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Eleonora de Fonseca Pimentel ed Ettore Carafa Conte di Ruvo

Particolari inediti da nuove ricerche

di Antonella Orefice

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2009

 

Tratto dall’intervento di Antonella Orefice alla presentazione del libro Eleonora de Fonseca Pimentel ed Ettore Carafa Conte di Ruvo, Particolari inediti da recenti ricerche storiche (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 28 aprile 2009).

Questa pubblicazione è il compendio di una ricerca decennale, un lavoro lungo, estenuante, ma certo avventuroso, che ho iniziato nel lontano 1996 grazie al sostegno morale e professionale di Maria Antonietta Macciocchi, con cui ho avuto l’onore di collaborare negli ultimi anni della sua vita e di cui per sempre conserverò un caro ricordo. Ma anche se non c’è più fisicamente tra noi, mi consola adesso il sentore della sua presenza, ed allora la ringrazio per tutto quanto da lei ho ereditato e che con sacrificio ho portato e spero portare ancora avanti.

La nostra conoscenza avvenne nel 1996, quando con tanto timore inviai a questa signora un po’ attempata e dal carattere irascibile un romanzetto metastorico dedicato ad Eleonora che da poco avevo pubblicato. Imparagonabile certo alla Cara Eleonora che Maria Antonietta aveva scritto un anno prima, ma che comunque lei lesse ed accolse con piacere, definendolo un piccolo componimento musicale, romantico e coinvolgente, tanto da averla addirittura commossa. Ci conoscemmo di persona e da lì nacque da subito, oltre alla collaborazione professionale, un bel rapporto d’amicizia, affettuoso come tra una nonna ed una nipote, considerato che all’epoca non ero ancora trentenne e lei andava per gli ottanta.

E sempre al 1996 risale la conoscenza di colui che negli anni ho definito il mio “angelo custode in terra” il professore Piersandro Vanzan, con cui stasera finalmente abbiamo realizzato un sogno sospirato da anni, e che, alla pari di Maria Antonietta, mai troverò le parole giuste per ringraziarlo per tutto quanto abbia fatto per me, sia professionalmente che amichevolmente.

Dieci anni di ricerche, dunque, dieci anni di lavoro portato avanti certo con passione, tenacia e sacrificio, ma che alla fine, come una lunghissima gestazione ed un dolorosissimo travaglio ha dato alla luce qualcosa che mi ha lautamente ripagata. Parlare stasera di Eleonora e di Ettore nel palazzo Serra di Cassano ed aver avuto l’opportunità di pubblicare il mio lavoro per il prestigioso Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, penso sia certo la ricompensa più grande e più ambita per un ricercatore storico. Un doveroso ringraziamento, dunque, all’avvocato Gerardo Marotta ed al professore Antonio Gargano per avermi offerto questa grande opportunità di cui non posso che esserne fiera.

Riportare Ettore ed Eleonora tra queste mura, dove duecento anni fa la loro voce era viva e piena di speranze, significa realizzare Et haec olim meminisse juvabit, E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo, tutto quanto desiderò e auspicò Eleonora prima di avviarsi al patibolo. Ed ancora realizzare quello che fu il motto dei Carafa, hoc fac et vives, fa’ questo e vivrai.

Ho affrontato questi lunghi anni di ricerche come una missione. Dopo essermi imbattuta in una serie di contraddizioni relative a topiche e mistificazioni che mi saltavano agli occhi via via che esaurivo la ricerca bibliografica, soprattutto sulla Pimentel, ho sentito forte l’esigenza di andare alle fonti documentarie, le uniche in grado di fare chiarezza su una serie di dubbi che le tante letture mi avevano fatto sorgere. Ed allora ho iniziato ad immergermi nella polvere degli archivi, toccando con mano documenti dalla scrittura a volte fastosa, altre fitta, quasi illeggibile. Non mi sono mai lasciata vincere da tutto ciò che il custode del tempo rendeva incomprensibile, sibillino, anzi. Mi lasciavo torturare la mente da quei frammenti oscuri, tortuosi, indecifrabili che saltavano fuori tra righe sbiadite, consumate dalla polvere dei secoli. Era come un avventurarsi per sentieri serpentini, interminabili, intricati, dove il rigore dello storico è messo a dura prova dall’intreccio esoterico, storia e leggenda si fondono insieme, tanto da non distinguerne più i contorni.

