Il Latifondismo nel Mezzogiorno italiano e le rivolte
dei contadini fra Otto e Novecento non rappresentarono
solamente una complessa pagina di storia, ma divennero
ben presto un vero e proprio “fatto letterario” cui
guardarono con interesse numerosi scrittori ed
intellettuali. Frutto di questa attenzione, numerose
pagine di pregevole letteratura che rappresentano una
sorta di “trait d’union” dal Verismo di Giovanni Verga
al Realismo di Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini.
Nelle loro intense descrizioni, attraverso tanti
fotogrammi, ecco tutta una serie di storie, personaggi,
situazioni e colori che uniscono, intorno a medesimi
problemi, contesti storico geografici apparentemente
diversi, della Sicilia di Giovanni Verga all’Abruzzo di
Ignazio Silone.
Negli anni del Risorgimento italiano, fra le più intense
pagine di denunzia sulla situazione dell’agricoltura
calabrese si segnalano quelle che Vincenzo Padula,
scrittore ed antropologo calabrese, pubblicò a più
riprese sul suo settimanale “Il Bruzio” dove, a
qualche anno dall’avvenuta unificazione italiana, il
sacerdote acrese si domandava:
“Un contadino pari al nostro, che conosce d’essere
povero, imbruttito, lordo, sporco, ignorante e ne ride
non merita pietà da noi? Non è degno che ci occupiamo di
educarlo, di migliorarlo, di fargli nascere in petto il
sentimento della dignità umana? Esso attualmente –
osserva – non è un uomo, ma un’appendice
dell’animale. Lavora per mangiare, mangia per far forza
a lavorare, poi dorme: ecco tutta la sua vita. Sente i
bisogni dell’intelligenza? No. Sente quelli del cuore?
Neppure. E pensare che dopo una vita intera vissuta a
stecchetto egli parte dal mondo senza aver conosciuto né
il mondo, né Dio, né le meraviglie del mondo e di Dio”.
[1]
Effettivamente, come Vincenzo Padula avrà modo più volte
di denunziare, neppure la fine del Regno borbonico e la
nascita dello Stato italiano cambiarono la situazione
dei contadini calabresi. La loro condizione era del
tutto simile a quella dei contadini siciliani descritti
da Giovanni Verga che, ne “La Roba” presenta la
storia di Mazzarò: un contadino diventato signore, che
trasforma in avidità tutte le precedenti frustrazioni.
Eppure attraverso la propria scaltrezza ed il proprio
sudore, ne aveva comprate di terre…
“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini
– questo il noto incipit della novella da cui sarà
successivamente tratto il romanzo “Mastro Don
Gesualdo” – steso là come un pezzo di mare morto,
e le stoppe riarse della Piana di Catania, e gli aranci
sempre verdi di Francoforte, e i sugheri grigi di
Resecone, e i pascoli deserti di Passanato e di
Passanitello, se domandava per ingannare la noia della
lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo
nell’ora in cui i cui campanelli della lettiga suonavano
tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano
ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la
sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal
sonno della malaria “qui di chi è?” sentiva
rispondere “di Mazzarò”.
[2]
Emblematico, il rapporto di Mazzarò con gli altri
contadini:
“I Mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i
debitori che mandavano in processione le proprie mogli a
strapparsi i capelli e battersi il petto
– continua la novella - per scongiurarlo di non
metterli in mezzo alla strada, col prendersi il mulo e
l’asinello, che non avevano da mangiare”. “Lo vedete
quel che mangio io?” ripeteva lui. “Pane e
cipolla! E si che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il
padrone di tutta questa roba”. E se gli domandavano
un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva:
“che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto
costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?
E se gli domandavano un soldo rispondeva che non
l’aveva”.
L’avvento delle Giubbe Rosse di Giuseppe
Garibaldi, in tale situazione di povertà, fu salutata
dai braccianti siciliani come l’avvento
dell’uguaglianza, ma nemmeno la conquista dell’isola
dall’Eroe dei due mondi modificò la situazione dei
braccianti siciliani. Lo ricorda ancora Giovanni Verga,
nella novella “Libertà!” in cui lo scrittore
catanese ricostruisce la rivolta di Bronte per la
divisione delle terre.
“Al grido di “Viva la Libertà
– narra Giovanni Verga – la folla spumeggiava e
ondeggiava davanti al casino dei gentiluomini, davanti
al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di
berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano.
Poi irruppe in una stradicciola. “A te per prima,
barone! Che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!”.
Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi
capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.
“A te, prete del diavolo! Che ci hai succiato l’anima!”.
