Di seguito si propone un passo di Vestiti e colori:
“Non mancano cenci e rattoppi nelle tavole di Lindström; egli non indulge nella rappresentazione oleografica della gente comune, secondo la quale questa appare tutto sommato felice del proprio stato perché incorrotta e dotata di una naturale sensibilità. In fondo, Napoli offriva di sé un’immagine composita e colorata, l’idea di un universo in permanente subbuglio, di un teatro dei mille mestieri e sistemi di condurre la vita, non certo, invece, di una metropoli tentacolare, dotata di un ventre che sia il luogo del vizio e della dissoluzione. I vestiti lacerati e rammendati, le scarpe deformate e sfondate (quando ci sono) non scandalizzano, anche perché non si accompagnano a un sentimento di disagio, o a una denuncia, o a un messaggio di solidarietà e di rivolta; ogni discorso, ogni possibile angoscia si stemperano inevitabilmente nel pittoresco, nel curioso, nel particolare inconsueto. Nelle tavole di Lindström ciascuno mette in campo quel che sa fare, poco o tanto che sia, portare in spalla la bara di un bambino, cuocere maccheroni, scrivere, qualunque abilità e servizio tornano utili, hanno un significato sociale; ogni cosa può servire, non si butta nulla, ogni cosa può servire, anche se rotta e consunta può conservare una funzionalità, assumerne una nuova. C’è una logica dietro, che non è solo quella del conservare a ogni costo, ma del riuso, del recupero, del riacconciare, ricucire, recuperare; in quest’ottica ogni oggetto ha comunque un suo pregio e si muove in un ciclo di trasformazioni. Se si considera questa dinamicità, tanto più risulta artificiosa la fissazione di un modello, di un abito quando assume la definizione di costume popolare. Con questo non voglio di-sconoscere che esistono forme e fogge del vestire che hanno una durata lunga: voglio dire che esse in un contesto storico preciso si vedono attribuire un determinato valore simbolico e per questo assumono rilevanza e un significato che resistono anche in tempi successivi, quando sembrerebbero fuori luogo rispetto alle abitudini suntuarie generalmente condivise; gli esempi da proporre sono tanti, si pensi alle livree dei domestici, ai paramenti sacri, alle toghe dei magistrati, al frac dei direttori d’orchestra. Come ho accennato sopra, il cosiddetto costume popolare, stabilito paese per paese, contrada per contrada sulla base di ritratti eseguiti tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima del XIX, spesso riproduzioni di precedenti stampe, ha subito un processo analogo, è una specie di invenzione. Vorrei ricordare qui il caso esemplare, dettagliatamente studiato, del costume popolare scozzese, il cosiddetto kilt, vestito attribuito ai più antichi abitanti della Scozia, il cui colore cambiava a seconda del clan di appartenenza. Questo è dato comunemente per scontato, ma sappiamo anche che si tratta di una vera e propria mistificazione; quando i sovrani e i principi inglesi indossano il gonnellino di lana a quadretti non vestono i panni di lontani eroici mitici highlanders, ma fanno una figura molto meno nobile. Un quacchero inglese, Thomas Rawlinson, costruì una fornace per la fusione del ferro tra i boschi di Inverness; gli operai impiegati per l’abbattimento degli alberi che dovevano fornire la legna necessaria indossavano il consueto plaid stretto alla cintura, indumento utile a fungere da coperta e più comodo dei pantaloni perché lasciava scoperte le gambe in un ambiente umido e acquitrinoso; siamo negli anni Trenta del Settecento. Rawlinson ebbe l’intuizione di semplificare quel capo per renderlo meno ingombrante, e per questo bastava separare la sottana rendendola autonoma dal resto del plaid: “Possiamo quindi concludere”, scrive lo storico Hugh Trevor-Roper, “che il kilt è un costume assolutamente moderno, progettato, e portato per la prima volta, da un industriale quacchero inglese, che lo offrì agli highlanders non per tutelare il loro modo di vita tradizionale, ma per facilitarne la trasformazione: per strapparli all’erica e portarli in fabbrica”. Il movimento romantico impose, infine, a dispetto delle obiezioni di filologi