Le Pagine di Storia

Latifondismo e letteratura: la “Questione delle terre” nella letteratura italiana fra Otto e Novecento

di Francesco Rizza

Il Latifondismo nel Mezzogiorno italiano e le rivolte dei contadini fra Otto e Novecento non rappresentarono solamente una complessa pagina di storia, ma divennero ben presto un vero e proprio “fatto letterario” cui guardarono con interesse numerosi scrittori ed intellettuali. Frutto di questa attenzione, numerose pagine di pregevole letteratura che rappresentano una sorta di “trait d’union” dal Verismo di Giovanni Verga al Realismo di Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini. Nelle loro intense descrizioni, attraverso tanti fotogrammi, ecco tutta una serie di storie, personaggi, situazioni e colori che uniscono, intorno a medesimi problemi, contesti storico geografici apparentemente diversi, della Sicilia di Giovanni Verga all’Abruzzo di Ignazio Silone.

Negli anni del Risorgimento italiano, fra le più intense pagine di denunzia sulla situazione dell’agricoltura calabrese si segnalano quelle che Vincenzo Padula, scrittore ed antropologo calabrese, pubblicò a più riprese sul suo settimanale “Il Bruzio” dove, a qualche anno dall’avvenuta unificazione italiana, il sacerdote acrese si domandava:

“Un contadino pari al nostro, che conosce d’essere povero, imbruttito, lordo, sporco, ignorante e ne ride non merita pietà da noi? Non è degno che ci occupiamo di educarlo, di migliorarlo, di fargli nascere in petto il sentimento della dignità umana? Esso attualmente – osserva – non è un uomo, ma un’appendice dell’animale. Lavora per mangiare, mangia per far forza a lavorare, poi dorme: ecco tutta la sua vita. Sente i bisogni dell’intelligenza? No. Sente quelli del cuore? Neppure. E pensare che dopo una vita intera vissuta a stecchetto egli parte dal mondo senza aver conosciuto né il mondo, né Dio, né le meraviglie del mondo e di Dio”. [1]

Effettivamente, come Vincenzo Padula avrà modo più volte di denunziare, neppure la fine del Regno borbonico e la nascita dello Stato italiano cambiarono la situazione dei contadini calabresi. La loro condizione era del tutto simile a quella dei contadini siciliani descritti da Giovanni Verga che, ne “La Roba” presenta la storia di Mazzarò: un contadino diventato signore, che trasforma in avidità tutte le precedenti frustrazioni. Eppure attraverso la propria scaltrezza ed il proprio sudore, ne aveva comprate di terre…

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini – questo il noto incipit della novella da cui sarà successivamente tratto il romanzo “Mastro Don Gesualdo” steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppe riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francoforte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passanato e di Passanitello, se domandava per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo nell’ora in cui i cui campanelli della lettiga suonavano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria “qui di chi è?” sentiva rispondere “di Mazzarò”. [2]

Emblematico, il rapporto di Mazzarò con gli altri contadini:

“I Mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le proprie mogli a strapparsi i capelli e battersi il petto – continua la novella - per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col prendersi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare”. “Lo vedete quel che mangio io?” ripeteva lui. “Pane e cipolla! E si che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba”. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: “che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva”.

L’avvento delle Giubbe Rosse di Giuseppe Garibaldi, in tale situazione di povertà, fu salutata dai braccianti siciliani come l’avvento dell’uguaglianza, ma nemmeno la conquista dell’isola dall’Eroe dei due mondi modificò la situazione dei braccianti siciliani. Lo ricorda ancora Giovanni Verga, nella novella “Libertà!” in cui lo scrittore catanese ricostruisce la rivolta di Bronte per la divisione delle terre.

“Al grido di “Viva la Libertà – narra Giovanni Verga – la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei gentiluomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola. “A te per prima, barone! Che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!”. Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. “A te, prete del diavolo! Che ci hai succiato l’anima!”. “A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!”. “A te sbirro! Che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente”. “A te, guardaboschi! Che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarrì al giorno!” e il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue. “Ai galantuomini, ai cappelli, ammazza! Ammazza! Addosso ai cappelli!”.

