristiani, e
soprattutto da Andrea Doria, che non riuscì mai a
sconfiggere il Barbarossa.
Esperto nella progettazione e nella costruzione
delle navi, nonché nell’arte nautica e nelle manovre
di arrembaggio, Barbarossa riformò la marina turca e
ne coordinò gli sviluppi, dimostrandosi uno dei più
abili ed efficienti organizzatori del suo tempo.
Sotto il suo comando e le sue riforme, gli equipaggi
ottomani si dimostrarono i migliori del bacino
mediterraneo, e il suo talento logistico gli garantì
le spalle coperte dovunque si spingesse nelle sue
azioni.
Finché fu solo pirata, il suo scopo fu la cattura
dei bastimenti; pertanto, basò le sue azioni sulla
rapidità di movimento e preferì valersi di galeotte,
piccole imbarcazioni veloci e leggere a una sola
vela ed a 14 remi per lato, che lo facilitavano
nell’abbordaggio. Da grande ammiraglio della flotta
turca, si valse di navi più potenti, ma le galeotte
rimasero parte della sua flotta.
Elusivo quando voleva esserlo, incalzante e
aggressivo quando aveva necessità di stringere i
tempi, Barbarossa era un condottiero astuto ed un
abile stratega, un fine diplomatico e anche un
capace generale di truppe a terra. Non di rado le
sue azioni sul mare furono coronate da azioni sul
fronte terrestre, con combattimenti tra soldati o
assedi a fortezze. I suoi raid erano rapidi e
devastanti, i suoi saccheggi e le distruzioni
esemplari.
La battaglia: Prevesa
Nel corso delle operazioni di fine estate del 1538 a
Creta, Barbarossa venne a sapere che gli occidentali
stavano reagendo ai suoi movimenti, mettendo in mare
una flotta di navi genovesi, veneziane, spagnole e
pontificie al comando di Andrea Doria. Rinforzato da
una squadra egiziana di 20 galee, l’ammiraglio turco
andò loro incontro, avanzando nello Ionio.
Le due flotte si incontrarono presso Corfù, dove
stazionava parte della flotta imperiale in attesa
dell’arrivo del contingente condotto da Andrea
Doria. Barbarossa si posizionò subito nel golfo di
Arta, dove poteva fruire del retroterra amico e dei
cannoni della fortezza di Prevesa, e dove lo spazio
ristretto vanificava il vantaggio numerico del
nemico. Una volta arrivato anche il Doria, il 25
settembre la flotta cristiana mosse verso
l’imboccatura del golfo.
L’ammiraglio genovese cercò senza esito di stanare
l’avversario, decimandogli le truppe di terra a
protezione di Prevesa, e mandandogli un’esca
costituita da una squadra di navi; dopo due giorni,
finì per spostarsi a sud, obbligando l’avversario a
inseguirlo. Ma il vento era debole, in quella
stagione, e la flotta mista del Doria, costituita da
galere e galeoni, si sfilacciò lungo la costa di
Leucade, lasciandosi molto dietro le navi più
massicce. Nel corso della giornata del 28,
Barbarossa avanzò contro le imbarcazioni
ritardatarie, alla testa del centro del proprio
schieramento, mentre l’ala destra era affidata a
Dragut, e la sinistra a Salah Rais; rastrellò sette
galere spagnole, veneziane e pontificie, senza
perdere un battello, ma senza riuscire a scalfire le
difese della possente ammiraglia veneziana.
Andrea Doria, probabilmente compiaciuto per le
difficoltà in cui si dibattevano i detestati
veneziani, tardò a tornare indietro e, quando lo
fece, preferì portarsi al largo, cercando ancora di
attirare il nemico a dar battaglia in uno spazio
aperto. Ma Barbarossa si ritirò lungo la costa, e il
giorno seguente il Doria, forse in difficoltà nella
gestione di una flotta tanto eterogenea, preferì
andarsene.
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Pirati e corsari imperversano nel Mediterraneo per
tutto il settecento, il secolo dei lumi, e la storia
della schiavitù nei paesi europei del Mediterraneo si è
protratta sino al 1830, ed ebbe termine con
l'indipendenza della Grecia e la contemporanea
occupazione francese dell'Algeria; nel 1856, infine,
durante il congresso di Parigi, le grandi potenze ne
decreteranno ufficialmente la soppressione.