Perché Eleonora, perché Ettore? A più riprese negli anni mi è stata rivolta questa domanda. In effetti posso ora dire che è stato un continuo divenire il mio rapporto con loro, in particolar modo con Eleonora: da curiosità adolescenziale, a figura protettrice, da esempio di vita ad oggetto di ricerca, ma forse nel tempo sono entrambi divenuti troppo coinvolgenti per ridurli ad un mero argomento di studio. Piuttosto direi la continua scoperta e riscoperta della profondità di un io da disseppellire dalla polvere dei secoli, frammento per frammento, pensiero su pensiero.

Eleonora, una donna settecentesca su cui tanto si è scritto, tanto da farla apparire nella letteratura giacobina, una martire santificata e sacrificata per la causa rivoluzionaria, mentre in quella borbonica una esaltata mentale, senza mezzi termini, un esempio negativo di donna che pur di fare storia ha sacrificato se stessa, dissacrando con un divorzio i canoni di una donna rispettabile: marito, chiesa e sacra famiglia.

Io credo che Eleonora sia stata fondamentalmente una donna vissuta in un tempo che non le apparteneva, come un personaggio venuto dal futuro e costretto a vivere nel passato. Una donna coraggiosa, fortificata dalle sofferenze di una vita di coppia infernale, un figlio mancato, un qualche amore impossibile serbato nel cuore. Una donna a cui quella vita non ha dato modo di realizzare i desideri più dolci, ma ha concesso di morire libera e sola, nella sua individualità di donna fuori da quel tempo.

La penna è stato forse questo l’unico dono concessole, la penna, l’unica arma che lei ha saputo usare alla stregua di una spada per sedare la sofferenza di un figlio morto, a difesa ed esaltazione della causa rivoluzionaria. Ma non sono solo gli scritti di Eleonora che ora ci restano per ricordarla. E’ il suo esempio di vita, il coraggio con cui si è aggrappata a quello che alla fine è stato il suo unico bene: la libertà.

Libertà di pensiero, di azione, libertà di vivere andando controcorrente, precorrendo i tempi. Libertà di amare intensamente un ideale, un amore impossibile, libertà di non lasciarne traccia, ma solo vaghe intuizioni. E’ quanto mi è sembrato di percepire tra le righe del Monitore con cui esalta e poi adombra Ettore Carafa, il conte di Ruvo, altro emblema della repubblica napoletana del 1799.

Ettore ed Eleonora, due facce opposte di una stessa medaglia, uniti, indivisibili, profondamente diversi, ideologicamente uguali. Ettore, come Eleonora, un uomo che precorre il suo tempo, uno spirito libero, ambizioso, deciso, pronto ad affrontare qualsiasi ostacolo pur di raggiungere il suo obiettivo. Un uomo che arruola nella sua legione i “prevetarielli” a condizione che in guerra sapessero usare in tutti i sensi, come lui stesso diceva “le palle”. Un uomo mosso da un po’ di esuberanza giovanile, dal volto ingrugnato ed incupito, un carattere apparentemente presuntuoso, ostinato, rude, ed anche un po’ provinciale, ma che si scopre tenero amando gli animali, tanto da aver insegnato al suo cavallo a salire le scale del palazzo, un cavaliere romantico che protegge monache e fanciulle, che ama farsi vedere vestito alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi ed il panciotto rosso, e poi li mette da parte per indossare la divisa da generale della repubblica, organizza balli di società mentre cospira con la massoneria, canta la Carmagnola coi suoi soldati, preoccupandosi delle riserve di olio e vino, affronta i nemici con diplomazia, non teme la morte, anzi la aspetta, ama profondamente e segretamente Eleonora, forse, ma da gentiluomo, non ne lascia traccia. Troppo sconvenevole probabilmente per un affascinante nobile di trentuno anni libero ed una donna ultra quarantenne con un divorzio alle spalle. O forse un amore troppo intenso ed incomprensibile per chi sta al di fuori, ed allora meglio tenerlo custodito gelosamente nel cuore.