Quale la normalizzazione della situazione? Alla violenza dei braccianti risponde la violenza della risposta garibaldina, letta dagli stessi contadini come una sorta di tradimento: in fondo a dare speranza e coraggio alla rivolta era stato quel Tricolore che, evidentemente, non era foriero di libertà ed uguaglianza.

“Il giorno dopo – continua la novella – si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti, ma nessuno si mosse”.

In pochi giorni, tutto tornò come prima. Per i rivoltosi di Bronte ci fu un processo in cui furono nominati giudici i galantuomini padroni delle terre. I contadini colpevoli della rivolta, invece, furono condotti in carcere. Per tre anni “nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferiate”. Ed al momento dell’arresto, sulle labbra di uno dei rivoltosi, il Carbonaio, tutto il disincanto per quanto era accaduto:

“Dove mi conducete? In Galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…”

Legata a filo doppio alla Sicilia di Giovanni Verga la Calabria descritta nel primo Novecento da Corrado Alvaro. La vita dello scrittore e giornalista di San Luca, cittadina dell’Aspromonte calabrese, fu una vita da viaggiatore come testimoniano le sue lunghe permanenze nelle maggiori città europee, ma le sue più intense descrizioni sono quelle dedicate alla sua Calabria meridionale come quelle di “Gente d’Aspromonte”: raccolta di racconti pubblicata nel 1930. Sono novelle in cui, oltre ai richiami a “I Malavoglia” di Giovanni Verga, affiorano nelle pagine di Alvaro i richiami al sostrato mitologico e greco di cui, anche la Calabria di oggi è ancora ricca.

"Non è bella – scrive Corrado Alvaro - la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante”. [3]

Del tutto diversa, invece, la vita dei signori e le loro residenze. Quest’ultime, da come le descrive lo stesso scrittore, sono quasi delle regie:

“Con portici, stalle, cucine, giardini, servi. Il popolo si agitava e si affannava intorno a questa casa che era attigua alla chiesa, dove era tutta la ricchezza, tutto il bene e il male del paese (...) essere servi in quella casa era già un privilegio (...) Dovunque ci si voltava era terra di questa casa, dalle foreste sui monti agli orti acquatici verso il mare. Dovunque, comunque. Era loro la terra, loro le ulive che vi cadevano sopra, erano loro le foreste sui monti intorno, loro i campi tosati di luglio (...) Quanti schiaffi volarono sulle facce dei contadini, quanti calci dietro a loro! Le anticamere rigurgitavano di gente misera che aspettava di essere ricevuta, rovinata per un maiale precipitato in qualche strapiombo. Qui si discuteva della roba".

Per il pastore Argirò, uno dei personaggi alvariani, l’unica speranza di redenzione è quella che potrebbe venire da Benedetto, il figlio minore mantenuto con non pochi sacrifici in seminario. Quando lo stesso chierico ritorna a casa per l’estate, non senza orgoglio, l’Argirò si bea a farlo incontrare con i paesani ed addirittura lo accompagna in visita dai signori. La tristezza, però, arriva quando il pastore preso dalla nostalgia, decide di andarlo a visitare in città. Dopo un lungo peregrinare, scorge un gruppo di seminaristi. Si avvicina, fra di loro c’è anche Benedetto che, però, lo respinge; forse vergognandosene. E’ quaresima, questa la giustificazione del seminarista, e la quaresima è il tempo del silenzio e della meditazione non quello delle ciarle. Quasi in contemporanea alla pubblicazione di “Gente in Aspromonte”, nella Lucania raccontata da Carlo Levi, l’impressione dei contadini che vi vivevano era di essere ancora lontani dalla redenzione:

“Cristo non è mai arrivato qui, né vi è mai arrivato il legame fra le cause e gli effetti. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i Romani, che presidiavano le strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i Greci che fiorivano sul mare di Metaponto e Sibari. Nessuno degli arditi uomini di occidente – denuncia Carlo Levi - ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su sé stessa”. [4]