La storia della schiavitù nel mediterraneo è stata
tuttavia sempre circondata da omertoso silenzio e tacita
rimozione e se nelle opere generali sulla storia della
schiavitù si trovano poche pagine a proposito della
schiavitù dei cristiani nei paesi islamici del
Mediterraneo, nulla si dice sull’altra faccia della
medaglia, sulle migliaia e migliaia di musulmani
catturati sul mare e per terra e “commercializzati” in
tutti i paesi d’Europa.
Come detto, la Dichiarazione di Parigi del 1856 proibì
la guerra di corsa e mise fuorilegge la figura del
corsaro, affermando che solo le Navi da Guerra sono gli
unici soggetti che hanno diritto di partecipare alle
ostilità.
Ciononostante bisogna dire che la pirateria non ha mai
cessato di esistere, come documentano anche i recenti
episodi avvenuti nel Golfo di Aden e nel Corno d’Africa
e nell'Oceano Indiano. I pirati, originari della Somalia
e facilitati dal vuoto di potere esistente da anni in
quel Paese, e dalla Nigeria, agiscono su tutto il
versante dell'Africa orientale, spingendosi fino alle
Seychelles e al Madagascar.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Novembre 2011
Inserto
Francis Drake
Nel XVI secolo era in corso la partita per il dominio
sui mari, il cui vincitore avrebbe avuto la possibilità
di dominare il mondo nei secoli a venire; i contendenti
erano la Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di
Elisabetta I. Le rotte lungo le quali procedevano i
galeoni stracarichi d’oro dalle Americhe alla Spagna
divennero pertanto il campo d’azione di razziatori e
pirati, le cui imprese ben presto Elisabetta autorizzò e
sostenne, per porle al servizio del suo regno.
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Francis Drake, spietato pirata inglese |
Il primo di questi individui a fruire di una patente da
corsa fu John Hawkins il quale, nel suo terzo viaggio,
nel 1567, porto con sé il cugino Francis Drake, un
ventisettenne figlio di un piccolo proprietario del
Devonshire. Ma l’impresa si risolse in un disastro. Dopo
aver praticato la tratta degli schiavi tra la Sierra
Leone e il Venezuela, ed aver depredato alcune navi
portoghesi, i corsari, a bordo di una flottiglia di sei
vascelli, pervennero a Vera Cruz, in acque territoriali
spagnole, proprio mentre arrivava una flotta iberica con
a bordo il viceré della Nuova Spagna. Gli spagnoli non
esitarono a sparare e, davanti alla postazione avanzata
di San Juan de Ulua, il loro numero largamente superiore
mise subito a mal partito gli inglesi, che persero
quattro navi; Hawkins e Drake, il primo accuso
quest’ultimo di essere fuggito abbandonandolo, se la
cavarono, ma la regina fu molto irritata, sebbene
l’opinione pubblica britannica li vedesse come eroi.
Il peggioramento delle relazioni diplomatiche tra i due
paesi, comunque, indusse Elisabetta a rinnovare il
proprio sostegno alla guerra da corsa, cosicché Drake
poté continuare a farsi le ossa con una serie di
spedizioni di contrabbando nelle Antille, prima di
ricevere, nel 1572, espressa autorizzazione ad attaccare
Nombre de Dios, il porto dove gli spagnoli ammassavano i
tesori scavati nelle miniere del Centro America.
