Durante la notte del 21 dicembre del 1798, la
famiglia del re Borbone Ferdinando IV con le
alte personalità del regno si misero in salvo
imbarcandosi a Napoli e diretti in Sicilia per
evitare rappresaglie conseguenti alle sommosse
popolari che si verificarono in svariate località
del Regno, ed in special modo in Campania, Lucania e
Calabria, dopo le sconfitte subite dall’esercito
borbonico dai Francesi che volevano instaurare la
repubblica nel Regno di Napoli.
La proclamazione della Repubblica Napoletana avvenne
il 21 gennaio 1799, ad annunciarla al popolo
napoletano furono i patrioti chiusi nel carcere di
Castel Sant’Elmo che, liberati per mano dei Francesi
il 22 gennaio, issarono sul pennone più alto del
castello la bandiera della Repubblica Napoletana.
Il generale francese JeanAntoine-Etienne
Championnet (1762-1800) stabilì il suo quartier
generale a Capodimonte e nominò i venticinque membri
del neonato Governo Provvisorio, che emanò le
istruzioni generali per organizzare le Municipalità
ed invitò i patrioti a piantare nelle loro Comunità
gli alberi della libertà.
L’albero, simbolo religioso e politico, voleva
significare il rinnovamento politico, culturale ed
economico della nuova società, alla cerimonia per
l’innalzamento partecipavano le autorità municipali,
che tenevano comizi contro i Reali, ed il clero in
pompa magna che implorava la benedizione dal cielo.
Anche ad Eboli l’albero venne elevato il 29 gennaio
ad opera della famiglia Perretta e dei
fratelli Sebastiano e Pietro Ferrara,
figli di Giovanni Antonio, agente del
Principe Marcantonio Doria duca di Eboli e
tra i maggiori feudatari del Regno.
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La bandiera della
Repubblica Napoletana |
Intanto il Governo Provvisorio inviava nelle
province i commissari democratizzatori della
Repubblica e nel nostro circondario, appena fuori
dal confine territoriale ebolitano, nel palazzo “casina
di caccia” reale di Persano venne nominato
commissario Biagio Perretta, a Serre venne
mandato un altro ebolitano: Francesco Siniscalchi,
altri commissari repubblicani nativi di Eboli furono
Vincenzo Fulgione e Pietro del Grosso,
mentre nei paesi degli Alburni fu incaricato
commissario democratizzatore, direttamente da
Napoli, Nicola Diodati di Controne.
Ad Eboli, oltre ai su citati nominativi come si
apprende nell’elenco dei prigionieri dei “granili”,
la fede giacobina fu professata da:
Sebastiano Ferrara incaricato dalla Repubblica
di erigere alberi della libertà, Giovanni Maffia,
Gaetano Brenna, Berniero Voiaro, Pietro Maglione,
Apollinare Cantalupo, Donato Corcione,
Agostino Perretta, da un sacerdote di
nome Diego, da uno studente di nome
Giovanbattista e da un giovane di nome Marco
Antonio.
In poco tempo nei comuni dell’alta e della bassa
piana del Sele si susseguirono innalzamenti di
alberi della libertà per opera dell’estremismo
giacobino ed il loro abbattimento per la reazione
realista-sanfedista che li sostituiva con la croce
quale segno della fedeltà al Re ed alla Chiesa.
Tutto questo determinò una guerra fratricida con
conseguenze catastrofiche per le contrade del
Principato Citra.
Il 10 Marzo ad Eboli venne abbattuto l’albero della
libertà da un gruppo di armati capeggiati
dall’ebolitano Vincenzo Costa, caporale della
Guardia Armata pagata della sua città, che ottenne
dal Re, quando ritornò sul trono del Regno, il grado
di capitano, il comando del Circondario di
Montecorvino ed un appezzamento di terreno nella
località detta “Radica” nella sua città
.
Il capitano Costa aveva ricevuto aiuto dai
frati Conventuali di San Francesco di Eboli che
l’ospitarono e gli diedero la possibilità d’armarsi
fornendogli tutto lo stagno reperito nel convento. I
francesi, che erano accampati nei dintorni di Eboli,
venuti a conoscenza dell’abbattimento dell’albero
della libertà, subito si mossero per dare una
lezione al manipolo del Costa ed a pagarne le
conseguenze fu tutta la città che dovette subire la
repressione dell’esercito francese.