È questa landa abbandonata ad accogliere per il pittore e medico torinese, che vi era stato esiliato dallo Stato fascista. Ad accoglierlo una delle più desolate periferie della Penisola italiana. Una Regione, quella descritta dal “Cristo si è fermato ad Eboli”, in cui per una superstizione ancora viva, in cui gli uomini e le bestie condividevano la propria quotidianità oltre che con le proprie fatiche, con quei “fuschi, fusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica”, col “malocchio”. Era la cosiddetta “magia lucana” descritta dall’antropologo Ernesto De Martino che, descrivendo la superstizione lucana, le riconosceva un’origine colta collegata alla “rielaborazione della magia naturale nella Rinascienza” collegandola, fra gli altri, a Giordano Bruno e Tommaso Campanella.

“La magia del Sud – scrive, infatti, Ernesto De Martino - non è soltanto costruita dai relitti di arcaici rituali che cadono in desuetudine ogni giorno che passa, ma anche dalla particolare accentuazione magica del cattolicesimo meridionale: è qui già non è più possibile parlare di logori relitti e di forme di vita magico religiosa che non abbiano importanza attuale per tutti gli strati della società meridionale”. [5]

Scritto di getto fra il 1943 ed il 1945, in uno dei bienni cioè più terribili della storia italiana, il “Cristo si è fermato ad Eboli” non è semplicemente il diario di un viaggio o di una travagliata esperienza di vita. “Questo libro racconta – spiega lo stesso Carlo Levi – come in un viaggio al principio del tempo, la scoperta di una diversa civiltà. E’ quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori dalla storia e dalla ragione progressiva”. E l’esperienza lucana non solo influenzerà fortemente lo Scrittore piemontese, ma lascerà alla letteratura nazionale delle indimenticabili pagini di denuncia relativa alla vita dei contadini lucani. Epica la descrizione società della Lucania del tempo che Carlo Levi mette sulle labbra del tenente Decunto, capo della Milizia che col medico forestiero si apre ad alcune confidenze.

“C’erano i galantuomini – osserva lo stesso tenente – e c’erano i briganti. I figli dei galantuomini e i figli dei briganti. Il fascismo non aveva cambiato le cose. Anzi, prima, con i partiti, la gente per bene poteva stare tutta da una parte, sotto una bandiera particolare, e distinguersi dagli altri e lottare sotto una veste politica. Ora – aggiunge il graduato – non ci resta che le lettere anonime, e le pressioni e le corruzioni in prefettura. Perché nel fascismo ci stanno tutti. Io, vede, sono di una famiglia di liberali. I miei bisnonni sono stati in prigione sotto i Borboni, ma il segretario del Fascio sa chi è? E’ il figlio di un brigante. Proprio il figlio di un brigante. E tutti gli altri che gli tengono bordone, e che adesso comandano il paese, sono tutti della stessa risma”.

Nulla da stupirsi, se come osserva il medico torinese, dagli stessi braccianti lucani era difficile sentire proprio lo Stato nazionale.

“Per i contadini lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta’ sempre dall’altra parte”. “Non importa – aggiunge - quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio de loro, e non c’è davvero nessuna ragione, perché li vogliano capire, la sola possibile difesa contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione senza speranza di paradiso, che curva la loro schiena sotto i mali della natura”.

Pubblicato per la prima volta a Zurigo nel 1933, al tempo dell’esilio in Svizzera di Ignazio Silone, “Fontamara” è uno dei più celebri romanzi dedicati alla situazione agraria dell’Italia meridionale. Con un’ampia gamma di stili e registri, dalla ballata popolare all’indagine antropologica ed alla satira politica, il romanzo descrive la vita dei contadini della Marsica nei primi anni del regime fascista; quando ai vecchi nobili e notabili del luogo come i Torlonia ed i vari “don Circostanza” si aggiunse “l’Impresario”. Questi, diventato podestà ed acquistato più o meno lecitamente alcuni terreni, riesce finanche ad impossessandosi dell’acqua di un fiume. Capita così che, pur cambiando la storia ed i volti dei padroni, la scala delle classi sociali, dal punto di vista dei braccianti marsicani, rimane immutata.