Drake salpò da Plymouth con due grosse navi, la Pasha
e la Swan, ed una settantina di uomini. Dopo un
mese e mezzo di navigazione, il corsaro si impadronì di
due navi spagnole, grazie alle quali ingrandì la propria
flotta, ed all’alba del 29 luglio piombò, del tutto
inaspettato, su Nombre de Dios, impadronendosene con
facilità. La reazione degli spagnoli, però, facilitata
dalle difficoltà di trasporto dell’enorme bottino, gli
procurò una ferita alla coscia, a causa della quale non
fu più in grado di guidare i propri uomini, che solo a
stento riuscirono a riguadagnare le imbarcazioni. Riuscì
tuttavia a salpare ed a trarre ulteriori frutti dalla
spedizione. Poco dopo, infatti, catturò un altro galeone
spagnolo ed incendiò Portobelo, prima di fermarsi
nell’istmo di Darién, con l’intenzione di raggiungere il
Pacifico, che nessun inglese aveva mai visto. Poté
soltanto scorgerlo dalla cima di un albero, dopo aver
attraversato foreste e paludi accompagnato da diciotto
dei suoi e da una trentina di indiani cimarron, ma ciò
fu sufficiente a convincerlo che la navigazione in
quell’oceano sarebbe stato il suo successivo obiettivo.
Dopo un’ulteriore razzia ai danni di una carovana, che
gli fruttò 30 tonnellate d’argento, Drake rintracciò la
sua flotta e fece ritorno a Plymouth, dove sbarcò, nel
tripudio generale, il 9 agosto 1573. Dopo una missione
diplomatica e militare in Irlanda, riuscì a trovare
sovvenzioni e appoggio por raggiungere il Pacifico
attraverso la via meridionale aperta da Magellano,
poiché Frobisher non era riuscito a trovare il passaggio
a nord-ovest. Drake partì nel dicembre 1577 con cinque
navi e 160 uomini,tenendo segreto l’obiettivo della
spedizione. Dovette sopportare ammutinamenti e tempeste
che, nello stretto di Magellano, affrontato nell’agosto
del 1578, gli fecero perdere due vascelli e lo
costrinsero a vagare per due mesi privo di orientamento,
prima di riuscire a risalire la costa del Pacifico. Dopo
di allora, fu in grado di riprendere le sue scorrerie,
saccheggiando Valparaiso e Callao, il porto di Lima.
L’impresa più proficua fu però l’inseguimento e la
cattura della Cacafuego, un galeone spagnolo che
trasportava un quantitativo tale di preziosi che, si
disse, parte del carico dovette essere gettata in mare.
Drake continuò a risalire la costa fino all’altezza
della California, dove virò a ovest procedendo in mare
aperto senza incontrare terra per oltre due mesi. Giunse
nelle Filippine in ottobre, per ripartire poi alla volta
del Capo di Buona Speranza e tornare in Inghilterra,
dove giunse il 26 settembre 1580, dopo aver compiuto il
giro del mondo in due anni e mezzo. Nonostante Filippo
pretendesse la consegna di colui che era ormai noto come
il più grande bandito del mondo, la regina lo nominò
cavaliere il 4 aprile 1581.
Negli anni seguenti, le relazioni tra i due contendenti
peggiorarono a tal punto che Elisabetta fu indotta, nel
1585, ad autorizzare una spedizione in grande stile, al
cui comando pose lo stesso Drake, con Frobisher come
contrammiraglio. ll corsaro condusse con sé 25 navi alla
volta delle Americhe, ma già poco dopo la partenza si
rese protagonista di un audace colpo di mano,
avventandosi contro il porto spagnolo di Vigo,
scarsamente presidiato, e impadronendosi di un bottino
di 30.000 ducati d’oro. Quindi fece vela verso Santo
Domingo, la cui capitale sottopose a saccheggio, prima
di continuare lungo le coste continentali le sue razzie,
culminate con i 110.000 ducati d’oro ottenuti dal
governatore di Cartagena come riscatto.
La guerra tra i due blocchi contrapposti fu sancita
dall’esecuzione di Maria Stuarda nel 1587, che indusse
Filippo a preparare l’invasione dell’Inghilterra. Drake
cercò di convincere la regina a colpire in anticipo,
approfittando della debolezza degli spagnoli in casa
propria, che egli stesso aveva saggiato due anni prima;
Elisabetta era orientata ad assecondarlo, ma poi preferì
rinunciare, troppo tardi per impedire al corsaro di
attaccare il porto di Cadice.