Da alcuni atti stipulati dal notaio Jacobus
Romano di Eboli, inseriti all’interno del
registro del notaio Vito Sarlo e datati anno
1799, si legge quello che subirono la città ed il
Convento con la Chiesa di San Francesco: “… Fra
le tante ruine quelle di questo Convento vi è
davanti agli occhi più orrerosa di tutte le altre
saccheggiato il mercoledì tredici marzo, e la
domenica diciassette non restarono che solo mura in
piedi, ed il massimo di tutti la chiesa spogliata,
le sagre imagini tagliate in pezzi e brogliate, le
sepolture aperte, li altari demoliti e per ultimo
esecrabile attentato la sagra ostia e particole
seminate fra le immondezze delle ruine e della
desolazione. A tutto questo non bastando seppure, un
disgraziato Religioso fucilato, tutti i Religiosi
fuggiaschi, Io arrestato in Salerno, e rubricato,
finalmente la rapacità insazziabile de’ Francesi
cessò per mezzo dell’Arcivescovo di Salerno con
contribuzione di docati diecimila per astenersi di
bruggiare gli ultimi avanzi del Convento. (…)”.
Intanto Ferdinando IV, con diploma del 25
gennaio 1799, aveva messo in atto la prima mossa per
arginare la rivoluzione e riconquistare il Regno di
Napoli, nominando il cardinale Fabrizio Ruffo
di Calabria suo Vicario generale col grado di
comandante in capo delle forze armate del regno.
L’alto prelato si attivò e riuscì in brevissimo
tempo nell’impresa di arruolare circa diecimila
uomini che infoltirono le fila della sua Armata
Cristiana organizzando l’insurrezione in
Calabria, Basilicata e Puglie in nome di Dio e del
Re contro i Francesi e la Repubblica Napoletana.
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Fabrizio Ruffo |
Nel dramma di questa controrivoluzione emerge quale
principale protagonista al fianco del Ruffo,
il vescovo di Policastro mons. fra Lodovico
Lodovici, dell’ordine dei Minori Osservanti,
egli, come il cardinale Ruffo, si attivò girando in
lungo e in largo il sud della provincia di Salerno,
da Eboli agli Alburni, dal cuore del Cilento fino ai
confini calabro-lucani infiammando gli animi con la
predicazione e l’esempio, tanto da raccogliere ed
armare sedicimila uomini, mettendovi a capo Don
Rocco Stoduti, dando inizio all’insurrezione nel
Principato Citeriore ed in tutti i comuni di fede
realista. Il cardinale Vicario a questo punto
credette giunto il momento di dare la responsabilità
del comando degli insorti di tutto il territorio
salernitano al vescovo di Policastro, gli affidò il
governo politico ed economico nella provincia di
Principato Citra, nominandolo “Generale
dell’Armata cristiana, commissario regio, e, suo
ministro plenipotenziario”.
Il vescovo Lodovico Lodovici nacque a
Eboli il 15 aprile del 1747. Il padre Berniero,
piccolo agricoltore, e la madre Rosa
Biancociglio lo mandarono all’età di sedici anni
a studiare a Cava de’ Tirreni nel collegio dei
Minori Osservanti degli Zoccolanti. In quel tempo
anche le famiglie popolane che avevano possibilità
economiche spingevano i loro figli a seguire la
carriera nel clero regolare o secolare e così
avvenne per il giovane Lodovico. Il clero
regolare vantava un maggior numero di giovani
reclute rispetto a quello secolare, essendo meno
costoso per lo studio più facile e di minor durata,
specialmente negli ordini mendicanti.
Lodovico
entrò in uno dei conventi dei minori osservanti tra
i cinque o sei delle diverse regole che esistevano
ad Eboli. Subito si segnalò come un giovane di
sicuro avvenire, si orientò verso gli studi
filosofici e divenne ben presto un colto lettore
ancor prima di avere l’età idonea agli ordini sacri.
Ordinato sacerdote all’età di 24 anni il 28 aprile
del 1771, continuò lo studio addottorandosi prima in
teologia nel 1775 ed in seguito in sacra scrittura
nel luglio del 1778. Lesse prima filosofia, quindi
teologia a Napoli nel convento detto “Piccolo
Ospizio” fino al 1786, fu eletto capo della
provincia napoletana del suo ordine e divenne
confessore e consigliere di persone d’alto rango:
monache di nobile casato, gentildonne, principi e
cortigiani. Coltivò le lettere e la poesia, fu
iscritto col nome di Eristeneo Tespiense
nell’Accademia de’ Sinceri laureati
dell’Arcadia reale di Napoli, fondata e fusa
coll’Aletina nel 1794. Nel secolo
diciottesimo nel regno vi era una miriade di colonie
arcadiche e di accademie di ogni genere, anche in
Eboli, città natale del Lodovici, ne fiorì
una sotto il nome di Accademia de’
Fortunati.
In un manoscritto datato 1803 il nipote Cosmo
Lodovici, canonico cantore della Collegiata
della città di Eboli, tra gli arcadi sebezj “Salmoneo
Meleagride” ed accademico sincero laureato,
raccolse in un volume le gesta di suo zio per
tramandarne ai posteri la memoria. Questo
“diario-raccolta” venne in possesso del prof.