“A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno,
tanto sei grasso del sangue del povero!”. “A te sbirro!
Che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva
niente”. “A te, guardaboschi! Che hai venduto la tua
carne e la carne del prossimo per due tarrì al giorno!”
e il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le
mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue. “Ai
galantuomini, ai cappelli, ammazza! Ammazza! Addosso ai
cappelli!”.
Quale la normalizzazione della situazione? Alla violenza
dei braccianti risponde la violenza della risposta
garibaldina, letta dagli stessi contadini come una sorta
di tradimento: in fondo a dare speranza e coraggio alla
rivolta era stato quel Tricolore che, evidentemente, non
era foriero di libertà ed uguaglianza.
“Il giorno dopo
– continua la novella – si udì che veniva a far
giustizia il generale, quello che faceva tremare la
gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati
salire lentamente per il burrone, verso il paesetto;
sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per
schiacciarli tutti, ma nessuno si mosse”.
In pochi giorni, tutto tornò come prima. Per i rivoltosi
di Bronte ci fu un processo in cui furono nominati
giudici i galantuomini padroni delle terre. I contadini
colpevoli della rivolta, invece, furono condotti in
carcere. Per tre anni “nel gran carcere alto e vasto
come un convento, tutto bucherellato da finestre colle
inferiate”. Ed al momento dell’arresto, sulle labbra di
uno dei rivoltosi, il Carbonaio, tutto il
disincanto per quanto era accaduto:
“Dove mi conducete? In Galera? O perché? Non mi è
toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che
c’era la libertà…”
Legata a filo doppio alla Sicilia di Giovanni Verga la
Calabria descritta nel primo Novecento da Corrado
Alvaro. La vita dello scrittore e giornalista di San
Luca, cittadina dell’Aspromonte calabrese, fu una vita
da viaggiatore come testimoniano le sue lunghe
permanenze nelle maggiori città europee, ma le sue più
intense descrizioni sono quelle dedicate alla sua
Calabria meridionale come quelle di “Gente
d’Aspromonte”: raccolta di racconti
pubblicata nel 1930. Sono novelle in cui, oltre ai
richiami a “I Malavoglia” di Giovanni Verga,
affiorano nelle pagine di Alvaro i richiami al sostrato
mitologico e greco di cui, anche la Calabria di oggi è
ancora ricca.
"Non è bella
– scrive Corrado Alvaro - la vita dei pastori in
Aspromonte, d'inverno quando i torbidi torrenti corrono
al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I
pastori stanno nelle case costruite di frasche e di
fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi
lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare
che protegge le spalle, come si vede talvolta
raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I
torrenti hanno una voce assordante”.
[3]
Del tutto diversa, invece, la vita dei signori e le loro
residenze. Quest’ultime, da come le descrive lo stesso
scrittore, sono quasi delle regie:
“Con portici, stalle, cucine, giardini, servi. Il popolo
si agitava e si affannava intorno a questa casa che era
attigua alla chiesa, dove era tutta la ricchezza, tutto
il bene e il male del paese
(...) essere servi in quella casa era già un
privilegio (...) Dovunque ci si voltava era terra
di questa casa, dalle foreste sui monti agli orti
acquatici verso il mare. Dovunque, comunque. Era loro la
terra, loro le ulive che vi cadevano sopra, erano loro
le foreste sui monti intorno, loro i campi tosati di
luglio (...) Quanti schiaffi volarono sulle facce
dei contadini, quanti calci dietro a loro! Le anticamere
rigurgitavano di gente misera che aspettava di essere
ricevuta, rovinata per un maiale precipitato in qualche
strapiombo. Qui si discuteva della roba".
Per il pastore Argirò, uno dei personaggi alvariani,
l’unica speranza di redenzione è quella che potrebbe
venire da Benedetto, il figlio minore mantenuto con non
pochi sacrifici in seminario. Quando lo stesso chierico
ritorna a casa per l’estate, non senza orgoglio, l’Argirò
si bea a farlo incontrare con i paesani ed addirittura
lo accompagna in visita dai signori. La tristezza, però,
arriva quando il pastore preso dalla nostalgia, decide
di andarlo a visitare in città. Dopo un lungo
peregrinare, scorge un gruppo di seminaristi. Si
avvicina, fra di loro c’è anche Benedetto che, però, lo
respinge; forse vergognandosene. E’ quaresima, questa la
giustificazione del seminarista, e la quaresima è il
tempo del silenzio e della meditazione non quello delle
ciarle. Quasi in contemporanea alla pubblicazione di
“Gente in Aspromonte”, nella Lucania raccontata da
Carlo Levi, l’impressione dei contadini che vi vivevano
era di essere ancora lontani dalla redenzione:
“Cristo non è mai arrivato qui, né vi è mai arrivato il
legame fra le cause e gli effetti. Cristo non è
arrivato, come non erano arrivati i Romani, che
presidiavano le strade e non entravano fra i monti e
nelle foreste, né i Greci che fiorivano sul mare di
Metaponto e Sibari. Nessuno degli arditi uomini di
occidente – denuncia Carlo Levi - ha portato quaggiù il
suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia
statale, né la sua perenne attività che cresce su sé
stessa”.