“In capo a tutto – spiega Michele Zappa, uno dei personaggi del romanzo - c’è Dio, padrone del cielo e della terra. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire che è finito”. “Ma le autorità dove le metti” chiede ancora più irritato il forestiero. “Le autorità” interviene a spiegare Ponzio Pilato “si dividono tra il terzo ed il quarto posto. Secondo la paga. Il quarto posto, quello dei cani, è immenso. Questo ognuno lo sa”. [6]

Per i cafoni, quei braccianti che non avevano della terra propria, ancora durante il fascismo la vita continuava ad essere difficile.

“Noi – racconta una delle tre voci narranti – andavamo a lavorare a Fucino, per la mietitura. Dovevamo alzarci di mattina prima dell’alba e trovarci a fossa, sulla piazza del mercato, prima che nascesse il sole, ad attendere che qualcuno ci chiamasse. Non è detto quanto fosse la nostra mortificazione. Un tempo solo i cafoni più poveri erano costretti ad offrirsi in quel modo, sulla piazza”.

Ad approfittarsi di questa povertà i detentori di turno del potere. Uno di questi, nelle pagine di Silone, è don Circostanza, “amico” e “difensore” dei poveri. Talmente amico d’aver inventato per i propri cafoni elettori l’elisir dell’ immortalità. E la descrizione di quest’immortalità è una delle esilaranti caricature siloniane che per alcuni rappresentanti della politica potrebbe essere ancora attuale.

“Una volta – ricorda una delle tre voci narranti – quando avevano diritto di voto solo quelli che sapevano leggere e scrivere, egli mandò a Fontamara un maestro che insegnò a tutti i cafoni a scrivere il nome e cognome di don Circostanza. I Fontameresi votavano, dunque, sempre unanimi per lui. D’altra parte, anche volendo, non avrebbero potuto votare per altri, perché sapevano scrivere solo quel nome. Poi cominciò un’epoca in cui la morte degli uomini a Fontamara in età di votare non veniva più notificata al Comune, ma a don Circostanza, il quale, grazie alla sua arte, li faceva rimanere vivi sulla carta e ad ogni elezione li lasciava votare a modo suo”.

Ritornata, finalmente, la democrazia e nata la Repubblica democratica, riecco le proteste collegate alla situazione agraria, affatto mutata. Una di queste ce la racconta un altro scrittore calabrese: Fortunato Seminara che all’agricoltura calabrese ha donato numerose pagine.

“Passano nelle strade dietro una bandiera rossa, cantando e gridando dicono “Evviva!” e “Abbasso!” e altre cose che si perdono nel frastuono. Sono tutti eccitati e alzano i pugni in un gesto di minaccia, giovani, vecchi e ragazzi. Alcune donne camminavano in testa a tutti e le loro voci acute coprono quelle degli uomini”.

Il contendere? La richiesta di un aumento della paga giornaliera. Proseguendo il proprio racconto intitolato “Il Vento Nell’Oliveto”, lo scrittore sviscera la situazione agricola del suo tempo.

“Ma chi deve dare la terra? – domanda - certamente quelli che ne possiedono molta e non riescono a coltivarla tutta (…). Ma se si vuole spogliare tutti i proprietari allora è un altro conto. Allora dico che quello che conta non è tanto decidere a chi debba appartenere la terra, quanto piuttosto il modo che si possa vivere tutti bene”.