Come per Eleonora, anche per Ettore la storia è stata controversa: da traditore del suo feudo, Andria, ad eroe della rivoluzione. Certo è che Napoli, soprattutto con Ettore è stata molto avara di riconoscimenti. Non una strada intitolata, fatta eccezione per una vaga Via conte di Ruvo, senza specificarne quale dei 25. E come se ciò non bastasse il suo palazzo nel largo San Marcellino ospita un istituto scolastico intitolato addirittura alla regina Elena di Savoia. Oltre il danno anche la beffa, sembra proprio il caso di dirlo. A differenza di Eleonora, sulla cui tomba scomparsa si è ammantato il mistero, i resti di Ettore sono stati gettati in una umida fossa comune nell’atrio della chiesa del Carmine Maggiore e non c’è più speranza di poterli recuperare.

La ricerca della tomba di Eleonora, invece, che è già stata pubblicata nel 2007 nel volume terzo dell’archivio della storia delle donne, ha avuto nell’arco di un decennio risvolti totalmente inediti e comunque, pur nel futuristico tentativo di proseguirla, allo scopo di trovarne un oggettivo riscontro, operando a tal fine una ricerca scientifica rigorosa tanto quanto sia stata quella storica, sono certa che conserverà la sua patina di mistero. Ho cercato di andare oltre quel luogo comune che, scomparendo la congrega di Santa Maria di Costantinopoli, sia scomparso con essa anche il cadavere di Eleonora che lì fu seppellito il 20 agosto nel 1799. Ho analizzato con minuzia i registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia, in altre parole quelli dei monaci incappucciati che all’epoca avevano il triste compito di accompagnare e confortare i condannati a morte e poi provvedere al loro funerale. Ho battuto a tappeto biblioteche ed archivi, in particolar modo quello diocesano dove ho trovato aiuto e sostegno impagabile da parte del direttore don Antonio Illibato, divenuto poi mio rigoroso critico e maestro di ricerche e della signorina Carmela Salomone, con cui è sorta da subito una grande compartecipazione. Ho spulciato per mesi e mesi registri, documenti relativi a chiese soppresse, atti ministeriali, ho cercato di farli dialogare tra loro seguendo un filo logico e cronologico, ho ripercorso strade, piazze, confrontando piante topografiche di ora e di allora, riflettendo, analizzando, scartando ipotesi, accumulando indizi, prove, fino a giungere nel febbraio del 2006. Mi sono ritrovata di fronte alla statua de La Religione di Tito Angelini: una bellissima scultura in marmo che campeggia al centro del chiostro monumentale del cimitero di Poggioreale. Rappresenta la Madonna che innalza la palma della gloria ed ai suoi piedi quattro angeli in preghiera. Da lì la ricerca su questo scultore napoletano vissuto nell’ottocento, figlio di Costanzo Angelini, ritrattista della corte borbonica e parente di Orazio Angelini, architetto che partecipò ai lavori di restauro del complesso religioso di sant’Eligio, dove era ubicata la congrega di Santa Maria di Costantinopoli. Tito Angelini, nacque durante il decennio francese, visse il ritorno dei Borbone, i moti del 20 e del 21, quelli del ’48, fino alla unificazione dell’Italia nel ‘60. In altre parole visse gli anni in cui la repressione di quella monarchia oscurantista aveva alimentato un dirompente desiderio di liberazione ed ammirazione per i patrioti che per la libertà avevano speso la vita. Quando la censura borbonica ebbe fine Angelini si sentì finalmente libero di immortalare il sacrificio dei martiri del 1799, in quattro bassorilievi in terracotta, ed in particolar modo l’esecuzione di Eleonora. Ma nel 1836, ancora nel pieno della repressione borbonica, mentre lavorava nel chiostro del cimitero, Angelini, testimone forse involontario di un segreto di famiglia, ne affidò l’arcano messaggio alla sua statua: e così il 1836 si rivelò per la mia ricerca impossibile un anno chiave, il filo rosso per giungere ad una svolta: 1836 anno in cui fu costruito il cimitero di Poggioreale, 1836 anno dell’entrata in vigore di una legge che ordinava l’espurgo delle ossa dei defunti delle terre sante e la traslazione al nuovo cimitero, 1836 anno in cui Santa Maria di Costantinopoli venne abbattuta ed il nipote di Eleonora, Clemente Fonseca, iniziava ad edificare nel chiostro del cimitero di Poggioreale la cappella di famiglia concludendola nel ‘49. Tito Angelini mentre lavorava alla sua scultura e forse informato dal parente Orazio, fu testimone della traslazione dei resti di Eleonora avvenuta in rigorosa riservatezza, e ne affidò il segreto ai suoi messaggeri di pietra. Da lì un miscuglio di sacro e profano: angeli che invitano furtivi a guardare a destra, la palma della gloria nella mani della Madonna che punta a destra, e a destra c’è proprio la cappella gentilizia della famiglia Fonseca, e non solo. Nell’interno di essa, nell’ipogeo, c’è una nicchia sulla cui lapide vi è inciso il nome Eleonora Fonseca, ma non esiste agli atti archiviati alcun documento che dia informazioni relative a questa signora lì inumata. Ma allora, chi è..?