Francesco Paolo Cestaro il quale da attento storico
lo studiò e lo ritenne un importante e curioso
saggio sanfedista perché era una sicura fonte di
notizie storiche e biografiche, che citavano
documenti singolari e mettevano in risalto lo
spirito e la reazione popolare del nostro
circondario contro i Francesi e la Repubblica
Napoletana.
Il volume, legato in carta pecora, è un manoscritto
composto di 382 pagine, contiene oltre duecento
componimenti di autori diversi ed è intitolato “Raccolta
di varie composizioni italiane e latine in
lode dell’Ill.mo e Rev.mo Mons, Lodovico Lodovici
fatta dal Rev.mo Signore Cosmo Lodovici” -Eboli
MDCCCIII-. In questa raccolta si trovavano inseriti
parecchi componimenti poetici di ebolitani tra cui
alcuni sonetti del signor D. Carlo d’Orsi
(che fra gli Accademici Sinceri laureati aveva
scelto il nome di Demarete Megalite,
dai quali si apprende che egli nel 1797 aveva
iniziato a scrivere la storia degli uomini illustri
ebolitani), un’elegia latina di Donato Campagna
ed una “cantata” per la caduta di Picerno di
Salmoneo Meleagride ( Cosmo
Lodovici).
Il canonico oltre a lodare lo zio lo descrive anche
dal lato caratteriale e fisico:
“… aveva aspetto maestoso, facondia e maniere
piacevoli, nel conversare era sempre pronto,
eccellente nell’insegnamento, colla predicazione e
nel sostenere dispute dommatiche e
scritturali, vacue dispute dialettiche, che a quel
tempo erano molto in voga. Egli acquistò la fama di
uomo dottissimo e insieme savio e prudente. Era,
perciò, consultato nell’interpetrazione de’ luoghi
difficili della Scrittura e ne’ dubbi e nelle
difficoltà della casistica; e fu chiamato a dirigere
le coscienze delicate di persone d’alto affare che
lo portarono a contatto con uomini illustri e
potenti di quel tempo che l’aiutarono a salire sui
gradini più alti della scala sociale. Coltivò le
belle lettere e fu ascritto, col nome di Eristeneo
Tespiense, nell’accademia dei Sinceri
Laureati dell’Arcadia reale di Napoli… ”.
Fra
Lodovico venne nominato lettore emerito e
passò per i conventi di tante province, nella nostra
andò prima a Montoro, nel Principato Ultra,
fondandovi un convento del suo ordine, poi passò
nella vicina Bracigliano a reggere il convento dei
Francescani Scalzi e “ …Fu la rivoluzione che
venne a cercarlo e trarlo dal suo ritiro…” come
scrive il suo biografo. Lodovico Lodovici
venne eletto vescovo nel settembre del 1791 su
proposta di re FedinandoIV, gli fu
assegnata una piccolissima diocesi: “Cotrone”,
solo quattromila anime, quante ne può avere una
parrocchia di una piccola città. Nel settembre del
1797, visti i suoi meriti accresciuti e valutati i
suoi ottimi servizi, fu mandato a reggere una
diocesi più importante, quella di “Policastro”,
nel Principato Citeriore, che contava sessantamila
anime.
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L'emblema della
Repubblica Napoletana |
Alla caduta della Repubblica, venerdì 14 giugno
1799, Lodovico Lodovici, per la sua fedeltà
verso il re, fu uno dei sei commissari regi nominati
da Ferdinando IV ed inviato come “visitatore”
con pieni poteri nelle terre di Lucera, Trani,
Montefusco, della Capitanata (foggiano) e nel
contado del Molise.
Mons. Lodovici
ebbe una parte importantissima nella restaurazione
del Regno Borbonico, egli ritenne utile e doveroso
aiutare la Chiesa e contribuire a restaurare la
monarchia, il suo impegno per la riuscita di questa
missione durò oltre due anni e nel novembre del 1801
fece ritorno alla diocesi di Policastro.
Fu un pastore zelante e determinato nel raccogliere
intorno a sé i contendenti delle due fazioni per
questo il re lo creò “nobile Signore, e Barone
delle Terre di Torre Orsaia, e di Castel
Ruggiero, e del Feudo di Seleuci”.
Dopo la battaglia di Austerlitz, 2 dicembre 1805, i
francesi occuparono il Regno di Napoli decretando la
fine della dinastia; Lodovico Lodovici nel
1806 fu esiliato a Roma, dove divenne assistente al
soglio pontificio, ritornò nel 1811 nella sua
diocesi, dove morì e fu sepolto il 17 gennaio 1819:
aveva 72 anni.
Mariano Pastore