[4]
È questa landa abbandonata ad accogliere per il pittore
e medico torinese, che vi era stato esiliato dallo Stato
fascista. Ad accoglierlo una delle più desolate
periferie della Penisola italiana. Una Regione, quella
descritta dal “Cristo si è fermato ad Eboli”, in
cui per una superstizione ancora viva, in cui gli uomini
e le bestie condividevano la propria quotidianità oltre
che con le proprie fatiche, con quei “fuschi,
fusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o
angelica”, col “malocchio”. Era la cosiddetta “magia
lucana” descritta dall’antropologo Ernesto De
Martino che, descrivendo la superstizione lucana, le
riconosceva un’origine colta collegata alla
“rielaborazione della magia naturale nella Rinascienza”
collegandola, fra gli altri, a Giordano Bruno e Tommaso
Campanella.
“La magia del Sud
– scrive, infatti, Ernesto De Martino - non è
soltanto costruita dai relitti di arcaici rituali che
cadono in desuetudine ogni giorno che passa, ma anche
dalla particolare accentuazione magica del cattolicesimo
meridionale: è qui già non è più possibile parlare di
logori relitti e di forme di vita magico religiosa che
non abbiano importanza attuale per tutti gli strati
della società meridionale”.
[5]
Scritto di getto fra il 1943 ed il 1945, in uno dei
bienni cioè più terribili della storia italiana, il
“Cristo si è fermato ad Eboli” non è semplicemente
il diario di un viaggio o di una travagliata esperienza
di vita. “Questo libro racconta – spiega lo
stesso Carlo Levi – come in un viaggio al principio
del tempo, la scoperta di una diversa civiltà. E’ quella
dei contadini del Mezzogiorno: fuori dalla storia e
dalla ragione progressiva”. E l’esperienza lucana
non solo influenzerà fortemente lo Scrittore piemontese,
ma lascerà alla letteratura nazionale delle
indimenticabili pagini di denuncia relativa alla vita
dei contadini lucani. Epica la descrizione società della
Lucania del tempo che Carlo Levi mette sulle labbra del
tenente Decunto, capo della Milizia che col medico
forestiero si apre ad alcune confidenze.
“C’erano i galantuomini
– osserva lo stesso tenente – e c’erano i briganti. I
figli dei galantuomini e i figli dei briganti. Il
fascismo non aveva cambiato le cose. Anzi, prima, con i
partiti, la gente per bene poteva stare tutta da una
parte, sotto una bandiera particolare, e distinguersi
dagli altri e lottare sotto una veste politica. Ora –
aggiunge il graduato – non ci resta che le lettere
anonime, e le pressioni e le corruzioni in prefettura.
Perché nel fascismo ci stanno tutti. Io, vede, sono di
una famiglia di liberali. I miei bisnonni sono stati in
prigione sotto i Borboni, ma il segretario del Fascio sa
chi è? E’ il figlio di un brigante. Proprio il figlio di
un brigante. E tutti gli altri che gli tengono bordone,
e che adesso comandano il paese, sono tutti della stessa
risma”.
Nulla da stupirsi, se come osserva il medico torinese,
dagli stessi braccianti lucani era difficile sentire
proprio lo Stato nazionale.
“Per i contadini lo Stato è più lontano del cielo, e più
maligno, perché sta’ sempre dall’altra parte”. “Non
importa
– aggiunge - quali siano le sue formule politiche, la
sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li
capiscono, perché è un altro linguaggio de loro, e non
c’è davvero nessuna ragione, perché li vogliano capire,
la sola possibile difesa contro lo Stato e contro la
propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa
rassegnazione senza speranza di paradiso, che curva la
loro schiena sotto i mali della natura”.