Un mistero nel mistero quella della tomba di Eleonora, un segreto di famiglia forse a cui probabilmente Benedetto Croce era già approdato, ma che aveva preferito tacere, pur lasciandone un arcano indizio, visto che sul frontespizio del suo Albo Storico della rivoluzione del’99 aveva messo proprio il bassorilievo di Tito Angelini raffigurante l’esecuzione di Eleonora.

Per quale ragione Croce non ne abbia proferito parola non lo sappiamo. Tutto ciò che alla fine mi viene di pensare e che forse allora non era ancora giunto il tempo di svelarlo.

Antonella Orefice


La pubblicazione dell'immagine di Ettore Carafa, coperta da copyright, è stata autorizzata al Portale del Sud dall’avente diritto dott.ssa Pina Catino, che ringraziamo.


In data 6 febbraio 2009 è stata effettuata una ricognizione dei resti dei martiri del 1799 (tra cui Ettore Carafa) sepolti nei sacelli del pronao della chiesa del Carmine Maggiore di Napoli. Lo studio storico-paleopatologico è stato richiesto e condotto dalle dott.sse Antonella Orefice (storica) e Marielva Torino (paleopatologa) ed autorizzato sia dalla Diocesi di Napoli ( mons. Edoardo Parlato responsabile dei beni artistici e culturali della diocesi di Napoli) che dal Comune di Napoli (ass. Francesco Crispino ed il dirigente responsabile dei servizi cimiteriali di Napoli avv. Giuseppe Caputo).

A causa di un cono detritico che ne impediva l'ispezione nonchè l'ingresso, non è stato possibile effettuare alcun esame nel sacello a sinistra dell'ingresso principale della chiesa. Il sacello di destra invece, sgombro da materiale di riporto ha consentito l'accesso ed una discesa in esso a circa due metri di profondità.

La presenza di acqua proveniente probabilmente da qualche falda nel sottusuolo, oltre ad aver reso la terrasanta fangosa ed a costituire una minaccia per le fondamenta stesse della chiesa, ha impedito uno studio approfondito sui resti mortali lì seppelliti. Alcune ossa ancora riaffiorano dal terreno ed essendo in connessione, lasciano supporre che i corpi in origine siano stati gettati interi e che quindi non ci si trova in presenza di un ossario.

Nonostante sia stata presentata una relazione sullo stato di degrado e pericolosità del sito, sia presso l'ufficio competente della diocesi di Napoli che quello del Comune di Napoli, non è stato fino adesso preso alcun tipo di provvedimento nè si è considerata alcuna ipotesi di soluzione del problema.

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