e storici, l’attributo di antichità dell’indumento, che divenne simbolo della vecchia buona vita selvaggia e di una identità nazionale. In modo meno rumoroso, ma, sostanzialmente, non dissimile, si è determinato un po’ dappertutto il conferimento della patente di costume popolare agli abiti: un oggetto diventa tradizionale quando tale è definito da una qualche forma di autorità (scientifica, politica, morale) che in tale veste lo descrive e lo impone. Costumi e vestimenti di Lindström sembrerebbe rifuggire da siffatti meccanismi di istituzionalizzazione, sebbene, forse involontariamente, ne assecondi altri che agiscono più sottilmente nella produzione di stereotipi, come quello del napoletano fantasioso e incostante, maestro come pochi nell’arte di arrangiarsi, appassionato cultore della religione dei santi ma non necessariamente dei dieci comandamenti, furbo e affamato come Pulcinella, tendenzialmente sfortunato e dedito all’autocommiserazione. Ma credo che, giunti a questo punto, alla conclusione del presente discorso sia opportuno assumere una posizione, per così dire, maggiormente panoramica, cercare di spaziare da lontano con lo sguardo sul terreno storico e culturale, e il lettore mi scuserà se per rendere chiara questa intenzione racconterò brevemente un episodio autobiografico. Qualche anno fa, alcuni colleghi dell’Università della Basilicata ed io demmo vita a una rivista di etnografia; decidemmo di dedicare il primo numero interamente alla Basilicata, in omaggio alla regione che ci ospitava e che, come è noto, rappresenta per la storia degli studi antropologici in Italia un luogo particolarmente significativo, e ci fermammo non poco a riflettere su quale fosse l’immagine più adatta da riportare in copertina: la scelta cadde sul dettaglio di un tessuto di ginestra, coloratissimo, prodotto a San Costantino Albanese. La materia prima, povera, di cui era costituito rinviava a un legame stretto con il territorio in cui abbonda la pianta utilizzata; oltre a ciò, la trama e l’intrecciarsi dei colori di un oggetto realizzato in una comunità albanese invita a pensare ai contatti e agli intrecci tra gruppi e persone, succedutisi o ripetuti nel tempo in un luogo che non è stato scenario passivo di questi incontri, ma che li ha accolti subendone trasformazioni, sfruttamento, modificazioni. Ernest Gellner ha affermato che una ideale mappa il mondo somiglia a un dipinto di Kokoschka, un quadro in cui la confusione dei diversi punti di colore è tale che nessun elemento si distingue nei. I mille e più colori dei capi di abbigliamento, i materiali dei tessuti, le sovrapposizioni dei cenci, i ricami certosini delle doti, i luminosi abiti delle spose, i monili più e meno preziosi, il nero del lutto dipingono la storia degli uomini, e in questo mondo variopinto trova senso il desiderio coltivato anche nei momenti bui della vita, nella miseria, nella povertà: indossare una volta tanto l’abito della festa ed oggetti di pregio, un vestito di stelle, di luna, di sole, come avvenne per la Gatta Cenerentola, liberarsi dalla fatica e dal lavoro e dai consueti panni quotidiani”.
Indice del volume: Vestiti e colori; 1. Osservare, osservare; 2. Vestiti e porcellane; 3. Il popolo e la cultura; 4. Cenci; Bibliografia; Costumi e Vestiture Napolitani disegnati ed incisi nel 1836 da Carl Jacob Lindström.
L’Autore: Eugenio Imbriani (1958) insegna Antropologia culturale presso l’Università di Lecce. I suoi studi più recenti riguardano i temi della scrittura popolare e le questioni relative alle politiche della memoria; si occupa di folklore ed ha pubblicato numerosi saggi sugli aspetti della cultura popolare in particolare nell’Italia meridionale. Fra i suoi volumi più recenti ricordiamo La scrittura infinita (2002), Dimenticare. L’oblio come pratica culturale (2004). Per i tipi della Capone Editore ha già pubblicato Nel paese delle livree. Folklore in frammenti (1990).
Il volume, formato 21x21 cm circa, consta di 108 pagine, interamente
a colori, ed è posto in vendita al prezzo di Euro 12,00. Informazioni e ordini:
info@caponeditore.it
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