Pubblicato per la prima volta a Zurigo nel 1933, al
tempo dell’esilio in Svizzera di Ignazio Silone,
“Fontamara” è uno dei più celebri romanzi dedicati
alla situazione agraria dell’Italia meridionale. Con
un’ampia gamma di stili e registri, dalla ballata
popolare all’indagine antropologica ed alla satira
politica, il romanzo descrive la vita dei contadini
della Marsica nei primi anni del regime fascista; quando
ai vecchi nobili e notabili del luogo come i Torlonia
ed i vari “don Circostanza” si aggiunse
“l’Impresario”. Questi, diventato podestà ed
acquistato più o meno lecitamente alcuni terreni, riesce
finanche ad impossessandosi dell’acqua di un fiume.
Capita così che, pur cambiando la storia ed i volti dei
padroni, la scala delle classi sociali, dal punto di
vista dei braccianti marsicani, rimane immutata.
“In capo a tutto
– spiega Michele Zappa, uno dei personaggi del
romanzo - c’è Dio, padrone del cielo e della terra.
Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia,
padrone della terra. Poi vengono le guardie del
principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi
vengono i cafoni. E si può dire che è finito”. “Ma le
autorità dove le metti” chiede ancora più irritato
il forestiero. “Le autorità” interviene a
spiegare Ponzio Pilato “si dividono tra il terzo ed
il quarto posto. Secondo la paga. Il quarto posto,
quello dei cani, è immenso. Questo ognuno lo sa”.
[6]
Per i cafoni, quei braccianti che non avevano della
terra propria, ancora durante il fascismo la vita
continuava ad essere difficile.
“Noi
– racconta una delle tre voci narranti – andavamo a
lavorare a Fucino, per la mietitura. Dovevamo alzarci di
mattina prima dell’alba e trovarci a fossa, sulla piazza
del mercato, prima che nascesse il sole, ad attendere
che qualcuno ci chiamasse. Non è detto quanto fosse la
nostra mortificazione. Un tempo solo i cafoni più poveri
erano costretti ad offrirsi in quel modo, sulla piazza”.
Ad approfittarsi di questa povertà i detentori di turno
del potere. Uno di questi, nelle pagine di Silone, è
don Circostanza, “amico” e “difensore” dei poveri.
Talmente amico d’aver inventato per i propri cafoni
elettori l’elisir dell’ immortalità. E la descrizione di
quest’immortalità è una delle esilaranti caricature
siloniane che per alcuni rappresentanti della politica
potrebbe essere ancora attuale.
“Una volta
– ricorda una delle tre voci narranti – quando
avevano diritto di voto solo quelli che sapevano leggere
e scrivere, egli mandò a Fontamara un maestro che
insegnò a tutti i cafoni a scrivere il nome e cognome di
don Circostanza. I Fontameresi votavano, dunque, sempre
unanimi per lui. D’altra parte, anche volendo, non
avrebbero potuto votare per altri, perché sapevano
scrivere solo quel nome. Poi cominciò un’epoca in cui la
morte degli uomini a Fontamara in età di votare non
veniva più notificata al Comune, ma a don Circostanza,
il quale, grazie alla sua arte, li faceva rimanere vivi
sulla carta e ad ogni elezione li lasciava votare a modo
suo”.
Ritornata, finalmente, la democrazia e nata la
Repubblica democratica, riecco le proteste collegate
alla situazione agraria, affatto mutata. Una di queste
ce la racconta un altro scrittore calabrese: Fortunato
Seminara che all’agricoltura calabrese ha donato
numerose pagine.
“Passano nelle strade dietro una bandiera rossa,
cantando e gridando dicono
“Evviva!” e “Abbasso!” e altre cose che si
perdono nel frastuono. Sono tutti eccitati e alzano i
pugni in un gesto di minaccia, giovani, vecchi e
ragazzi. Alcune donne camminavano in testa a tutti e le
loro voci acute coprono quelle degli uomini”.
Il contendere? La richiesta di un aumento della paga
giornaliera. Proseguendo il proprio racconto intitolato
“Il Vento Nell’Oliveto”, lo scrittore sviscera la
situazione agricola del suo tempo.
“Ma chi deve dare la terra?
– domanda - certamente quelli che ne possiedono molta
e non riescono a coltivarla tutta (…). Ma se si
vuole spogliare tutti i proprietari allora è un altro
conto. Allora dico che quello che conta non è tanto
decidere a chi debba appartenere la terra, quanto
piuttosto il modo che si possa vivere tutti bene”.
La protesta dura più giorni poi, finalmente, la svolta:
“Io sostengo che bisogna cedere. Possiamo anche vincere
– afferma il signore di cui lo scrittore è diventato
voce - ma il danno sarà maggiore del guadagno, la
sconfitta lascerà odio nel cuore dei braccianti, e
lavoreranno come schiavi, svogliati, e faranno la
vendetta (…). Hanno già avuto una lezione: una
settimana di lavoro perduto conta nelle famiglie povere,
scava un vuoto, ma se chiederanno altri aumenti allora
dobbiamo doppiamente resistere. Prevale il mio pensiero.