Le scorrerie di Drake proseguirono in maggio quando, il
10, affondò altre 24 navi di fronte a Cascais;
successivamente, colpi una delle principali basi di
approvvigionamento spagnole, capo San Vicente, e si
impossessò di un galeone carico d’oro e di informazioni
sulle rotte iberiche con le Indie. L’anno seguente il
corsaro partecipò alla battaglia contro l’Invincibile
Armada come viceammiraglio, a bordo della
Revenge; secondo gli ordini, doveva guidare
l’inseguimento alla flotta nemica, ma si staccò dai suoi
per catturare la Rosario. Passò poi all’offensiva nel
1589, per dare attuazione al suo piano di sottrarre alla
Spagna Lisbona e le Azzorre, senza pero riuscirvi.
Fu solo nel 1595 che Elisabetta gli affidò una nuova
spedizione, che aveva come obiettivo il saccheggio di
Portorico. Drake ebbe a disposizione 25 navi e 2000
uomini, oltre all’apporto di suo cugino John Hawkins,
che però, già malato, morì in mare. Stavolta gli
spagnoli furono in grado di opporre resistenza
all’attacco, e il corsaro dovette ridimensionare i suoi
obiettivi, procedendo verso l’istmo, dove non fu in
grado di arrivare a Panama neanche via terra. Si limitò
pertanto a saccheggiare ed incendiare, ancora una volta,
Nombre de Dios, per poi morire a bordo della Defiance,
al largo della costa di Veragua, il 28 gennaio 1596.
Valutazione
Drake ha molti meriti, agli occhi degli inglesi. Fu il
primo britannico a circumnavigare il globo e uno dei più
lesti a intuire la vulnerabilità delle rotte e dei porti
spagnoli, rivestendo un ruolo fondamentale in una guerra
che faceva del possesso delle ricchezze oltremare non
solo uno degli obiettivi principali, ma anche il motore
del conflitto stesso. Concepì al riguardo un vasto piano
strategico che andava al di là delle semplici razzie di
cui erano stati protagonisti i suoi predecessori e
contemporanei, e costituì un modello per chiunque
volesse farsi pirata. Il frutto delle sue imprese, è
stato detto, costituì la sorgente e l’origine degli
investimenti oltremare, che avrebbe portato
all’istituzione della famigerata Compagnia delle Indie
Orientali.
Abile tattico, basò quasi tutti i suoi successi
sull’effetto sorpresa. Le sue straordinarie doti
marinare lo resero uno dei più grandi strateghi d’acqua
che siano mai esistiti, in un’epoca in cui la guerra
navale non aveva avuto ancora uno sviluppo autonomo in
termini concettuali. Fu grazie alla sua impresa di
Cadice, infatti, che Filippo II dovette ritardare
l’allestimento della flotta d’invasione; e fu sempre
grazie alle sue intuizioni che la flotta inglese
concentrò le proprie forze sull’accesso occidentale alla
Manica, il che si rivelò determinante per la sconfitta
spagnola.
La battaglia: Cadice
Nell’aprile del 1587, grazie alla cattura di
un’imbarcazione spagnola, Drake venne a sapere che a
Cadice stazionava un gran numero di vascelli, e in capo
a tre giorni, il 19 dello stesso mese, si presentò
davanti al porto iberico. Si apprestava a far sera e,
mentre i suoi subalterni discutevano sul modo migliore
di penetrare nella baia più esterna, il comandante guidò
la sua Elisabeth direttamente dentro di essa, seguita
immediatamente delle altre undici navi di cui disponeva.
Vi trovo ormeggiata una sessantina di galee. Gli si fece
incontro prima una galea, quindi un galeone genovese, ed
affondò entrambi, quindi si spinse a ridosso del
castello, prevalendo nello scontro con le navi
avversarie grazie alla maggior gittata dei suoi cannoni.
Prima che facesse buio, Drake aveva gettato l’ancora nel
canale di collegamento tra la baia esterna e quella
interna, bruciando una parte del naviglio spagnolo.
Nel frattempo, gli abitanti erano in preda al panico, e
molti finirono calpestati dai loro stessi concittadini;
altri, invece, si armarono e corsero alle batterie,
supportati, il mattino seguente, da contingenti di
rinforzo, che allestirono una serie di fortificazioni
lungo il fiume. La reazione spagnola si concretizzò nel
cannoneggiamento alle navi inglesi che, però, erano in
gran parte fuori gittata, a parte la Golden Lion,
che ebbe l’albero spezzato, e il cui comandate asserì in
seguito di essere stato l’unico a combattere mentre
tutti gli altri si davano al saccheggio.