La protesta dura più giorni poi, finalmente, la svolta:

“Io sostengo che bisogna cedere. Possiamo anche vincere – afferma il signore di cui lo scrittore è diventato voce - ma il danno sarà maggiore del guadagno, la sconfitta lascerà odio nel cuore dei braccianti, e lavoreranno come schiavi, svogliati, e faranno la vendetta (…). Hanno già avuto una lezione: una settimana di lavoro perduto conta nelle famiglie povere, scava un vuoto, ma se chiederanno altri aumenti allora dobbiamo doppiamente resistere. Prevale il mio pensiero. Mandiamo una persona ad annunciare che concederemo l’aumento a patto che domattina vengano a lavorare. A mezzogiorno i braccianti si riuniscono in piazza e celebrano con un grido di soddisfazione la loro vittoria, poi tornano nelle bettole a bere”. [7]

Oltre che numerosi scrittori, guardarono al Marchesato crotonese, anche le telecamere di Pier Paolo Pasolini che, almeno idealmente, volle dedicare ai contadini del Sud uno dei suoi film più noti, “Il Vangelo Secondo Matteo”. Lo stesso film, girato nel 1964, fu ambientato in alcune località rupestri dell’Italia meridionale dal Lazio alla Basilicata con i noti Sassi di Matera, dalla Puglia alla Calabria fra Le Castella di Isola Capo Rizzuto ed i calanchi di Cutro. Lo stesso regista friulano, inoltre, volle gli stessi braccianti meridionali nel cast dello stesso film, costituito in gran parte da attori non professionisti. A distanza di qualche anno dall’uscita del film, lo scrittore e regista friulano fu denunciato dalla Giunta comunale democristiana di Cutro per la descrizione che aveva dato della stessa cittadina in un proprio reportage.

Dal film "Il Vangelo secondo Matteo"

“Ecco, a un distendersi delle dune gialle – aveva scritto il regista friulano – in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina ma è un luogo che di più mi impressiona di tutto il lungo viaggio”. “E’, veramente, il paese dei banditi – aggiunge Pasolini - come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello”. [8]

Banditi”, spiegherà lo Scrittore friulano, era termine utilizzato nell’eccezione filologica di “esiliati” e messi fuori dalla società come erano e continuarono ad essere lungamente i contadini calabresi. Ciò nonostante, per essere stato pubblicato nel corso di una campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale cutrese, il reportage di Pasolini subì un esposto dall’uscente Amministrazione comunale democristiana che, dopo essere descritta da varie testate nazionali, il 26 aprile del 1962, sarà ritirato dalla nuova maggioranza comunale. Intanto, nelle pagine di “Paese Sera”, lo stesso Pasolini aveva replicato alle accuse spiegando il proprio punto di vista esplicitando il proprio, intenso, amore per la Calabria ed il Crotonese.

“La storia della Calabria – scriveva Pier Paolo Pasolini – implica necessariamente il banditismo, se da due millenni essa è una terra dominata, sotto governata, depressa. Paternalismo e tirannia, dai Bizantini agli Spagnoli, dai Borboni ai Fascisti, che cos’altro potevano produrre se non una popolazione nei cui caratteri sociali si mescolano una dolorosa arretratezza e un fermo spirito di rivolta? E appunto per questo non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuol perpetuare questo stato di cose, ignorandola, mettendo a tacere, mistificandola”. [9]

Francesco Rizza


Note

[1] Vincenzo Padula “I Braccianti” in “Stato delle Persone” ”Il Bruzio” (6 luglio 1864)

[2] Giovanni Verga “La Roba” in “Tutte le Novelle” Oscar Mondadori, giugno 1968

[3] Corrado Alvaro “Gente d’Aspromonte” Garzanti editore 2000

[4] Carlo Levi “Cristo si è fermato ad Eboli” Oscar Mondadori luglio 1977.

[5] Ernesto De Martino “Sud e Magia” nella collana “I Fatti E Le Idee” Feltrinelli editore marzo 1979.

[6] Ignazio Silone “Fontamara” ne “I Classici Mondadori”, 1949.

[7] Fortunato Seminara “Il Vento nell’Oliveto”. Einanudi, Torino, 1951.

[8] Pier Paolo Pasolini “La Lunga Strada di Sabbia” in “Successo” (estate 1959)

[9] Pier Paolo Pasolini “Lettera dalla Calabria” in “Paese Sera” (27, 28 ottobre 1959).


Pubblicato da Il Portale del Sud nel luglio 2012

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