Mandiamo una persona ad annunciare che concederemo
l’aumento a patto che domattina vengano a lavorare. A
mezzogiorno i braccianti si riuniscono in piazza e
celebrano con un grido di soddisfazione la loro
vittoria, poi tornano nelle bettole a bere”.
[7]
Oltre che numerosi scrittori, guardarono al Marchesato
crotonese, anche le telecamere di Pier Paolo Pasolini
che, almeno idealmente, volle dedicare ai contadini del
Sud uno dei suoi film più noti, “Il Vangelo Secondo
Matteo”. Lo stesso film, girato nel 1964, fu
ambientato in alcune località rupestri
dell’Italia meridionale dal Lazio alla Basilicata con i
noti Sassi di Matera, dalla Puglia alla Calabria fra Le
Castella di Isola Capo Rizzuto ed i calanchi di Cutro.
Lo stesso regista friulano, inoltre, volle gli stessi
braccianti meridionali nel cast dello stesso film,
costituito in gran parte da attori non professionisti. A
distanza di qualche anno dall’uscita del film, lo
scrittore e regista friulano fu denunciato dalla Giunta
comunale democristiana di Cutro per la descrizione che
aveva dato della stessa cittadina in un proprio
reportage.
|
Dal film "Il Vangelo secondo Matteo" |
“Ecco, a un distendersi delle dune gialle
– aveva scritto il regista friulano – in una specie
di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina ma è
un luogo che di più mi impressiona di tutto il lungo
viaggio”. “E’, veramente, il paese dei banditi
– aggiunge Pasolini - come si vede in certi westerns.
Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si
sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o,
se non dalla legge dalla cultura del nostro mondo, a un
altro livello”.
[8]
“Banditi”, spiegherà lo Scrittore friulano, era
termine utilizzato nell’eccezione filologica di
“esiliati” e messi fuori dalla società come erano e
continuarono ad essere lungamente i contadini calabresi.
Ciò nonostante, per essere stato pubblicato nel corso di
una campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio
comunale cutrese, il reportage di Pasolini subì un
esposto dall’uscente Amministrazione comunale
democristiana che, dopo essere descritta da varie
testate nazionali, il 26 aprile del 1962, sarà ritirato
dalla nuova maggioranza comunale. Intanto, nelle pagine
di “Paese Sera”, lo stesso Pasolini aveva
replicato alle accuse spiegando il proprio punto di
vista esplicitando il proprio, intenso, amore per la
Calabria ed il Crotonese.
“La storia della Calabria
– scriveva Pier Paolo Pasolini – implica
necessariamente il banditismo, se da due millenni essa è
una terra dominata, sotto governata, depressa.
Paternalismo e tirannia, dai Bizantini agli Spagnoli,
dai Borboni ai Fascisti, che cos’altro potevano produrre
se non una popolazione nei cui caratteri sociali si
mescolano una dolorosa arretratezza e un fermo spirito
di rivolta? E appunto per questo non si può non amarla,
non essere tutti dalla sua parte, non avversare con
tutta la forza del cuore e della ragione chi vuol
perpetuare questo stato di cose, ignorandola, mettendo a
tacere, mistificandola”.[9]
Francesco Rizza
Note
[1]
Vincenzo Padula
“I Braccianti” in “Stato delle Persone” ”Il Bruzio” (6 luglio 1864)
[2]
Giovanni Verga
“La Roba” in “Tutte le Novelle” Oscar Mondadori, giugno 1968
[3]
Corrado Alvaro “Gente d’Aspromonte” Garzanti editore 2000
[4]
Carlo Levi
“Cristo si è fermato ad Eboli” Oscar Mondadori luglio 1977.
[5]
Ernesto De Martino “Sud e Magia” nella collana “I Fatti E Le Idee”
Feltrinelli editore marzo 1979.
[6]
Ignazio Silone “Fontamara” ne “I Classici Mondadori”, 1949.
[7]
Fortunato Seminara
“Il Vento nell’Oliveto”. Einanudi, Torino, 1951.
[8]
Pier Paolo
Pasolini “La Lunga Strada di Sabbia” in “Successo” (estate 1959)
[9]
Pier Paolo
Pasolini “Lettera dalla Calabria” in “Paese Sera” (27, 28 ottobre
1959).
Pubblicato da Il Portale del Sud nel luglio 2012 |