Ad ogni modo Drake, dopo essersi effettivamente
impossessato di un ricco bottino ed aver distrutto 33
navi, approfittò del vento che spirava verso il largo
per svincolarsi, senza compire ulteriori tentativi di
conquistare Cadice. |
Note
Rosario La
Duca, Cartografia generale della città di
Palermo e antiche carte della Sicilia - 1975,
pag 273.
Benché spesso
confusi con i pirati, i corsari erano
combattenti al servizio di un governo che, in
cambio di un'autorizzazione a rapinare navi
mercantili nemiche (lettera di corsa, da qui
corsari) per conto del governo, venivano pagati
con una percentuale del bottino. La differenza
più importante fra pirati e corsari era che
questi ultimi, se catturati, soggiacevano alle
norme previste dal diritto bellico marittimo,
come un qualsiasi prigioniero di guerra, mentre
i pirati catturati erano sommariamente
giustiziati, in genere per impiccagione al
pennone di una nave. Anche i marinai barbareschi
che operarono tra il XIV e il XIX secolo dalle
coste marocchine, algerine, tunisine o libiche,
non erano pirati; ciò è dimostrato dal fatto che
i corsari barbareschi non aggredivano navigli
musulmani ma rapinavano solo imbarcazioni
cristiane.
Nell'alto Medioevo furono grandi pirati i
vichinghi (detti anche normanni) e i danesi
contro i cristiani (latini a ovest e slavi a est
d’Europa), ma nel basso Medioevo lo furono i
cattolici latini contro arabi e bizantini e,
finito nominalmente il Medioevo, lo furono i
turchi contro i cristiani e viceversa.
Con le loro
leggere navi dal fondo piatto, che potevano
essere anche messe su ruote, i Normanni
risalivano i fiumi e depredavano i villaggi. In
Francia si stabilirono permanentemente e dalla
Normandia occuparono l'Inghilterra e il
Mezzogiorno italiano, cercando di espandersi in
Africa e nell'impero bizantino. Le città erano
terrorizzate dai pirati Normanni e, per
difendersi dai loro attacchi, iniziarono a
proteggere e a dare rifugio ai pirati bizantini
che potevano aiutarle a difendersi.
Dal XIV sec.
al XVIII Venezia fu in grado di controllare
l'intero Adriatico non solo grazie ai suoi
commerci ma anche grazie alla sua pirateria (uno
dei più famosi fu il corsaro e mercenario Andrea
Doria).
Dal turco
qarāmussāl, tipo di vascello turco a tre alberi
del sec. XVII, slanciato e dotato di coperta e
di alto cassero.
E' questa una pratica assai diffusa, tanto che
anche le galere di stati colpiti dalle carestie
operano allo stesso modo, costringendo le
imbarcazioni onerarie a lunghe e pericolose
peripezie per arrivare sane e salve in porto.
Nacque a
Monreale nel gennaio del 1543 e morì a Palermo
il 19 agosto 1593. Visse in maniera alquanto
avventurosa e grazie alla sua intelligenza e
alla sua versatilità di poeta ebbe una grande
fama sia in Sicilia che all'estero. Salpato per
seguire Carlo d'Aragona, venne imprigionato ad
Algeri dove conobbe Miguel de Cervantes e ne
divenne amico,tanto che lo stesso, nel 1579, gli
dedicò una epistola in dodici ottave, opera che
Cervantes reputò di un certo valore tanto che
quasi settanta versi vennero reinseriti nella
commedia El trato de Argel che narra della
prigionia in Algeri. Che l'amicizia fosse venata
di ammirazione da parte di Cervantes, lo si
deduce dalla novella El amante liberal in cui
l'autore narra di un prigioniero siciliano che
sapeva magnificare, nel ricordo, la bellezza
della sua donna esprimendosi in versi sublimi,
probabilmente si trattava della Celia, l'opera
più famosa di Veneziano. Nel 1579 Antonio
Veneziano venne liberato e tornò in Sicilia. Nel
1588 fu imprigionato per aver scritto un libello
contro il governo. Morì, nel 1593, a Palermo nel
carcere del Castello a Mare di Palermo per lo
scoppio della polveriera del castello. La
leggenda narra che il suo corpo fu rinvenuto tra
le macerie con un grappolo di uva in mano. La
sua opera è vastissima. Scrisse prevalentemente
poesie in siciliano, ma si dedicò anche
all'italiano e al latino. La sua opera
principale è l'elogio Celia, dedicato alla donna
amata, forse una nipote, e composto durante la
prigionia ad Algeri.
Nel 1570 Cervantes (Alcalá de Henares, 1547 –
Madrid 23 aprile 1616), universalmente noto per
essere l'autore del romanzo Don Chisciotte
della Mancia, si sposta in Italia per
evitare la condanna al taglio della mano destra
ed a dieci anni d'esilio perché accusato di aver
ferito un certo Antonio de Segura. In Italia è
prima cortigiano, anche presso la corte degli
Acquaviva, nel Ducato di Atri in Abruzzo. Nel
mese di settembre del 1571 s'imbarca come
soldato sulla galea Marquesa che fa parte
della flotta della Lega Santa che sconfiggerà
quella turca nella battaglia di Lepanto il 7
ottobre dello stesso anno. Nella battaglia
rimane ferito e perde per sempre l'uso della
mano sinistra. Nel 1575 parte da Napoli per la
Spagna con alcune lettere di raccomandazione che
dovrebbero procurargli il comando di una
compagnia. Ma la galea Sol sulla quale
viaggia viene assalita dal rinnegato Arnaut Mami
e, catturato dai pirati, viene tenuto in
cattività per cinque anni fino al pagamento di
un riscatto, ad opera delle missioni dei
trinitari, fondate da San Giovanni de Matha. È
il 24 ottobre del 1580. Negli anni di prigionia
conobbe Antonio Veneziano e ne divenne amico,
tanto che Cervantes, nel 1579, gli dedicò
un'epistola in dodici ottave, opera che
Cervantes stesso reputò di un certo valore,
tanto che quasi settanta versi vennero
reinseriti nella commedia "El trato de Argel",
che narra della prigionia in Algeri. Che
l'amicizia fosse venata di ammirazione da parte
di Cervantes, lo si deduce dalla novella "El
amante liberal", in cui l'autore narra di un
prigioniero siciliano che sapeva magnificare,
nel ricordo, la bellezza della sua donna
esprimendosi in versi sublimi; probabilmente si
trattava della "Celia", l'opera più famosa di
Veneziano.
I figli naturali venivano spesso avviati alla
vita ecclesiastica e per farli nascere “liberi”
la schiava che li partoriva veniva resa libera
prima del parto. Anche San Benedetto il moro,
uno dei protettori di Palermo, era figlio di una
schiava nera residente a San Fratello )Giovanna
Fiume, Marilena Modica, San Benedetto il Moro,
in F.P. Castiglione, Dizionario delle figure,
delle istituzioni e dei costumi della Sicilia
storica, Sellerio, p. 419.
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Anche San Benedetto il moro, uno dei protettori
di Palermo, era figlio di una schiava nera
residente a San Fratello (Giovanna Fiume,
Marilena Modica, San Benedetto il Moro, in F.P.
Castiglione, Dizionario delle figure, delle
istituzioni e dei costumi della Sicilia storica,
Sellerio, p. 419.
Bibliografia
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-
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nell’età di Filippo II, Einaudi, 2002
-
Castiglione, F.P., Dizionario delle figure, delle
istituzioni e dei costumi della Sicilia
storica, Palermo,Sellerio, 2010
-
Frediani A., I grandi condottieri che
hanno cambiato la storia, Newton Compton
2011
-
Lenci, M.,
Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel
Mediterraneo Carocci, 2006
-
Trasselli C., Da Ferdinando il cattolico a Carlo V,
Rubettino, 1993
-
wikipedia.org/wiki/Pirateria
Pagine correlate
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